domenica 31 maggio 2015

Il tragico fallimento dell'Europa nel luglio 1914.

“”Ciò che rese la situazione anche più esplosiva fu il fatto che proprio in questo periodo la situazione politica interna delle grandi potenze spinse la loro politica estera nella zona pericolosa. (…) Non è lecito sostenere “che la causa principale del tragico fallimento dell’Europa nel luglio 1914 fu l’incapacità delle forze democratiche dell’Europa centrale e orientale di stabilire un controllo sugli elementi militaristici della società, e l’abdicazione degli autocratici non già di fronte ai loro fedeli sudditi democratici ma ai loro irresponsabili consiglieri militari”? e peggio ancora: paesi alle prese con insolubili problemi interni non sarebbero stati tentati di correre l’alea di risolverli con un trionfo esterno, specie quando i loro consiglieri militari assicuravano che, poiché la guerra era certa, era meglio farla subito?
Questo non era chiaramente il caso in Inghilterra e in Francia, nonostante i loro problemi. Lo era probabilmente in Italia, anche se per fortuna l’avventurismo italiano non poteva sa solo scatenare una guerra mondiale. Lo era in Germania? Gli storici continuano a discutere sull’effetto della politica interna della Germania sulla sua politica estera. Sembra chiaro che in Germania (come in tutte le altre potenze) l’agitazione di destra appoggiò e promosse la corsa agli armamenti, specie marittimi. Si è affermato che le agitazioni operaie e il progresso elettorale della socialdemocrazia indussero le élites dirigenti a neutralizzare i problemi interni con successo all’estero. (…) Ed era questo il caso della Russia? Sì, nella misura in cui lo zarismo, restaurato dopo il 1905 con modeste concessioni liberali, probabilmente vedeva nell’appello al nazionalismo grande-russo e alla gloria militare la via migliore per la propria rinascita e rafforzamento. E in effetti, senza la salda e entusiastica fedeltà delle forze armate, la situazione nel 1913-14 sarebbe stata più vicina alla rivoluzione che in qualsiasi momento fra il 1905 e il 1917. Ma grazie ad alcuni anni di preparazione militare (vista con timore dai generali tedeschi), la Russia poteva accettare l’idea di una guerra, cosa palesemente impossibile alcuni anni prima.
C’è tuttavia una potenza che non poteva far altro che puntare la sua esistenza nel gioco d’azzardo militare, perché senza di esso sembrava condannata: l’Austria-Ungheria, lacerata dagli anni intorno al 1895 da insolubili problemi nazionali, fra i quali quelli degli slavi meridionali sembravano i più impervi e pericolosi per tre ragioni. Primo, perché gli slavi meridionali non soltanto erano turbolenti come le altre nazionalità politicamente organizzate dell’impero plurinazionale, che facevano a gomitate per ottenere vantaggi; ma i loro problemi erano complicati dal fatto che essi appartenevano sia al governo linguisticamente flessibile di Vienna, sia al governo spietatamente magia rizzante di Budapest. (…) Secondo, perché il problema slavo dell’Austria non era districabile dalla politica balcanica, e dal 1876 si era viepiù intrecciato con quest’ultima grazie all’occupazione della Bosnia. (…) Terzo, perché il collasso dell’Impero ottomano segnava praticamente la condanna dell’Impero asburgico, a meno che questo non riuscisse a dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio di esser ancora nei Balcani una grande potenza, di cui nessuno poteva prendersi gioco. (…)
La crisi finale del 1914 fu così totalmente inaspettata, così traumatica, e in retrospettiva così ossessionante, perché fu essenzialmente un incidente della politica austriaca, che a giudizio di Vienna imponeva di “dare una lezione alla Serbia”. L’atmosfera internazionale sembrava calma. Nessun ministro degli Esteri prevedeva guai nel giugno 1914, e personalità pubbliche erano state assassinate a frequenti intervalli per decenni. In linea di massima, nessuno si scandalizzava se una grande potenza faceva la voce grossa con un piccolo e turbolento vicino. Da allora si sono scritti circa cinquemila volumi per spiegare l’apparentemente inesplicabile: come mai, nel giro di poco più di cinque settimane da Sarajevo, l’Europa si trovò in guerra. La risposta sembra oggi tanto chiara quanto banale: la Germania decise di dare all’Austria pieno appoggio, cioè di non “disinnescare” la situazione. In resto seguì inesorabilmente. Perché nel 1914 qualsiasi confronto fra i blocchi, in cui l’uno o l’altro dovesse battere in ritirata, li portava sull’orlo della guerra. Al di là di un certo punto, la pesante macchina delle mobilitazioni militari (…) non poteva più essere fermata.””
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Eric Hobsbawm, “L’età degli Imperi. 1875-1014”, Oscar Mondadori, 1995, pagg. 367-369

sabato 30 maggio 2015

Una guerra con la Germania sembrava remota.



“” Data la linea tradizionale della diplomazia britannica, una guerra contro la Germania sembrava un’ipotesi remota e trascurabile. L’alleanza permanente con una potenza continentale sembrava incompatibile col mantenimento di quell’equilibrio che era il principale obiettivo della politica estera britannica. Un’alleanza con la Francia sembrava improbabile; un’alleanza con la Russia quasi impensabile. Eppure avvenne l’inverosimile: l’Inghilterra si legò stabilmente con la Francia e la Russia contro la Germania, appianando tutte le divergenze con la Russia al punto di acconsentire a un’occupazione russa di Costantinopoli (consenso svanito con la Rivoluzione russa del 1917).

Come e perché avvenne questo cambiamento stupefacente?

Avvenne perché i giocatori e le regole del gioco diplomatico internazionale erano cambiati. In primo luogo, il tavoliere di gioco era diventato molto più grande. Le rivalità, un tempo limitate in gran parte (ad eccezione dell’Inghilterra) all’Europa e aree adiacenti, erano adesso globali e imperiali (…). Le vertenze internazionali da appianare perché non degenerassero in guerre potevano adesso riguardare l’Africa occidentale e il Congo (1880-90), la Cina (1890-1900) e il Maghreb (1906, 1911) non meno del corpo in decomposizione dell’impero ottomano; e assai più che l’Europa non balcanica. Inoltre c’erano adesso giocatori nuovi: gli Stati Uniti, che pur evitando ancora coinvolgimenti in Europa, erano attivamente espansionistici nel Pacifico, e il Giappone. L’alleanza inglese col Giappone (1902) fu in effetti il primo passo verso la Triplice Intesa, perché l’esistenza di quella nuova potenza, che avrebbe dimostrato di essere in grado di sconfiggere l’impero zarista, riduceva la minaccia russa per l’Inghilterra e rafforzava quindi la posizione inglese, rendendo possibile l’accantonamento di vari antichi motivi di contrasto russo-britannici.

Questa globalizzazione del gioco internazionale trasformò automaticamente la situazione del paese che fino allora era stato l’unica grande potenza con obiettivi politici autenticamente mondiali. Non è esagerato dire che per la maggior parte dell’Ottocento la funzione dell’Europa nei calcoli diplomatici britannici era stata di starsene tranquilla perché l’Inghilterra poteva badare alle sue faccende, per lo più economiche, nel resto del globo. Era questa l’essenza della caratteristica combinazione di equilibrio europeo e di pax britannica globale garantita dall’unica marina di dimensioni globali, che controllava tutti gli oceani e le vie marittime del mondo. A metà Ottocento tutte le altre marine militari del mondo messe insieme superavano a malapena la marina britannica da sola. Alla fine del secolo non era più così.

In secondo luogo, con l’avvento di una economia capitalistica industriale moderna, la partita internazionale si giocava per poste molto diverse. Ciò significava che (…) la guerra era diventata solo la continuazione della concorrenza con altri mezzi. Era questa un’idea che attirava i deterministi storici del tempo, se non altro perché essi vedevano abbondanti esempi di espansione economica per mezzo di mitragliatrici e cannoniere: ma era un’idea grossolanamente semplicistica. Se lo sviluppo capitalistico e l’imperialismo hanno le loro responsabilità per l’incontrollato slittamento nel conflitto mondiale, è impossibile sostenere che molti capitalisti fossero deliberatamente guerrafondai. Qualsiasi studio imparziale dei giornali economici, della corrispondenza privata e commerciale degli uomini d’affari, delle loro dichiarazioni pubbliche in quanto esponenti della banca, del commercio e dell’industria, dimostra esaurientemente che la maggioranza degli uomini d’affari riteneva vantaggiosa per loro la pace internazionale. La guerra era accettabile solo in quanto non interferiva con il normale svolgimento degli affari (…).

Perché infatti i capitalisti – e anche gli industriali, con la possibile eccezione dei fabbricanti di armi – avrebbero dovuto desiderare di turbare la pace internazionale, condizione essenziale della loro prosperità e espansione, dato che da essa dipendeva l’andamento delle libere operazioni internazionali commerciali e finanziarie?

Evidentemente chi traeva profitto dalla concorrenza internazionale non aveva motivo di lagnanza. Come la libertà di penetrare nei mercati mondiali non è uno svantaggio per il Giappone di oggi, l’industria tedesca poteva ben contentarsene prima del 1914. Chi ci rimetteva, tendeva a chiedere protezione economica ai governi; ma ciò è tutt’altra cosa che chiedere guerra. Inoltre il massimo perdente potenziale, l’Inghilterra, resistette anche a queste richieste, e i suoi interessi d’affari rimasero in grandissima prevalenza legati alla pace, nonostante i continui timori nei riguardi della concorrenza tedesca espressi a gran voce nell’ultimo decennio del secolo, e nonostante la penetrazione del mercato interno britannico da parte del capitale tedesco e americano. (…)

Eppure lo sviluppo del capitalismo spingeva inevitabilmente il mondo nella direzione delle rivalità statali, dell’espansione imperialistica, del conflitto e della guerra. Dopo il 1870, come hanno rilevato gli storici, il passaggio dal monopolio alla concorrenza fu probabilmente il fattore più importante che diede il tono all’impresa industriale e commerciale europea. La crescita economica era adesso anche lotta economica: una lotta che serviva a separare i forti dai deboli, a scoraggiare alcuni e a irrobustire altri, a favorire i paesi nuovi e famelici a spese dei vecchi. All’ottimismo riguardo a un futuro di progresso indefinito subentrò l’incertezza e un senso di agonia, nel significato classico del termine. E tutto questo rafforzò, e fu a sua volta rafforzato dall’acuirsi delle rivalità politiche, fondendosi le due forze di competizione.

Il mondo economico non era più, come a metà Ottocento, un sistema solare roteante intorno a un’unica stella, la Gran Bretagna. Se le operazioni finanziarie e commerciali del globo passavano ancora e anzi in misura crescente per Londra, l’Inghilterra non era più l’“officina del mondo”, e neanche il suo massimo mercato d’importazione. Il suo relativo declino era evidente. Adesso c’erano, e si affrontavano, una serie di economie industriali nazionali concorrenti. In queste circostanze la competizione economica si intrecciava inestricabilmente con l’azione politica e anche militare degli Stati. La rinascita del protezionismo durante la Grande Depressione fu la prima conseguenza di questo intreccio. Per il capitale, il sostegno politico poteva d’ora in avanti essere indispensabile sia per tener fuori la concorrenza estera, sia in parti del mondo in cui le imprese delle varie economie industriali nazionali concorrevano l’una con l’altra. Per gli Stati, l’economia era ormai al tempo stesso la base della potenza internazionale e il criterio della medesima. Era impossibile oramai concepire una “grande potenza” che non fosse anche una “grande economia” (…).

Viceversa, gli spostamenti di potenza economica, che cambiavano automaticamente la bilancia politica e militare, non comportavano logicamente una redistribuzione dei ruoli sulla scena internazionale?

Questa idea godeva di largo favore in Germania, paese a cui la straordinaria crescita industriale dava un peso internazionale incomparabilmente maggiore di quello avuto dalla vecchia Prussia. (…) Ciò che rendeva tanto pericolosa questa identificazione di potenza economica e politico-militare non erano soltanto le rivalità nazionali per la conquista di mercati mondiali e di risorse materiali, e per il controllo di regioni quali il Vicino e Medio Oriente, dove gli interessi economici e strategici spesso combaciavano. (…) Ma la novità della situazione era che, data la fusione di economia e politica, neanche la pacifica divisione di regioni contese in “zone di influenza” riusciva a imbrigliare le rivalità internazionali. La chiave della controllabilità, come ben sapeva Bismarck, che la gestì con maestria impareggiabile fra il 1871 e il 1889, era la deliberata limitazione degli obiettivi. Finché gli Stati erano in grado di definire con esattezza i loro obiettivi diplomatici – un determinato spostamento di confini, un matrimonio dinastico, un “indennizzo” precisabile per i vantaggi ottenuti da altri Stati – calcoli e accomodamenti erano possibili. Né gli uni né gli altri, naturalmente (…), escludevano un conflitto militare controllabile.

Ma il tratto caratteristico dell’accumulazione capitalistica era appunto che essa non aveva un limite. (…)

Ciò che rese la situazione ancora più pericolosa fu la tacita equazione fra illimitata crescita economica e potenza politica, che venne a essere inconsciamente accettata. Così l’imperatore di Germania negli anni Novanta chiedeva “un posto al sole” per il suo paese. Bismarck avrebbe potuto chiedere altrettanto; e di fatto aveva ottenuto per la nuova Germania un posto nel mondo enormemente maggiore di quello mai avuto dalla Prussia. Ma mentre Bismarck sapeva definire le dimensioni delle sue ambizioni, evitando con cura di sconfinare nella zona dell’incontrollabilità, per Guglielmo II la frase divenne solo uno slogan senza contenuto concreto. Essa formulava semplicemente un principio di proporzionalità: più potente era l’economia di un paese, più numerosa la sua popolazione, e maggiore doveva essere la posizione internazionale del suo Stato nazionale. (…)

In termini pratici, il pericolo non era che la Germania si proponesse concretamente di prendere il posto dell’Inghilterra come potenza globale, anche se l’oratoria nazionalistica tedesca non lesinava accenti antibritannici. Era, piuttosto, che una potenza globale aveva bisogno di una marina globale; e la Germania perciò si accinse (1897) a costruire una grande flotta da guerra, che aveva incidentalmente il vantaggio di rappresentare non i vecchi Stati tedeschi ma esclusivamente la nuova Germania unita, con un corpo ufficiali che non rappresentava gli Junker prussiani o altre tradizioni guerriere aristocratiche, bensì le nuove classi medie, cioè la nuova nazione. (…)

Ma per l’Inghilterra la costruzione di una flotta tedesca non era solo un ulteriore aggravio per la già globalmente sovra impegnata marina britannica, ormai molto inferiore numericamente alle flotte unite delle potenze rivali, vecchi e nuove (…), e che stentava anche a mantenere il suo più modesto obiettivo di essere più forte delle due altre marine maggiori combinate (…).

Il processo di divisione dell’Europa in due blocchi ostili occupò quasi un quarto di secolo, dalla formazione della Triplice Alleanza (1882) al completamento della Triplice Intesa (1907). (…) Essi dimostrano soltanto che nel periodo dell’imperialismo gli attriti internazionali erano globali e endemici, che nessuno – e meno di tutti gli inglesi – sapeva bene in che direzione lo avrebbero portato le correnti traverse degli interessi, timori e ambizioni proprie e delle altre potenze; e che, sebbene fosse opinione diffusa che esse portavano l’Europa verso una guerra di grandi proporzioni, nessun governo sapeva bene come rimediarvi. “”



Eric Hobsbawm, “L’età degli Imperi. 1875-1014”, Oscar Mondadori, 1995, pagg. 359-366

L’armamento in disarmo.




Eccesso di capacità nello shipping, con “overbook” di nuove navi container; l’effetto è un aumento di debiti, che per gli armatori italiani hanno raggiunto i 13 miliardi di US$: “”oggi circa la metà delle società armatoriali italiane sono in ristrutturazione, ossia più di 20 aziende”; “questa situazione dipende anche dal fatto che la flotta nazionale ha avuto una forte crescita tra il 2002 ed il 2009, con navi pagate, nel momento del boom dei noli, a prezzi molto alti e con leve finanziarie spesso superiori all’80%. Navi che oggi valgono la metà e che si portano dietro un alto debito”. Fondi di private equity, entrati negli anni del boom, sono oggi delusi dallo shipping, anche se contano solo per il 17% dei capitali forniti. Hedge funds, sui mercati internazionali, hanno rilevato crediti bancari (le banche hanno rapidamente ridotto la esposizione creditizia anche nello shipping) ed assets dei private equity, a prezzo scontato, prevalentemente con l’obiettivo di “fare lo spezzatino” confidando di lucrare attraverso la dismissione, quindi la rivendita, di assets (navi); ma i prezzi attuali “ingessano” il settore, che sta alla fonda.

venerdì 29 maggio 2015

La ricchezza è diseguale.



L’OCSE rileva un divario crescente fra ricchi e poveri: sulla base dei dati elaborati (anno 2013), per quanto riguarda l’Italia, emerge che il reddito medio del 10% della popolazione più ricca è stato superiore di 11,4 volte quello del 10% più povera, rispetto ad una media OCSE di 9,6 volte (6,6 volte in Germania); il rapporto era di 8,9 volte nel 2007 e di 10,3 volte nel 2011. In termini di patrimonio posseduto, l’1% della popolazione possiede il 14,3% della ricchezza complessiva, ed il 20% più benestante ne possiede il 61,6%. L’indice Gini (che misura la diseguaglianza fra le capacità di reddito) segna un peggioramento per quanto riguarda l’Italia, con un valore di 0,327 contro una media OCSE di 0,306; la Germania, uno dei paesi con le minori diseguaglianze, ha un indice di 0,289. Segno del crescente impoverimento della popolazione media, soprattutto fra i giovani, che nella fascia di età 18-25 anni in Italia sono il 14,7% dei poveri contro una media OCSE del 13,8%. “”Speriamo che con misure come la garanzia giovani e il jobs act il fenomeno venga finalmente ridotto””.

giovedì 28 maggio 2015

Ma quale congiura degli armaioli ...



“” Mentre solo alcuni civili capivano il carattere catastrofico di una guerra futura, gli incomprensivi governi si tuffavano  con entusiasmo nella gara per procurarsi armamenti la cui novità tecnologica avrebbe assicurato quel carattere catastrofico. La tecnologia dell’uccidere, già in via di industrializzazione alla metà del secolo progredì straordinariamente nel 1880-90, grazie non solo alla rivoluzionaria velocità e potenza di fuoco delle armi leggere e dell’artiglieria, ma anche alla trasformazione delle navi da guerra mediante motori a turbina molto più efficienti, piastre di corazza più efficaci, e capacità di trasportare un numero molto maggiore di cannoni (…); Di conseguenza i preparativi di guerra diventarono enormemente più costosi, tanto più che gli Stati facevano a gara per superarsi a vicenda, o almeno per non restare indietro. 
Questa corsa agli armamenti cominciò in sordina nel 1885-90 e si accelerò nel nuovo secolo, in particolare negli ultimi anni prima della guerra. Le spese militari britanniche rimasero stabili nel 1870-90, sia come percentuale del bilancio totale sia nel rapporto pro capite con la popolazione. Ma passarono da 32 milioni di sterline nel 1887 a 44,1 milioni nel 1898-99 e a oltre 77 milioni nel 1913-14. E fu com’è ovvio la marina, l’ala ad alta tecnologia delle forze armate, corrispondente al settore missilistico dell’odierna spesa militare, quella che crebbe più vistosamente. Nel 1885 la marina britannica costava allo Stato 11 milioni di sterline, lo stesso ordine di grandezza del 1960. Nel 1913-14 il suo costo era più che quadruplicato. Frattanto la spesa navale tedesca aumentò in misura anche maggiore: da 90 milioni di marchi all’anno intorno al 1895 a quasi 400 milioni. 
Queste spese enormi richiedevano tasse più alte o un indebitamento inflazionistico, o entrambe le cose. Ma una conseguenza altrettanto ovvia, anche se spesso trascurata, fu che esse resero la morte, per le varie patrie, un sottoprodotto della grande industria. (…) La simbiosi di guerra e produzione bellica trasformò inevitabilmente i rapporti fra governo ed industria: infatti, (…) “essendo la guerra diventata un ramo della grande industria … la grande industria … è diventata una necessità politica”. 
E viceversa lo Stato diventò indispensabile per certi settori industriali: perché chi, se non il governo, forniva clienti alle fabbriche d’armi? 
La produzione di questa merce non era determinata dal mercato, bensì dall’incessante gara dei governi per assicurarsi una provvista adeguata delle armi più progredite e quindi più efficienti. Per i di più i governi, al di là della produzione effettiva, avevano bisogno che l’industria, all’evenienza, avesse la capacità di produrre armi nella quantità richiesta in tempo di guerra: dovevano, cioè, provvedere perché l’industria mantenesse una capacità di gran lunga superiore alle esigenze di pace. In un modo o nell’altro i governi erano quindi costretti a garantire l’esistenza di potenti industrie nazionali degli armamenti, a sostenere buona parte dei loro costi di sviluppo tecnico, e a far sì che esse fossero redditizie. 
In altre parole, dovevano proteggere queste industrie dalle bufere che minacciavano i vascelli dell’impresa capitalistica veleggianti nei mari imprevedibili del libero mercato e della libera concorrenza. Gli Stati avrebbero potuto naturalmente impegnarsi direttamente nella produzione di armamenti, e così in realtà facevano da tempo. Ma questo fu proprio il momento in cui i governi – o almeno quello liberale britannico – preferirono accordarsi con l’industria privata. Nel 1880-90 i produttori privati di armamenti ebbero più di un terzo degli appalti di forniture per le forze armate, nel 1890-1900 il 46 per cento, nel 1900-10 il 60; e il governo era pronto a garantire loro i due terzi. Non fa meraviglia che le ditte di armamenti fossero o entrassero a far parte dei giganti dell’industria: guerra e concentrazione capitalistica andavano di pari passo. In Germani Krupp, il re dei cannoni, aveva 16.000 dipendenti nel 1873, 24.000 intorno al 1890, 45.000 intorno al 1900, e quasi 70.000 nel 1912, quando dai suoi stabilimenti uscì il cinquanta millesimo dei famosi cannoni Krupp. In Inghilterra i 12.000 uomini impiegati da Armstrong e Whitworth nel loro stabilimento principale di Newcastle erano saliti nel 1914 a 20.000, pari a oltre il 40 per cento dei metalmeccanici dell’intera regione del Tyne; senza contare le 1.500 ditte minori che vivevano con i subappalti di Armstrong, e che facevano anch’esse buoni affari. Come l’odierno “complesso militare-industriale” degli Stati Uniti, queste gigantesche concentrazioni industriali non sarebbero esistite senza la corsa agli armamenti dei governi. 
Si è quindi tentati di fare di questi “mercanti di morte” (…) i responsabili della "guerra dell’acciaio e dell’oro”(…). 
Non era logico che l’industria delle armi stimolasse la corsa agli armamenti, se necessario inventando inferiorità militari nazionali o “punti deboli”, eliminabili con appalti lucrosi? (…) 
E tuttavia non possiamo spiegare la guerra mondiale con una congiura degli armaioli, anche se i tecnici facevano del loro meglio per convincere generali e ammiragli, più esperti di parate militari che di scienza, che tutto era perduto se essi non ordinavano il cannone o la corazzata ultimo modello. 
Certo l’accumulo di armamenti, giunto a proporzioni paurose nell’ultimo quinquennio prima del 1914, rese la situazione più esplosiva. 
Certo venne il momento, almeno nell’estate 1914, in cui non fu più possibile innestare la retromarcia alla pesante macchina della mobilitazione delle forze di morte. 
Ma a trascinare l’Europa in guerra non fu la gara degli armamenti in quanto tale, bensì la situazione internazionale che aveva scatenato quella gara fra le potenze europee.””



Eric Hobsbawm, “L’età degli Imperi. 1875-1914”, Oscar Mondadori, 1996, pagg. 350-353