Questo articolo è apparso su Econopoly de IlSole24ore martedì 1 ottobre 2019.
Grandi avvenimenti sono occorsi negli Stati Uniti negli ultimi 10 anni, a leggere un rapporto (“America has two economies – and they’re diverging fast”) preparato dal think tank Brookings e dal Wall Street Journal;
un ritratto di come il voto degli americani si stia polarizzando, con
gli stati delle coste orientale ed occidentale e delle aree ad elevata
concentrazione di lavoratori “high skilled” – tipicamente
quelli occupati nei settori tecnologici, dei servizi digitali,
dell’economia dei servizi ad alta efficienza – che vedono i propri
elettori preferire, in modo spesso assai marcato, il voto ai
Democratici, e gli stati agricoli e con economie “tradizionali”
contrassegnate da lavoratori con competenze più contenute ed a minore
produttività che invece preferiscono votare per i Repubblicani.
Questa polarizzazione è aumentata fra il 2008 ed il 2018, un periodo
(breve in termini di eventi economici, più lungo in termini “politici”)
in cui gli USA sono passati da una amministrazione democratica, segnata
dalla gestione Obama, ad una repubblicana, segnata dalla presidenza
“fuori le righe” di Trump, il cui messaggio politico ha riscosso un
particolare successo negli stati “old economy”.
Ricordiamo che la distribuzione della popolazione, negli Stati Uniti,
è disomogenea fra i singoli stati, diversi anche per estensione
geografica; l’analisi evidenzia alcuni aspetti peculiari della
situazione odierna, confrontata con quella di 10 anni fa, dei singoli
distretti elettorali (che spesso divergono da una rigida collocazione
geografica statale).
Nel 2008, i distretti che votarono democratico, spesso distretti
urbani, “coprivano” il 39% del territorio statunitense, contro il 61%
dei distretti conservatori; 10 anni dopo, la mappa si era modificata,
con solo il 20% del territorio contrassegnato dal “blu” democratico,
contro il “rosso” conservatore; una distribuzione che riflette anche la
più bassa densità della popolazione nelle aree rurali.
Ma quando si passa ad esaminare gli aspetti economici e demografici,
si osserva una decisa modifica intervenuta nel decennio in esame: il reddito medio familiare
dei distretti “democratici” è passato da 54.000 $ nel 2008 a 61.000 $
nel 2019, quello dei distretti “conservatori, nello stesso periodo, è
sceso da 55.000$ a 53.000$ (si veda il grafico del Brookings qui sotto).
Questo diverso andamento è ovviamente legato alla diversa
“performance economica” delle singole aree geografiche, ed ulteriori
dati sembrano confermare questa ipotesi iniziale. La produttività per occupato è cresciuta del 18% nei distretti “dem” ed è invece rimasta stabile nei distretti “cons”; gli adulti con un diploma universitario
sono passati dal 28,4% (2008) al 35,6% (2018) della popolazione nei
distretti “dem”, mentre nei distretti “cons” questi valori sono passati
dal 26,4% al 27,8% nello stesso periodo; la concentrazione urbana
della popolazione è cresciuta dall’86,7% al 94,6% nei distretti “dem”
nel decennio, mentre è diminuita dall’82,7% al 75,6% nei distretti
“cons”; in modo altrettanto significativo, la percentuale degli occupati in servizi professionali e “digitali”
è passata dal 63,7% al 71,1% nei distretti “dem”, nel decennio, mentre
la stessa percentuale nei distretti “cons” è scesa dal 36,3% al 28,9%;
non sembri sorprendente, allora, osservare come la percentuale degli occupati nella c.d industria di base
(“la “vecchia” manifattura) sia oggi il 43,6% contro il 53,9% di 10
anni fa nei distretti “dem”, e sia invece salita dal 46,2% al 56,4% nei
distretti “cons”; e che la quota di popolazione nata all’estero
ed integrata nel sistema domestico sia oggi pari al 20,1% (contro il
15,4% 10 anni fa) nei distretti “dem” ed all’8,1% (10,5% nel 2008) nei
distretti “cons”; i distretti “cons” hanno una percentuale di popolazione “non white” del 27,3% (28% nel 2008) contro il 49,5% (39,4% nel 2008) dei distretti “dem”; ed infine, gli ultra 65enni sono il 16,5% della popolazione nei distretti “cons” (erano 12.9%) ed il 14,7% (erano il 12,7%) nei distretti “dem”.
Nel breve volgere di un decennio, i distretti che hanno votato “dem” hanno visto una crescita economica superiore,
un livello di reddito in crescita (e non in diminuzione, come i
distretti “cons”), una migliore educazione (adottando come criterio la
percentuale di laureati sulla intera popolazione), una crescita nei
settori “high tech” contro una riduzione dell’occupazione nei settori
“tradizionali”, una crescita della popolazione nata all’estero e
“non-white”, una minore percentuale di ultra 65enni; per contro, gli stessi indicatori, per i distretti “cons”, fanno segnare un risultato di segno contrario:
più occupati nei settori “tradizionali” (dall’agricoltura all’industria
di base), meno laureati, minori redditi familiari, più “white”, più
ultra-65enni. Questa seconda è “l’America che ha votato Trump” e che la
presidenza in carica vede come la “First, America” da salvare, od almeno
difendere.
Oggi i democratici sono “ancorati” ai distretti e nelle aree urbane
che crescono, spesso e molto in modo diseguale, mentre i conservatori
(il GOP, Good Old Party) vede le proprie basi nelle aree rurali e
extra-urbane a minore crescita, con basi economiche tradizionali o
calanti, con una popolazione più anziana.
Le sfide per gli Stati Uniti sembrano quindi evidenti:
da un lato cercare di ridurre, od almeno contenere, una
contrapposizione fra le due Americhe che oggi si fronteggiano sul piano
economico e sociale; dall’altro, trovare una sintesi politica meno
“antagonista” e meno intransigente, l’una parte del paese verso l’altra.
Ma le sfide non sono, a nostro avviso, solo Oltreoceano;
la nostra piccola società vive anni altrettanto febbrili, difficili,
modesti sul fronte progettuale, inconsistenti sul fronte realizzativo;
una analisi come quella condotta da Brookings e WSJ sarebbe da un lato
altamente auspicabile; dall’altro di difficile realizzazione, non
foss’altro che il bipolarismo (e quindi ci sia permesso dire: la
semplificazione dei modelli, limitati a 2 negli USA) da noi non esiste e
lo scenario politico, e quindi il voto degli italiani, non è frutto e
risultato solo di diverse concezioni e modelli politici, di risultati
economici (il famigerato PIL e l’ancor più bistrattato profitto …), di
livello culturale. Ma fermiamoci qui, in attesa di una seria e
circostanziata (con numeri e dati come quelli sciorinati da Brookings e
WSJ) analisi del voto degli italiani in rapporto ai fenomeni economici e
sociali del nostro tempo, ricordandoci che “mala tempora currunt” (e vanno veloci assai).