venerdì 15 maggio 2020

Ma il coronavirus impatterà sulla gestione e sulla disponibilità di cibo?


Un estratto di questo articolo è stato pubblicato su Econopoly del Sole24 ore in data 15.5.2020


Immaginare come potrebbe essere il post-coronavirus è come fare affidamento sull’arte divinatoria degli aruspici, consistente nell’esame delle viscere di animali sacrificali per trarne segni premonitori: opera illusoria, priva di elementi concreti su cui elaborare e lavorare; meglio non fare troppo affidamento sulle previsioni di guru di varia disciplina.
Restano poche cose certe, come quelle che fanno riferimento a clima e cibo; dal loro rapido esame traiamo alcune indicazioni: dobbiamo prepararci ad un futuro che strizza l’occhio al passato, una sorta di ritorno alla tesi di Malthus ( https://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Robert_Malthus) così riassunta: la pressione demografica diffonde povertà e fame nel mondo, il che significa che se la popolazione eccede la disponibilità di cibo presente nella società, il risultato sarà fame e povertà. Se lo sviluppo economico ed il miglioramento delle tecnologie di produzione (agricola ed industriale) hanno negli ultimi due secoli migliorato le rese agricole, temporaneamente togliendo validità alla tesi malthusiana (basata sulla evidenza che la crescita dei mezzi di sussistenza è aritmetica, mentre quella della popolazione è geometrica, cioè ha un potenziale di incremento enorme, a meno che venga controllata, cioè soggetta a "freni preventivi", in grado di rallentarne la capacità riproduttiva) (*), l’evoluzione del cambiamento climatico ed il suo impatto sulla disponibilità di cibo, combinata allo tsunami che il coronavirus promette di scaricare su clima e cibo stessi, porta a scenari duri e difficili, ad un approdo … malthusiano.

Le domande che ci poniamo: il coronavirus impatta sulla gestione e sulla disponibilità di cibo? Dobbiamo attenderci variazioni nel paradigma alimentare, oggi diretto verso un crescente consumo di carne rispetto al passato? Le risorse diminuiranno, come potrebbe accadere con le aree coltivate? Perché?

La maggior parte dell’umanità ha sempre vissuto in regioni con una temperatura media variabile fra un minimo di 6° ed un massimo di 28°, temperature ideali per la vita umana e per la produzione di cibo; il clima sta cambiando: fra il 1979 ed il 2017 il numero di eventi potenzialmente fatali dovuti al combinato impatto di situazioni estreme di elevati caldo ed umidità è raddoppiato in numero e frequenza, in aree tropicali e sub-tropicali; in meno di 50 anni il clima, e quindi le condizioni di vita, cambierà più che nei 6.000 anni passati; nel caso la temperatura media salisse di 3°, la temperatura corporea crescerebbe di 7,5°, rendendo molto precaria la nostra vita su questa Terra (v. nota**); in questo scenario (si badi bene, dipinto prima dell’impatto del coronavirus), quasi 1/3 della popolazione mondiale vivrebbe in situazioni di caldo estremo (tecnicamente, con una temperatura media superiore a 29°), caldo combinato ad un aumento dell’umidità in regioni come India (parliamo di 1,2 milioni di abitanti), Nigeria (485 milioni), Pakistan, Indonesia, Sudan (tutti paesi che superano, ciascuno, i 100 milioni). Condizioni negative per la vita umana, per l’allevamento, per l’agricoltura e quindi per le risorse alimentari. O scappi, o ti adatti. L’adattamento a temperature ed umidità così elevate è difficile, oggi inimmaginabile, sicuramente per la maggior parte della popolazione interessata. Resta la migrazione. Dove? Certamente non nelle aree urbane litoranee, dove già vivono i 2/3 della popolazione mondiale, e che in caso di aumento della temperatura dei mari di 2° verrebbero in parte sommerse dal mare. 

Ma siamo solo all’inizio della storia …

Tre quarti del cibo consumato nel pianeta è fatto di riso, grano, mais; metà di tutto quanto mangiano i 7 miliardi di esseri umani è rappresentato da riso. L’efficienza produttiva e lo sfruttamento del terreno variano in modo considerevole fra paesi “avanzati” (negli Stati Uniti a metà del secolo scorso 1 ettaro produceva 2 tonnellate di cereali ed un contadino poteva lavorarne circa 25 con una produzione annua di 50 tonnellate; oggi,  grazie a miglioramenti nella tecnica e nell’irrigazione, la produttività consente di lavorare 100 ettari con una produzione annua di 1.000 tonnellate per ogni contadino) ed “arretrati” (nell’Africa sub-sahariana, 1 ettaro produce quasi 700 chili di cereali ed ogni contadino lavora in media 1 ettaro, producendo quindi 700 chili annui). 1/3 della popolazione mondiale, oggi, non ha cibo a sufficienza, e gli sforzi per ridurne il numero sono stati largamente infruttuosi, con un aumento della pressione demografica. 

Intimamente collegato al tema del cibo è il tema dell’acqua, della sua disponibilità (alta in regioni a bassa densità abitativa, bassa in quelle ad alta intensità abitativa), del suo cattivo utilizzo, della sua qualità.

Mangiare animali, nel nostro mercato globale, è un lusso, diffusosi in aree di recente sviluppo economico, come la Cina ed ampie zone del Sud Est asiatico (i paesi che crescono); mangiare carne mette l’uomo in competizione con gli animali nella scelta di che cosa mangiare; seppure per millenni gli animali abbiano mangiato erba, oggi essi mangiano gli stessi alimenti che rientrano nella dieta dell’uomo: soia, mais, altri cereali.
I bovini, 50 anni fa, erano 700 milioni: oggi sono 1.400 milioni, il doppio. Sono necessarie 4 calorie vegetali per produrre 1 caloria di pollo, 6 per 1 caloria di maiale, 10 per una caloria di bovino od agnello.
Occorrono 1.500 litri per produrre 1 chilo di mais, 15.000 litri per produrre 1 chilo di carne bovina. 1 ettaro di terra buona può produrre 35 chili di proteine vegetali, che scendono a 7 chili se utilizzate come alimento per animali.
In termini economici, mangiare carne significa “appropriarsi” di risorse vegetali che potrebbero bastare per 5 o 10 persone.
Negli ultimi decenni, il consumo di carne è raddoppiato rispetto alla popolazione, il consumo di uova è triplicato. L’allevamento di animali copre l’80% della superficie agricola coltivabile (a tecnologia attuale), assorbe il 40% della produzione mondiale di cereali ed il 10% delle risorse idriche del pianeta.  

L’uomo ha via via “conquistato” terreno coltivabile distruggendo foreste ed habitat animali, quegli stessi animali che possono - come fanno sempre più spesso … - trasmettere virus e batteri all’uomo, cosa che avviene sia con animali selvatici con cui si viene direttamente in contatto in queste aree “di confine”, sia indirettamente, tramite contatti fra animali selvatici ed animali domesticati, come sono gli animali che vivono in allevamenti, destinati alla macellazione ed al consumo per l’uomo. Tutto va bene sino a quando va bene, in queste aree marginali, che nel tempo si sono necessariamente estese per fra fronte all’aumento esponenziale del fabbisogno di carne. Senza dimenticare che la concentrazione di animali domesticati in spazi ristretti moltiplica l’effetto di virus animali (si pensi ai ricorrenti casi di pandemie aviarie e suine). Viviamo circondati da virus e batteri malefici, sempre più combattivi e resistenti, e destinati a vincere, sicuramente nel medio termine. Le nostre medicine possono molto, ma non tutto; certo, qualche progresso rispetto alla Peste Nera (“casualmente” proveniente dalle steppe sino-asiatiche a dorso di cavallo mongolo) c’è stato, se ricordiamo che la metà degli abitanti europei morì per sua causa diretta.

Allora, che facciamo? Una semplice analisi costi/benefici ci potrebbe aiutare – se lo volessimo - a dirimere la questione; se spingiamo oltre la politica alimentare attuale (più carne!) corriamo rischi crescenti in termini di esposizione a virus e batteri dannosi per l’uomo, spesso mortali; se ci fermiamo e viriamo verso una riduzione di spazi destinati all’allevamento intensivo ed un aumento della coltivazione vegetale, avremmo risorse sufficienti per tutta l’umanità?

E se uniamo i puntini fra cambiamento climatico e scelta alimentare, passando per le perigliose cuspidi delle domande inevase sull’impatto futuro del coronavirus, il quadretto che ci troviamo ad osservare descrive il classico “worst case scenario”:

-        - per limitare, se non escludere, il diffondersi di virus letali per l’uomo, sarà necessario abbandonare gli allevamenti animali posti vicino agli habitat delle specie selvagge; il risultato sarà una riduzione della produzione di carne; queste aree non saranno disponibili, se non in parte, per la coltivazione vegetale per consumo umano; questa sarà una prima risposta “strategica” per combattere la possibile diffusione di nuovi e vecchi virus, avendone avuta dolorosa esperienza;

-       -   in modo crescente, si dovranno incrementare, a discapito dell’allevamento di bestiame, le coltivazioni di alimenti di origine vegetale, che hanno una migliore resa, ma anche un valore proteico inferiore alla carne; per molti, sarebbe un “passo indietro” di difficile accettazione;

-        gli spazi destinati alla agricoltura potrebbero rapidamente ridursi, in alcuni casi esaurirsi, anche per effetto del cambiamento climatico; il risultato sarebbe una riduzione, forse sostanziale, del cibo disponibile;


Avremo una riduzione delle risorse, e quindi una riduzione del tasso di crescita (se non una sua inversione) della popolazione, che si dovrà allineare alla dinamica della disponibilità di risorse alimentari: tornerebbe il “vecchio paradigma” della crescita aritmetica (positiva e/o negativa) di risorse alimentari (cibo) e popolazione, con una tendenza all’allineamento. “uno vale uno”, ovvero Malthus is back!

Uno scenario arduo da accettare: chi si approprierà delle (sempre più) scarse risorse alimentari (inclusa l’acqua)? Chi oggi già ne ha la disponibilità, i ricchi paesi del Nord del mondo, oppure chi dai paesi poveri del mondo sarà costretto a migrare, pacificamente o più spesso non pacificamente?

Il coronavirus non ha fatto altro che metterci dinanzi, inesorabilmente, a dure scelte. Il governo del mondo, peraltro, è oggi largamente dominato da paesi che adottano quelle che eufemisticamente potremmo chiamare “politiche antipatiche” (USA, Russia, Cina, Turchia, Brasile), ma che contano più di tutti gli altri messi insieme.

Fasten your seat belt, and pray!


Bibliografia essenziale:
“La ricchezaa e la povertà delle nazioni”, David S. Landes
“La fame”, Martin Caparròs
"One billion people will live in insufferable heat within 50 years", The Guardian, 5.5.2020 (nota **)


(*) Nota esemplificativa della c.d. crescita geometrica:
Narra la leggenda che all’inventore degli scacchi, che presentava in dono al re di Persia il suo nuovo gioco, venne chiesto cosa voleva in cambio del suo regalo. Egli chiese soltanto del riso e disse che la quantità si doveva calcolare mettendo un chicco di riso nella prima casella della scacchiera, 2 chicchi nella seconda, 4 nella terza, 8 nella quarta, e così via, in modo da mettere in ogni casella il doppio dei chicchi messi nella casella precedente. Il simpaticone chiese poi che gli fosse consegnato il contenuto della 64-esima casella. Il re acconsentì prontamente e chiese che fosse portato il riso, rimanendo allibito quando i suoi esperti lo informarono che la quantità di riso richiesta superava di gran lunga le risorse del suo impero! Facciamo un piccolo calcolo. Stimando in 1/45 di grammo il peso medio di un chicco di riso, il peso di 263 chicchi (quelli che dovrebbero trovarsi nella 64-esima casella) è di oltre 200 miliardi di tonnellate. Considerando che la produzione mondiale di riso nel 2014 è stata di 741 milioni di tonnellate, capiamo che evidentemente il re non poté soddisfare tale richiesta

martedì 1 ottobre 2019

Gli Stati Uniti hanno due economie divergenti. E da noi come va?

Questo articolo è apparso su Econopoly de IlSole24ore martedì 1 ottobre 2019.

Grandi avvenimenti sono occorsi negli Stati Uniti negli ultimi 10 anni, a leggere un rapporto (“America has two economies – and they’re diverging fast”) preparato dal think tank Brookings e dal Wall Street Journal; un ritratto di come il voto degli americani si stia polarizzando, con gli stati delle coste orientale ed occidentale e delle aree ad elevata concentrazione di lavoratori “high skilled” – tipicamente quelli occupati nei settori tecnologici, dei servizi digitali, dell’economia dei servizi ad alta efficienza – che vedono i propri elettori preferire, in modo spesso assai marcato, il voto ai Democratici, e gli stati agricoli e con economie “tradizionali” contrassegnate da lavoratori con competenze più contenute ed a minore produttività che invece preferiscono votare per i Repubblicani.
Questa polarizzazione è aumentata fra il 2008 ed il 2018, un periodo (breve in termini di eventi economici, più lungo in termini “politici”) in cui gli USA sono passati da una amministrazione democratica, segnata dalla gestione Obama, ad una repubblicana, segnata dalla presidenza “fuori le righe” di Trump, il cui messaggio politico ha riscosso un particolare successo negli stati “old economy”.
Ricordiamo che la distribuzione della popolazione, negli Stati Uniti, è disomogenea fra i singoli stati, diversi anche per estensione geografica; l’analisi evidenzia alcuni aspetti peculiari della situazione odierna, confrontata con quella di 10 anni fa, dei singoli distretti elettorali (che spesso divergono da una rigida collocazione geografica statale).
Nel 2008, i distretti che votarono democratico, spesso distretti urbani, “coprivano” il 39% del territorio statunitense, contro il 61% dei distretti conservatori; 10 anni dopo, la mappa si era modificata, con solo il 20% del territorio contrassegnato dal “blu” democratico, contro il “rosso” conservatore; una distribuzione che riflette anche la più bassa densità della popolazione nelle aree rurali.
Ma quando si passa ad esaminare gli aspetti economici e demografici, si osserva una decisa modifica intervenuta nel decennio in esame: il reddito medio familiare dei distretti “democratici” è passato da 54.000 $ nel 2008 a 61.000 $ nel 2019, quello dei distretti “conservatori, nello stesso periodo, è sceso da 55.000$ a 53.000$ (si veda il grafico del Brookings qui sotto).
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Questo diverso andamento è ovviamente legato alla diversa “performance economica” delle singole aree geografiche, ed ulteriori dati sembrano confermare questa ipotesi iniziale. La produttività per occupato è cresciuta del 18% nei distretti “dem” ed è invece rimasta stabile nei distretti “cons”; gli adulti con un diploma universitario sono passati dal 28,4% (2008) al 35,6% (2018) della popolazione nei distretti “dem”, mentre nei distretti “cons” questi valori sono passati dal 26,4% al 27,8% nello stesso periodo; la concentrazione urbana della popolazione è cresciuta dall’86,7% al 94,6% nei distretti “dem” nel decennio, mentre è diminuita dall’82,7% al 75,6% nei distretti “cons”; in modo altrettanto significativo, la percentuale degli occupati in servizi professionali e “digitali” è passata dal 63,7% al 71,1% nei distretti “dem”, nel decennio, mentre la stessa percentuale nei distretti “cons” è scesa dal 36,3% al 28,9%; non sembri sorprendente, allora, osservare come la percentuale degli occupati nella c.d industria di base (“la “vecchia” manifattura) sia oggi il 43,6% contro il 53,9% di 10 anni fa nei distretti “dem”, e sia invece salita dal 46,2% al 56,4% nei distretti “cons”; e che la quota di popolazione nata all’estero ed integrata nel sistema domestico sia oggi pari al 20,1% (contro il 15,4% 10 anni fa) nei distretti “dem” ed all’8,1% (10,5% nel 2008) nei distretti “cons”; i distretti “cons” hanno una percentuale di popolazione “non white” del 27,3% (28% nel 2008) contro il 49,5% (39,4% nel 2008) dei distretti “dem”; ed infine, gli ultra 65enni sono il 16,5% della popolazione nei distretti “cons” (erano 12.9%) ed il 14,7% (erano il 12,7%) nei distretti “dem”.

Nel breve volgere di un decennio, i distretti che hanno votato “dem” hanno visto una crescita economica superiore, un livello di reddito in crescita (e non in diminuzione, come i distretti “cons”), una migliore educazione (adottando come criterio la percentuale di laureati sulla intera popolazione), una crescita nei settori “high tech” contro una riduzione dell’occupazione nei settori “tradizionali”, una crescita della popolazione nata all’estero e “non-white”, una minore percentuale di ultra 65enni; per contro, gli stessi indicatori, per i distretti “cons”, fanno segnare un risultato di segno contrario: più occupati nei settori “tradizionali” (dall’agricoltura all’industria di base), meno laureati, minori redditi familiari, più “white”, più ultra-65enni. Questa seconda è “l’America che ha votato Trump” e che la presidenza in carica vede come la “First, America” da salvare, od almeno difendere.
Oggi i democratici sono “ancorati” ai distretti e nelle aree urbane che crescono, spesso e molto in modo diseguale, mentre i conservatori (il GOP, Good Old Party) vede le proprie basi nelle aree rurali e extra-urbane a minore crescita, con basi economiche tradizionali o calanti, con una popolazione più anziana.

Le sfide per gli Stati Uniti sembrano quindi evidenti: da un lato cercare di ridurre, od almeno contenere, una contrapposizione fra le due Americhe che oggi si fronteggiano sul piano economico e sociale; dall’altro, trovare una sintesi politica meno “antagonista” e meno intransigente, l’una parte del paese verso l’altra.

Ma le sfide non sono, a nostro avviso, solo Oltreoceano; la nostra piccola società vive anni altrettanto febbrili, difficili, modesti sul fronte progettuale, inconsistenti sul fronte realizzativo; una analisi come quella condotta da Brookings e WSJ sarebbe da un lato altamente auspicabile; dall’altro di difficile realizzazione, non foss’altro che il bipolarismo (e quindi ci sia permesso dire: la semplificazione dei modelli, limitati a 2 negli USA) da noi non esiste e lo scenario politico, e quindi il voto degli italiani, non è frutto e risultato solo di diverse concezioni e modelli politici, di risultati economici (il famigerato PIL e l’ancor più bistrattato profitto …), di livello culturale. Ma fermiamoci qui, in attesa di una seria e circostanziata (con numeri e dati come quelli sciorinati da Brookings e WSJ) analisi del voto degli italiani in rapporto ai fenomeni economici e sociali del nostro tempo, ricordandoci che “mala tempora currunt” (e vanno veloci assai).

venerdì 23 agosto 2019

Spiagge a prezzo di saldo, il prezzo del trionfo delle lobby sullo Stato


Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24ore venerdì 17 agosto 2019.
 
Agosto, milioni di italiani sono in vacanza, alla ricerca del mare pulito, della spiaggia disponibile, del lettino e dell’ombrellone in prima fila, della facile abbronzatura. Senza pensieri, o quasi. Sono i numeri che danno pensieri … eccone alcuni in rapida sequenza (per riferimento, si veda anche il Rapporto Spiagge 2019 di Legambiente).

In Italia ci sono 7.412,4 km di coste, tutti rigorosamente facente parte del Demanio, patrimonio indisponibile dello Stato, che può concederle in uso tramite l’istituto della concessione: oggi le concessioni demaniali marittime sono 52.619, di cui 11.104 per stabilimenti balneari e 1.231 per circoli, campeggi, resort ed alberghi; il giro d’affari stimato degli stabilimenti balneari che occupano e gestiscono le spiagge italiane è di 15 miliardi di euro annui; a fronte di questi numeri, lo Stato incassa (dato 2016) 103 milioni dalle concessioni, meno dello 0,7% del fatturato degli stabilimenti balneari.

La prima considerazione è ovvia: lo Stato è un pessimo amministratore delle sue proprietà (questo già lo sapevamo, valendo per quasi tutte le iniziative che riportano il bollino “amministrato dallo Stato”); … anche i bagnanti distratti e sudaticci amabilmente sdraiati sui lettini lungo l’arenile si chiederanno: … e che cosa fa lo Stato per migliorare questa situazione? La risposta è disarmante: fa di tutto per peggiorare la sua situazione (quindi, la nostra, essendo noi i contribuenti che manteniamo in vita questo baraccone).
Ed ecco perché e come.


Lo Stato italiano da un lato non è in grado di applicare canoni corretti e “di mercato” (da cui rifugge come la peste, essendo lo Stato italiano, per definizione, onnivoro, “socialisteggiante” nonché fortemente, visceralmente pervaso di un animo corporativo), dall’altro è incapace di dare applicazione ad una direttiva europea, la “direttiva Bolkestein”, che contiene le regole che garantiscono la parità tra imprese e professionisti europei nel mercato comunitario. La direttiva Bolkestein stabilisce che i servizi e le concessioni pubbliche vengano lasciati alla libera concorrenza tra privati tramite gare con regole e criteri d’assegnazione trasparenti, che diano la possibilità a tutti gli operatori, a prescindere dal Paese europeo nel quale abbiano sede, di partecipare. E potenzialmente di aggiudicarsi la gara offrendo servizi e canoni più competitivi. Applicare la direttiva al settore del turismo balneare italiano vorrebbe dire rimettere in discussione il business sul quale si regge l’intero comparto degli stabilimenti e dall’altro mettere in chiaro la dabbenaggine dello Stato come amministratore.
(Qualcuno si chiederà: “sì, l’Italia … ma che cosa avviene in Francia, Spagna, Portogallo, Grecia?”; nello spazio ristretto concesso a questo articolo possiamo solo fare riferimento allo studio comparativo fatto sulla materia dal nostro Parlamento ; i volenterosi scopriranno che i governi stranieri sono molto più efficienti avendo ottenuto deroghe pluridecennali, cosa che gli incompetenti governanti italiani, da anni, nemmeno sono in grado di comprendere, figurarsi copiare).


Riassumendo:

– nel 2006 la direttiva Bolkenstein ha decretato l’apertura del mercato e messo a rischio-asta le concessioni demaniali marittime sino allora, ed ancora oggi, ottenute in via diretta;

– nel 2012 il governo italiano, con un atto ben definibile come “d’imperio”, ha prorogato, senza discussione ed in modo automatico, le concessioni in essere sino al 2034, così contravvenendo a quanto disposto dalla direttiva in oggetto; ovviamente, è stata aperta una procedura di infrazione contro l’Italia e fra pochi mesi è attesa la sentenza della Corte di Giustizia europea che, con tutta probabilità, boccerà la proroga delle concessioni fatta dal Governo nel 2012 con l’assunzione dell’impegno a riordinare la materia: riordino che ovviamente non c’è mai stato;

– se non bastasse, con la legge di bilancio approvata lo scorso inverno, il Governo in carica (pro-tempore…) ha aperto la strada a una proroga di ulteriori 15 anni a beneficio degli attuali stabilimenti balneari, titolari di concessioni delle aree demaniali. Un provvedimento preso nonostante una sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue di luglio 2016 avesse criticato la negligenza italiana nell’applicazione delle regole europee e chiesto di aprire le concessioni alla concorrenza internazionale tramite gare pubbliche.

A nostro avviso, esiste un legame stretto fra i 2 corni del problema, l’applicazione della direttiva Bolkestein e l’incapacità dello Stato di mettere a reddito il suo patrimonio balneare; infatti, se si aprisse alla Bolkestein ci sarebbe un prevedibile, forte aumento delle offerte per il rilascio delle concessioni, sino ad un valore reputato conveniente dall’offerente; di conseguenza, lo Stato avrebbe un aumento (riteniamo considerevole, sino a 10 volte il livello attuale) delle entrate da concessioni balneari; ed anche il problema della tutela degli attuali concessionari potrebbe essere agevolmente superato dando loro l’opzione di “pareggiare” la migliore offerta, con un adeguato “sconto” (ad esempio, pari al 10% in meno della migliore offerta).

Se una soluzione non è stata ancora trovata, dopo oltre un decennio dalla entrata in vigore della direttiva Bolkestein, forse è perché non la si vuole trovare, schiavi e prigionieri di lobby ben riconoscibili e dei relativi voti che ne derivano, al fine di perpetuare il sistema-paese in voga; sistema-paese che, a ben guardarlo, è il viatico verso il disastro annunciato.

Ma è agosto, il mare chiama e la spiaggia si fa rovente: un bel tutto e passa tutto. O forse no.

mercoledì 14 agosto 2019

Piccoli: ma cresceranno? Equity e lending crowdfunding italiani.

Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24ore mercoledì 14.8.2019

 

Dal 2014, data di nascita ufficiale, il crowdfunding ha raggiunto i 517 milioni di euro di raccolta complessiva, di cui 82 milioni come equity.
Il 4° Report italiano sul CrowdInvesting (dell’Osservatorio Crowdinvesting della School of Management del Politecnico di Milano) fotografa l’evoluzione della “raccolta alternativa”, principalmente indirizzata alle start-up innovative (che hanno rappresentato oltre il 70% della raccolta), raddoppiata nel giro di un anno: la raccolta nell’ultimo anno (dal 30 giugno 2018 al 30 giugno 2019) è stata di 49 milioni per l’equity crowdfunding  (170 campagne censite) e di 207 milioni per il lending. Le campagne di raccolta sono state finora 401, organizzate da 369 imprese diverse, 170 negli ultimi 12 mesi (quasi una ogni 2 giorni). Il tasso di successo continua a mantenersi elevato: 75% nei primi 6 mesi del 2019 (media dal 2014: 71,7%). L’obiettivo medio di raccolta per i progetti non immobiliari è salito a 191.956 euro, ed è pari a 664.231 quello degli immobiliari. “L’aumento delle detrazioni e deduzioni fiscali per startup e PMI innovative potrebbe aver portato a un aumento dell’investimento medio”, nel commento al Report.




Mediamente viene offerto in cambio il 10,4% del capitale; si consolida la prassi di offrire titoli senza diritto di voto sotto una certa soglia di investimento (e votanti sopra tale soglia). In media ogni campagna riceve il sostegno di 85,6 investitori.
Per quanto riguarda l’equity crowdfunding, sulla base dell’attuale tasso di crescita del mercato, l’Osservatorio prevede una raccolta di 60 milioni di euro nel 2019 e di 80 milioni nel 2020, dopo quella di 36 milioni del 2018.
Al 30 giugno 2019 risultavano autorizzati in Italia 35 portali, ma un buon numero di questi non si era ancora attivato. 
Solo il 10% delle imprese ha mantenuto le promesse fatte in sede di business plan dopo una campagna di equity crowdfunding: “Questi numeri sono in linea col fatto che le emittenti sono soprattutto startup innovative, che per loro natura hanno un basso tasso di successo”.
Dei 233 emittenti che hanno chiuso una prima campagna con successo, 5 sono andati in liquidazione e 7 hanno annunciato eventi successivi di vario tipo (tra exit ed eventi particolari come acquisizioni o rimborsi). Per contro, delle 101 società che non hanno avuto successo nella loro prima campagna di equity crowdfunding, soltanto 1 ci ha riprovato e ha avuto successo, mentre 13 sono state liquidate, restandone 87 ancora attive.
L’equity crowdfunding per ora ha compiuto la prima fase del suo ciclo, con le prime exit, dismissioni e write-off.




Riguardo il lending crowdfunding, al 30 giugno 2019 risultano attive in Italia 6 piattaforme destinate a finanziare persone fisiche (consumer) e 7 (più 3 in partenza) per le imprese (business), di cui 3 specializzate nel real estate. In ambito business aumentano le piattaforme che offrono il modello di investimento ‘diretto’, dando possibilità di scelta immediata al finanziatore su come allocare i prestiti, mentre in quello consumer prevale il modello ‘diffuso’, con il denaro suddiviso su tanti crediti diversificati.
Il mercato del crowdinvesting è oggi trainato dai progetti real estate, con 6 piattaforme attive che in totale hanno raccolto 15,6 milioni di euro: 8,8 milioni di euro spalmati su 8 progetti con l’equity crowdfunding e altri 6,8 milioni per 30 progetti in ambito lending.
Possiamo vedere un bicchiere mezzo pieno e quindi gioire della crescita di queste forme di finanziamento, o mezzo vuoto, rilevandone le criticità, e tutto dipende dal nostro grado di tolleranza all’alcool; oggi i numeri ci dicono che:

-         il crowdfunding è al momento trainato dal real estate e non da iniziative industriali (più o meno innovative), come era negli auspici iniziali;

-        La quota azionaria della componente equity è limitata al 10% del capitale, una quota irrilevante alla partecipazione attiva alle decisioni aziendali;

-        L’ammontare medio della raccolta di equity nelle imprese non real estate è inferiore a 200.000 euro, probabilmente insufficiente per sostenere effettivi programmi di sviluppo aziendale, se non in una primissima (spesso calcolata in mesi …) fase iniziale di start-up;

-        Solo il 10% delle imprese ha mantenuto le promesse contenute nei business plan presentati in sede di raccolta; un segnale da valutare per il futuro, se si vuole dare dignità allo strumento ed agli operatori;

-        Per l’equity crowdfunding, 35 operatori (seppure solo in parte effettivamente attivi) si sono divisi 49 milioni di raccolta negli ultimi 12 mesi, con i primi 3 portali che complessivamente hanno raccolto 29 milioni, il 60% della raccolta totale; accanto ad operatori che hanno raccolto 8 milioni di equity per le imprese sostenute, con ricavi da commissioni (in larga misura rappresentate da una percentuale sulle somme raccolte, con retainer fees contenute) che probabilmente ne hanno assicurato il punto di pareggio, ad una prima valutazione gli altri sembrano quindi ancora lontani dal raggiungere una situazione economica sostenibile; la domanda che ci poniamo è forse banale: “esiste un problema di offerta con troppi operatori per un mercato con una domanda ancora limitata? Quanti di essi saranno ancora attivi fra 12 mesi? La domanda (nuove richieste di equity crowdfunding) crescerà in modo così sostenuto da assicurare la remunerazione per tutti gli operatori?

La domanda di equity e lending crowdfunding per iniziative industriali (start-up innovative e non innovative) esiste nel nostro paese (spesso fatto di piccole iniziative che raramente superano le fasi iniziali) e va “coltivata” con ancora maggiori assiduità e costanza; il sostegno da parte del legislatore c’è; l’esperienza dei primi anni sembra positiva; i prossimi passi, confidando in rapidi successi, saranno quindi cruciali per raggiungere una dignità di mercato e di reputazione.








venerdì 2 agosto 2019

Aziende in crisi in amministrazione straordinaria, ovvero il Bengodi dei commissari.



 Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24ore venerdì 2 agosto 2019.


Non ci sono solo le procedure concorsuali previste dalla Legge Fallimentare (piani di risanamento e ristrutturazione, fallimento, liquidazione) per le imprese in crisi: non facendosi mancare nulla, la normativa italiana ha previsto nel 1999 con la legge Prodi-bis la procedura di amministrazione straordinaria per le imprese con almeno 200 dipendenti, amministrazione straordinaria modificata ed allargata alle imprese con almeno 500 dipendenti nel 2003 (in occasione del dissesto Parmalat) con la legge Marzano

Una rete di protezione ad ampio raggio, avente l’encomiabile obiettivo di salvare imprese e posti di lavoro, ripagare i debiti verso i fornitori, insomma rimettere insieme i cocci rotti.

Ad oggi, le procedure aperte con la Prodi-bis sono 101; quelle ex Marzano 28. Alcune procedure durano pochi anni (come fu per Parmalat, risanata in 2 anni), altre molti anni, con casi eclatanti: Bongioanni è “aperta” ed in Prodi-bis dal marzo 2000, Cirio, Giacomelli e Tecnosistemi dal 2003, Minerva airlines, Arquati ed Olcese dal 2004, Parmatour dal 2005. In un caso (Alitalia) sono ben 2 le imprese finite in Marzano: potenza dello strumento o potere degli “stakeholders” e degli interessi in gioco?

I soggetti chiamati, di volta in volta, a “risanare” le imprese in amministrazione straordinaria sono i commissari, nominati discrezionalmente dal MISE sino al 21016, successivamente selezionati attraverso un bando pubblico, il vaglio di una commissione ed infine scelti dal MISE, e dal 2018 scelti per sorteggio. Per la maggior parte, essi sono avvocati, professori universitari, commercialisti, e raramente managers: particolare significativo, poiché trattandosi di imprese, questi ultimi dovrebbero essere i primi ad essere chiamati per “risanare”; ma i quesiti irrisolti sono solo all’inizio di questa storia.
Sicuramente devono essere bravi e simpatici, almeno agli occhi del ministero e dei suoi funzionari: devono infatti essere rapidi nel candidarsi, come è stato nel caso di Mercatone Uno dove il bando datato 12 giugno scadeva nel pomeriggio del 14 giugno, o di Stefanel con bando emesso il 24 giugno e scadenza (sabato e domenica nel mezzo) il 27 giugno. Insomma, domanda, esame e selezione a tempo di record. E poi si dice che nei ministeri non si lavora …

Ricordiamo il numero delle imprese in Prodi-bis: 101, ed in Marzano: 28. Ebbene, i commissari che seguono i casi ex Prodi-bis sono 111, di cui 41 con più incarichi; e 48 per le 28 imprese ex-Marzano, di cui 10 con più incarichi. Fra i commissari con più incarichi, 1 ne ha 6, 2 ne hanno 5, 5 ne hanno 4.
Trattandosi di impegni non banali, la domanda sorge spontanea: ma quanto tempo i commissari, stimati e premiati professionisti, possono dedicare alle società in crisi? Come è possibile dividere il proprio tempo fra attività professionale e 5 o 6 incarichi commissariali? Lavorano di notte, a Natale e Ferragosto?


Abbiamo visto che le procedure possono durare anni, molti; nel frattempo, che cosa succede alle imprese, ai suoi dipendenti, ai suoi fornitori? Accanto a casi in cui le imprese ritrovano la rotta giusta in breve tempo, ripagando i debiti verso fornitori e mantenendo, almeno in parte, i livelli occupazionali, si hanno molti casi in cui i debiti non si ripagano, ma anzi crescono e si accumulano. Strano, poiché l’obiettivo fissato dalle leggi Prodi-bis e Marzano è chiaro: risanare e restituire al mercato.
Meno strano, ove si osservi come vengono pagati i commissari, con parcelle spesso milionarie: queste vengono calcolate sul valore del passivo e dell’attivo aziendale. Grande passivo, grande parcella. In un caso recente (la prima messa in Marzano di MercatoneUno), il compenso liquidabile ai 3 commissari ammonta a 7,2 milioni di euro. 


Alcune domande finali ci sembrano quindi d’obbligo: 

- ma le amministrazioni straordinarie sono utili al mercato o solo ai professionisti beneficiari di laute parcelle?
 
- Ed inoltre, sarebbe auspicabile mettere un limite temporale alle procedure e fissare un diverso criterio per remunerare l’attività dei commissari, limitando inoltre il numero degli incarichi a quanto effettivamente sostenibile, in termini di impegno e di tempo, dai professionisti incaricati? 

- Ha un senso limitare la scelta dei commissari ad un numero ristretto (oggi, circa 150) di persone? 

- In termini più ampi, ha significato estendere procedure straordinarie ad imprese sulla base del numero dei dipendenti rispetto alla eventuale “importanza sistemica” dell’impresa in crisi?
Occorrerebbe riaprire il dibattito e formulare un piano complessivo, lontano da logiche “di potere” ed “amicali” come quelle sinora adottate, sotto ogni tipologia e stagione di governo. Ma è agosto, fa caldo, i politici sono al mare ad abbronzarsi su spiagge riservate, e chissà quanti altri pensieri avranno per la mente, confidando di arrivare, oltre che alla fine dell’estate, anche alla fine della legislatura.