domenica 30 novembre 2014

La consapevolezza bastarda che la macchina statale è immodificabile.



Rileggere la breve storia italiana dall'Unità ad oggi riserva sorprese sui mali nazionali, fra cui emerge, prepotente, quella della "elefantiasi della macchina statale".

I circa 87.000 dipendenti degli stati pre-unitari salirono a 96.000 nel primo ventennio di vita dello Stato italiano, soprattutto attraverso la crescita di tre particolari settori dell’amministrazione: la guerra e, in misura ancora maggiore, la posta e l’istruzione; era ancora uno Stato con funzioni contenute nei termini essenziali, ben lontani da quella crescita della burocrazia che comincerà a caratterizzare lo Stato con la fine degli anni ’80; l’ampliamento dell’organico amministrativo e la “meridionalizzazione” delle sue componenti, che prenderà corpo con Crispi e si svilupperà con Giolitti, non sarà soltanto il frutto di un incremento dell’intervento statale, ma anche di un tentativo di conferire più ampie basi sociali all’ulteriore rafforzamento dello Stato, e in particolare del potere esecutivo. A distanza di pochi decenni, negli anni della Grande Guerra 1915-1918, ci fu un ancora più impressionante aumento degli organici dell’amministrazione statale che passarono dai 339.203 del 1915 (oltre 3 volte quelli del 1890) a i 619.440 al 1920, oltre 5 volte quelli di 70 anni prima. Tutto questo portò ad un enorme aggravamento della spesa pubblica, l’assunzione di una serie di servizi che meglio avrebbero trovato spazio nel campo privato. Ma deleteria e incontestata, nacque bastarda la consapevolezza che l’amministrazione statale era divenuta una macchina alla cui riforma sarebbe stato impossibile mettere mano nei secoli successivi.

All'Italia, nessuno faceva più caso dopo la disfatta di Caporetto.



“”Mai forse come nelle settimane immediatamente successive al 4 novembre 1918 i vari componenti il fronte interventista cedettero vicina la meta (..): la fuoriuscita da quella sorte di limbo oltre il quale stava il ristretto club delle “grandi potenze”.(…) Quanto però fossero lontane dalla realtà tali aspettative fu reso subito evidente dall’andamento della conferenza di pace. L’assenza dell’Italia dalle trattative per la sistemazione dei grandi problemi del riassetto europeo fu il primo segnale della sfasatura esistente tra le illusorie ambizioni e la realtà delle cose: il ministro degli esteri italiani, ad esempio, non mancò di interessarsi alla questione della lingua ufficiale della conferenza, ma tralasciò di intervenire sul problema della Società delle Nazioni. Le prime rivendicazioni nazionalistiche, alimentate dall’andamento della conferenza e indirizzate contro i rappresentanti italiani, sembrerebbero trovare una conferma nelle valutazioni che del comportamento di Orlando e Sonnino ha dato la memorialistica del protagonisti e degli osservatori, soprattutto di parte anglosassone: Lloyd George e Lansing hanno insistito sulla non armoniosa composizione della delegazione italiana, soffermandosi sui dati di carattere antagonistici del presidente del Consiglio e del ministro degli esteri italiani; J.M. Keynes, a sua volta, ha osservato come Orlando, pur facendo parte del Consiglio dei Quattro, vi recitasse un ruolo assolutamente secondario, non foss’altro perché, ignorando completamente l’inglese, non aveva possibilità alcuna di comunicare né col residente Wilson, né col premier inglese; l’anedottica sulla scarsa conoscenza dello stesso francese e sull’ignoranza geografica del presidente italiano alimenterà del resto anche i diari e la memorialistica italiana. Impressionarono, invece, la chiusa freddezza e l’autoritarismo di Sonnino, “un freddo, deciso, diplomatico imperialista della vecchia scuola”, che riuscì ad imporre alla delegazione una linea e un metodo ispirati al principio del “sacro egoismo”, e cioè a intervenire nella discussione dei problemi internazionali soltanto e unicamente per sostenere le immediate rivendicazioni italiane. Però (…) le radici della scarsa incidenza italiana alla Conferenza della pace dovevano manifestarsi nel tipo di politica estera sostenuta da quella delegazione e, più in generale, dalla reale forza del paese che quegli uomini rappresentavano. (…) Sonnino sembrava non avere compreso che fatti nuovi, diversi nella loro entità, ma convergenti nei loro risultati, avevano ormai aperto l’era dela “nuova diplomazia”: i bolscevichi avevano portato la rivoluzione anche in questo campo pubblicando i testi di tutti gli accordi segreti sottoscritti dalla diplomazia zarista, mentre il presidente Wilson aveva proclamato e tentato di affermare nuovi principi, che con la pubblicità dei documenti diplomatici modificassero la natura dei rapporti tra i popoli. Quanto il modo di concepire e di realizzare la politica estera fosse ormai radicalmente mutato, del resto, lo si vide fin dalla stessa composizione della delegazione americana alla Conferenza di pace. Con i suoi milletrecento collaboratori, tra i quali facevano spicco storici e giuristi, statistici ed economisti, geologi e geografi, essa faceva apparire la piccola delegazione italiana, formata per lo più da diplomatici della vecchia scuola e da membri dell’apparato statale, un vero e proprio avanzo del passato. Ma, soprattutto, i rapporti internazionali avevano ormai acquisito una dimensione internazionale, e di questo gli italiani non parvero in alcun modo consapevoli (…) La scomparsa dell’Impero asburgico e di quello turco, la caduta del Reich e dell’Impero russo, sottrassero all’Italia tutti i punti di riferimento poggiando sui quali essa aveva potuto in qualche misura supplire alla propria debolezza di fondo per svolgere una politica estera relativamente autonoma (…). La realtà, come scrive Potemkin, era che “sebbene l’Italia fosse compresa alla Conferenza della pace nel gruppo delle grandi potenze, nessuno le faceva più caso dopo la disfatta di Caporetto (…)”. A ben guardare, l’unica indicazione di fondo che pare emergere dalla politica estera italiana del dopoguerra è quella di un costante riferimento in posizione subalterna alla linea inglese, e per comprendere appieno i limiti di tale atteggiamento è sufficiente ricordare che, con la guerra, la Gran Bretagna era stata definitivamente soppiantata dali Stati Uniti d’America nel ruolo di “direttore d’orchestra” della politica e della finanza internazionale, che aveva svolto incontrastata fino al 1914. Ed era agli Stati Uniti, a loro volta trasformati da potenza tradizionalmente debitrice in potenza creditrice, che l’Inghilterra e la Francia dovevano riferirsi per la ricostruzione dell’economia europea, adattandosi per questo a non osteggiare la ripresa della Germania. A maggior ragione lo doveva dunque l’Italia, per allontanare da sé lo spettro della catastrofe e della rivoluzione, che la guerra aveva evocato. (…) Le pretese italiane si erano accresciute in proporzione geometrica, mentre le possibilità reali non erano aumentate neppure in proporzione aritmetica.””


Storia d’Italia. Dall’Unità a oggi. Libro 11. Lo stato liberale. pgg 2060-2064. Einaudi/IlSole24Ore, 2005.

sabato 29 novembre 2014

Fra 10 giorni saremo senza carne. Il telegramma del 2 gennaio 1919.



“”Una immagine eloquente dello stato di dipendenze in cui si trovava l’Italia nei confronti dell’Inghilterra e soprattutto degli Stati Uniti d’America può trarsi da un allarmato telegramma di Orlando all’ambasciatore italiano a Londra, del 2 gennaio 1919, dopo che le difficoltà finanziarie del paese avevano provocato il blocco delle importazioni di carne congelata: “”Fra dieci giorni – scriveva il presidente del Consiglio – intero esercito e parte popolazione si troveranno senza carne””. Cfr. I documenti diplomatici italiani, serie VI; 1918-1922, vol. I: 4 novembre 1918 – 17 gennaio 1919, Roma 1956, p. 398. Si veda anche la risposta dell’ambasciatore Imperiali, a p. 401. Non meno significativo il testo del telegramma di pochi giorni successivo inviato da Sonnino all’incaricato d’affari italiano a Washington, nel quale si richiedevano consistenti crediti per mantenere le importazioni dagli Stati Uniti, essenziali per la stessa sopravvivenza del paese. Nel corso della guerra, infatti, queste si erano accresciute del 578 per cento, con un forte stacco rispetto a quelle della Gran Bretagna (+203 per cento) e della Francia (+109 per cento).””



Storia d’Italia. Dall’Unità a oggi. Libro 11. Lo stato liberale. pg 2062, nota 1. Einaudi/IlSole24Ore, 2005.

PAPER. L’Araba Fenice, ovvero le pensioni degli italiani.





Il sistema pensionistico italiano, a nostro avviso, è un sistema irrazionale, inconsistente, insostenibile, finanziariamente inefficiente, temerariamente ottimista.

Cercheremo di accompagnarvi nella scoperta di questo sistema, rispondendo a domande quali: come vengono gestite (o non gestite..) le somme versate dai dipendenti, chi è demandato alla gestione e quali professionalità "mette in campo", su quali basi attuariali sono basate le previsioni di pagamento futuro delle pensioni, se esistono fondi adeguati per adempiere all’ “obbligo previdenziale” da parte dell’INPS, per quanto tempo ci saranno fondi sufficienti per erogare le pensioni, quanta parte dei versamenti previdenziali è "riversata" verso attività c.d. assistenziali che nulla hanno che fare con la previdenza ... tutte cosucce di poco conto e su cui "il silenzio istituzionale è doverosamente d'oro".


Il calcolo della pensione
Partiamo dalle regole di calcolo della pensione (come modificata dalla Legge 335/1995 e successive integrazioni), ripartite fra metodo retributivo (pensione calcolata sulla base della retribuzione degli ultimi anni lavorativi, indipendentemente dal totale dei contributi effettivamente versati: c.d. “pay-as-you-go unfunded defined benefit”) e metodo contributivo (pensione calcolata sulla base dei contributi effettivamente versati, adeguati e ri-valutati annualmente, applicando un "coefficiente di rivalutazione", secondo regole predefinite: c.d. “defined contribution”, che nella versione italiana è “unfunded”, cioè senza un patrimonio di previdenza specifico, ed a “capitalizzazione simulata sulla crescita” ).
Anticipiamo che il “coefficiente di rivalutazione” adottato non ha alcun riferimento all’effettivo rendimento dei contributi investiti anno per anno dall’ente pensionistico INPS, nel caso della pensione pubblica o “primo pilastro”, come ci si dovrebbe attendere per un investimento di natura finanziaria a capitalizzazione: “”tanto verso, tanto viene investito, tanto rende, a fine anno tiro la riga e vedo di quanto il capitale iniziale si è incrementato.”” Il coefficiente di rivalutazione è diverso da tutto ciò: il coefficiente di rivalutazione viene calcolato annualmente dall’ISTAT sulla base della variazione del PIL. I più attenti hanno forse già compreso “dove andiamo a parare”: per tutti, aspettate e stupite. 

Un po' di storia...

Per arrivare a chiarire chi rientrasse in una delle 2 categorie, nel 1995 il legislatore fece una prima distinzione fra chi avesse una anzianità contributiva al 31.12.1995 e chi non la avesse, fissando la regola che il criterio di calcolo della pensione variasse a seconda dell'anzianità contributiva maturata dal lavoratore al 31 dicembre 1995: pensione calcolata con il sistema di calcolo contributivo per i lavoratori privi di anzianità al 31/12/1995 (e per coloro che nel frattempo avessero esercitato la facoltà di opzione al sistema di calcolo contributivo).; sistemi retributivo e misto continuano a convivere per i soggetti iscritti al 31/12/1995. Con effetto dal  1° gennaio 2012, anche ai lavoratori in possesso di un'anzianità contributiva di  almeno 18 anni al 31/12/1995 si è infine applicato il sistema di calcolo contributivo sulla quota  di pensione corrispondente alle anzianità contributive maturate a decorrere dal 1° gennaio 2012.
Quindi, coesistono diversi sistemi di calcolo, e quindi erogazione, delle pensioni: alcuni futuri pensionati andranno in pensione col sistema retributivo (quanti avessero maturato 18 anni di contribuzione al 31.12.1995); altri con un sistema misto (nel caso avessero maturato meno di 18 anni di contribuzione al 31.12.1995, periodo per cui varrà il metodo retributivo, mentre per il periodo successivo al 31.12.1995 varrà il sistema contributivo); altri ancora, e questo vale per tutti quanti non avessero contributi al 31.12.1995, col sistema contributivo.
Quando il sistema andrà a regime? Oltre 30 anni dopo la riforma entrata in vigore dal 31.12.1995. Ad multos annos!
Vediamo ora in dettaglio i sistemi, partendo dal sistema contributivo.

 IL SISTEMA CONTRIBUTIVO
La pensione è calcolata esclusivamente con il sistema di calcolo contributivo per i lavoratori privi di anzianità contributiva al 1° gennaio 1996 e per i lavoratori che esercitano la facoltà di opzione al sistema di calcolo contributivo. Ai fini del calcolo occorre:
  • individuare la retribuzione annua dei lavoratori dipendenti o i redditi conseguiti dai lavoratori autonomi o parasubordinati;
  • calcolare i contributi di ogni anno sulla base dell'aliquota di computo (33% per i dipendenti; 20% per gli autonomi; vigente anno per anno per gli iscritti alla gestione separata);
  • determinare il montante individuale che si ottiene sommando i contributi di ciascun anno opportunamente rivalutati sulla base del tasso annuo di capitalizzazione derivante dalla variazione media quinquennale del PIL (prodotto interno lordo) determinata dall'Istat;
  • applicare al montante contributivo il coefficiente di trasformazione, che varia in funzione dell'età del lavoratore, al momento della pensione, così come riportato nella tabella:
 Coefficienti di trasformazione applicati dal 1° gennaio 2010

Età
Divisori
Coefficienti
57
22,627
4,419%
58
22,035
4,538%
59
21,441
4,664%
60
20,843
4,798%
61
20,241
4,940%
62
19,635
5,093%
63
19,024
5,257%
64
18,409
5,432%
65
17,792
5,620%
tasso di sconto = 1,5%





Coefficienti di trasformazione in vigore dal 1° gennaio 2013

I divisori e i coefficienti di trasformazione, soggetti a revisione triennale, sono stati rideterminati a maggio 2012 nella misura riportata in tabella

Età
Divisori
Coefficienti
57
23,236
4,304%
58
22,647
4,416%
59
22,053
4,535%
60
21,457
4,661%
61
20,852
4,796%
62
20,242
4,940%
63
19,629
5,094%
64
19,014
5,259%
65
18,398
5,435%
66
17,782
5,624%
67
17,163
5,826%
68
16,541
6,046%
69
15,917
6,283%
70
15,288
6,541%
tasso di sconto = 1,5%




Il coefficiente di trasformazione in rendita o pensione determina l' importo annuo della pensione di vecchiaia contributiva, in percentuale, del montante contributivo individuale o riserva matematica determinata dai contributi versati; il coefficiente di trasformazione in rendita è determinato su base statistica e varia  -- come indicato nella tabella -- in base all’età anagrafica al momento del pensionamento e tiene conto della speranza di vita media, incorporando il tasso di crescita del Pil di lungo periodo stimato nell’1,5%. La generosità gratuita e futura spesso costa assai e troppo.

Il montante individuale rappresenta il capitale che il lavoratore ha accumulato nel corso degli anni "lavorativi".

Per determinare il montante individuale dei contributi occorre:
  • individuare  la base imponibile annua (cioè la retribuzione annua, per gli iscritti alle gestioni pensionistiche dei lavoratori dipendenti; il reddito annuo, per gli iscritti alle gestioni previdenziali dei lavoratori autonomi) corrispondente ai periodi di contribuzione (obbligatoria, volontaria, figurativa, da riscatto, da ricongiunzione) fatti valere dall'assicurato in ciascun anno;
  • calcolare  l'ammontare dei contributi di ciascun anno moltiplicando la base imponibile annua per l'aliquota di computo del 33 per cento, per i periodi di contribuzione da lavoratore dipendente, ovvero per l'aliquota di computo del 20 per cento, per i periodi di contribuzione da lavoratore autonomo; per i parasubordinati l’aliquota varia dal 17% al 27%.
  • determinare  il montante individuale dei contributi sommando l'ammontare dei contributi di ciascun anno, rivalutato annualmente sulla base del tasso annuo di capitalizzazione risultante dalla variazione media quinquennale del prodotto interno lordo nominale (PIL), appositamente calcolata dall'ISTAT con riferimento al quinquennio precedente l'anno da rivalutare.
L’importo così ottenuto costituisce la quota di montante individuale dei contributi per i periodi maturati successivamente al 31 dicembre 1995. La rivalutazione del montante contributivo su base composta deve essere operata al 31 dicembre di ciascun anno con esclusione della contribuzione dello stesso anno e ha effetto per le pensioni aventi decorrenza dal 1° gennaio dell'anno immediatamente successivo.
Prima di passare ai successivi sistemi,  il lettore avrà già compreso che elemento non secondario per il calcolo dell’agognata pensione pubblica è il “tasso annuo di rivalutazione” calcolato dall’ISTAT, da cui siamo partiti in questo viaggio non agevole nel mondo della pensione.
Il tasso di rivalutazione per l’anno 2014 è stato indicato in questi giorni di inizio novembre: è – 0,1927 %, calcolato sulla base della serie storica del PIL degli ultimi 5 anni. Il PIL italiano non cresce, anzi decresce, e quindi si abbassa anche il montante su cui viene calcolata, ed erogata, la pensione.
Se nel 1996 il coefficiente era un generoso 6,2054%, esso è sceso regolarmente da quel “picco”, scendendo sotto il 4% a partire dal 2004 (3,9272%), e sotto il 2% dal 2010: 1,7935% nel 2010, 1,6165% nel 2011, 1,1344% nel 2012, 0,1643% nel 2013 ed infine -0,1927% nel 2014.

L’ISTAT è stato chiaro: “Si sottolinea che per la prima volta dall’entrata in vigore della legge sopra citata (la 335/1995, ndr) il coefficiente di rivalutazione risulta inferiore all’unità, a causa della dinamica negativa del PIL nominale nel periodo considerato”. 

Aggiungiamo che “nominale” è diverso da “reale”, inferiore al nominale per effetto dell’erosione dell’inflazione nel frattempo intervenuta negli anni.
Rincariamo la dose ricordando che il legislatore ha appena aumentato l’aliquota fiscale sui frutti della previdenza complementare (secondo e terzo pilastro), i cui rendimenti peraltro non sono legati alla dinamica del PIL ma a quelli dei rendimenti effettivi degli attivi finanziari (azioni, obbligazioni, liquidità, immobili) inseriti nei portafogli di investimento dei fondi pensionistici ed assicurativo-pensionistico.
In concreto, se l’applicazione di un indice negativo ad un singolo anno,  pur non irrilevante, non incide in modo consistente e duraturo sulla pensione, si deve ricordare che ciò potrebbe ripetersi in futuro. Un rischio non preventivato nei decenni passati, ma ben compreso nei “magri tempi” attuali.

IL SISTEMA RETRIBUTIVO
Si applica alle anzianità contributive maturate fino al 31/12/2011 dai lavoratori con almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995.
Secondo tale sistema, la pensione è rapportata alla media delle retribuzioni (o redditi per i lavoratori autonomi) degli ultimi anni lavorativi.
Si basa su tre elementi:
  • l'anzianità contributiva, è data dal totale dei contributi fino ad un massimo di 40 anni che il lavoratore può far valere al momento del pensionamento e che risultano accreditati sul suo conto assicurativo, siano essi obbligatori, volontari, figurativi, riscattati o ricongiunti;
  • la retribuzione/reddito pensionabile, è data dalla media delle retribuzioni o redditi percepiti negli ultimi anni di attività lavorativa, opportunamente rivalutate sulla base degli indici Istat fissati ogni anno;
  • l'aliquota di rendimento, è pari al 2% annuo della retribuzione/reddito percepiti entro il limite (per le pensioni con decorrenza nel 2012 di 44.161 euro annui) per poi decrescere per fasce di importo superiore. Ciò vuol dire che se la retribuzione pensionabile non supera tale limite, con 35 anni di anzianità contributiva la pensione è pari al 70% della retribuzione, con 40 anni è pari all'80%.
L'importo della pensione con il sistema retributivo si compone di due quote: Quota A determinata sulla base dell'anzianità contributiva maturata al 31 dicembre 1992 e sulla media delle retribuzioni  degli ultimi 5 anni, o meglio, delle 260 settimane di contribuzione immediatamente precedenti la data di pensionamento per i lavoratori dipendenti, e dei 10 anni (520 settimane di contribuzione) immediatamente precedenti la data di pensionamento per i lavoratori autonomi; Quota B determinata sulla base dell'anzianità contributiva maturata dal 1° gennaio 1993 alla data di decorrenza della pensione e sulla media delle retribuzioni/redditi degli ultimi 10 anni per i lavoratori dipendenti e degli ultimi 15 anni per gli autonomi. 

IL SISTEMA MISTO
Si applica ai lavoratori con meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 e a decorrere dal 1° gennaio 2012 anche ai lavoratori  con un'anzianità contributiva pari o superiore a 18 anni al 31 dicembre 1995. Per i lavoratori con un'anzianità contributiva inferiore a 18 anni al 31/12/1995 la pensione viene calcolata in parte secondo il sistema retributivo, per l'anzianità maturata fino al 31 dicembre 1995, in parte con il sistema contributivo, per l'anzianità maturata dal 1° gennaio 1996. Per i lavoratori con un'anzianità contributiva pari o superiore a 18 anni al 31/12/1995  la pensione viene calcolata in parte secondo il sistema retributivo, per l'anzianità maturata fino al 31 dicembre 2011 secondo le modalità descritte  nel paragrafo relativo al sistema retributivo, e in parte con il sistema contributivo, per l'anzianità contributiva maturata dal 1° gennaio 2012. 



Che cosa dice l’INPS…

Il legislatore (legge 335 del 1995) ha previsto che la pensione sia calcolata esclusivamente con il sistema di calcolo contributivo per i lavoratori privi di anzianità contributiva al 1° gennaio 1996 e per i lavoratori che esercitano la facoltà di opzione al sistema di calcolo contributivo: siete proprio sicuri? A pagina 111 del Rapporto Annuale INPS trovate la risposta: “”Sul piano delle modalità di finanziamento, il modello pensionistico obbligatorio nel nostro paese si configura come un sistema a ripartizione, in cui l’onere pensionistico è ripartito sui lavoratori correnti: i contributi dei lavoratori attivi vengono immediatamente utilizzati per pagare le pensioni ai lavoratori in quiescenza. In quanto tale, il metodo a ripartizione subisce le oscillazioni del dato occupazionale, del livello retributivo degli assicurati e dell’andamento demografico.””
Quindi, delle due l’una: o l’INPS non sa che cosa ha deciso il legislatore, dopo quasi 20 anni dalla approvazione della legge sul riordino pensionistico, oppure siamo tutti presi per il naso ed il sistema pensionistico resta e resterà il retributivo. Siamo e continueremo ad essere presi per il naso.

L’INPS dichiara esplicitamente che le somme dei contributi vengono immediatamente utilizzate per pagare le pensioni ai pensionati: nessuna politica di gestione finanziaria, nessuna allocazione dei contributi ad un “conto individuale”; l’INPS non ha né competenze né ruoli e funzioni di gestione finanziaria; “tanto entra, tanto esce …”. 

Inutile pensare a stime attuariali, stime finanziarie sui rendimenti delle attività finanziarie (che stanno in cassa per pochi giorni, giusto per arrivare a fine mese e pagare le pensioni …), profili di rischio e di investimento sulla base dell’età del lavoratore in servizio e della personale propensione al rischio, modelli di investimento a lungo termine e quanto faccia parte della normale dotazione di strumenti del gestore di patrimoni.

La storia del sistema pensionistico obbligatorio a gestione pubblica italiano non può sorvolare sul fatto che sino al 31.12.1995 i trattamenti pensionistici dei dipendenti dello stato (CTS) e degli enti locali (CPDEL) erano a carico dello stato, non esistendo una cassa previdenziale; solo dall’ 1.1.1996 si provvedeva ad istituire presso l’INPDAP la gestione separata del trattamento pensionistico dei dipendenti dello stato (Cassa Trattamenti Pensioni Statali, CTPS), prevedendo che la Pubblica Amministrazione versasse l’intera contribuzione all’INPDAP; ma non era previsto alcun trasferimento del capitale contributivo virtualmente (i.e., puramente figurativo, poiché nessuna somma era mai stato accantonata) accantonato negli esercizi precedenti nel bilancio statale; si stabilì un apporto dello stato a favore della gestione relativa, finalizzato a garantire il pagamento dei trattamenti pensionistici statali ponendo a carico dello stato i trattamenti relativi, sino al 2007. Dal 2008 (legge finanziaria 2008) è stato eliminato tale apporto finanziario alla CTPS, causando un disavanzo finanziario in costante crescita: 5.627 milioni nel 2009, 6.221 milioni nel 2010, 8.456 nel 2011. L’INPDAP venne abolito il 31.12.2011, con trasferimento degli obblighi all’INPS. Il debito cumulato dall’INPDAP per le anticipazioni erogate era di 25 miliardi a fine 2011. Con la legge di stabilità 2012 sono stati ripristinati meccanismi di finanziamento statale a sostegno delle gestioni ex-INPDAP ed è stata costituita presso l’INPS la Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno della gestione previdenziali (GIAS), con oneri a carico dello stato. 

In sintesi: non ci sono stati accantonamenti pensionistici per i dipendenti pubblici sino a tutto il 1995:  la P.A. è stata inadempiente per decenni; lo squilibrio conseguente è stato coperto, ed è ancora coperto, dalla fiscalità generale: le tasse sui redditi che i cittadini pagano allo stato sono in parte utilizzati per pagare le pensioni di dipendenti statali, pensioni che non sono state coperte da accantonamenti, sia a carico dei dipendenti che del datore di lavoro “stato”; situazione destinata a proseguire negli anni futuri; esamineremo quanto sia questo disavanzo annuale e quindi quanto sia il “trasferimento dalla tasca delle tasse cittadini alle tasche dei pensionati pubblici”.







2012
in %
2013
in %

Entrate contributive
           208.076
54,5%
           209.995
52,9%

Trasferimenti dallo stato
             93.801
24,6%
             98.363
24,8%

altri trasferimenti
               4.386
1,1%
               4.280
1,1%

Entrate correnti
          306.263
80,2%
          312.638
78,8%

Vendita beni patrimoniali
               7.804
2,0%
               7.396
1,9%

partite di giro
             55.648
14,6%
             58.338
14,7%

Entrate finali
          369.715
96,8%
          378.372
95,4%

Trasferimenti in c/capitale
                    10
0,0%
                    10
0,0%

Prestiti
             12.340
3,2%
             18.439
4,6%

Totale Entrate
          382.065
100,0%
          396.821
100,0%







dettaglio:


2013
in %

Gestione privata


           153.331
73,0%

Gestione dipend. Pubblici


             55.504
26,4%

Gestione lavor. Spettacolo


               1.160
0,6%

Entrate contributive


           209.995
100,0%


Le tabelle indicano la composizione delle entrate dell’INPS: nel 2013, il 52,9% sono contributi previdenziali, e di questi il 73% sono contributi dei dipendenti privati. Osservazioni che verranno utili nel corso del documento.
Negli ultimi 2 anni, le uscite dell’INPS sono indicate in tabella:


2012
in %
2013
in %
Funzionamento
               3.522
0,9%
               2.803
0,7%
Pensioni
           261.487
66,7%
           266.887
65,8%
Prestazioni temporanee
             34.255
8,7%
             35.325
8,7%
Altri interventi
             15.819
4,0%
             15.791
3,9%
Trattamenti quiescienza,
                  355
0,1%
                  362
0,1%
integrativi e sostitutivi




Spese correnti
           315.438
80,5%
           321.168
79,2%
Investimenti
               8.705
2,2%
               7.921
2,0%
Partire di giro
             55.648
14,2%
             58.338
14,4%
Spese finali
           379.791
96,9%
           387.427
95,5%
Oneri comuni
             12.060
3,1%
             18.269
4,5%
Totale Spese
           391.851
100,0%
           405.696
100,0%

Il saldo fra entrate contributive (i contributi versati dai dipendenti privati e dai dipendenti di lavoro privati, dai dipendenti pubblici) ed uscite (pensioni pagate) è costantemente negativo:






2012

2013

Entrate contributive
              208.076

              209.995

Pensioni
              261.487

              266.887

Sbilancio/deficit
-53.411

-56.892






In dettaglio, sia le gestioni dei dipendenti privati che le gestioni dei dipendenti pubblici sono in deficit strutturale:





Pensioni


           266.887

Gestione privata


           201.410

Gestione dipend. Pubblici


             64.531

Gestione ex-ENPALS


                  946

Entrate contributive


           209.995

Gestione privata


           153.331

Gestione dipend. Pubblici


             55.504

Gestione ex-ENPALS


               1.160

Deficit Gestione privata


-48.079

Deficit Gest. Dip, pubblici


-9.027

Deficit ex-ENPALS


                  214



Attesa la dinamica demografica, non vi sono ragionevoli aspettative di ridurre tali deficit, laddove si consideri che nel 2012, per ogni 100 pensioni, vi erano 131 contribuenti (lavoratori in servizio) e che nel 2013 tale rapporto è sceso a 129,2. Tale rapporto era vicino a 700 negli anni 50.

In chiave prospettica, l’andamento demografico (si innalza l’età media della popolazione, e quindi si estende il periodo di permanenza nella condizione di pensionato/a) ed occupazionale (si riduce il rapporto fra lavoratori e pensionati) aggiungono difficoltà e problemi per un sistema pensionistico, in particolare per un sistema in cronico “deficit” finanziario; la pratica attuariale e quella statistica indurrebbero il legislatore ed il gestore pensionistico obbligatorio pubblico a rivedere la struttura di base del sistema, che oggi non è in grado di auto-sostenersi, dovendo ricorrere al sostegno dello stato, che attinge alla fiscalità generale; il futuro è ancora più fosco ed occorre metter mano allo schema prima che esso “salti per aria”.

La situazione di sostanziale “default” dell’INPS è coperta dalla fiscalità generale, come sopra ricordato, e questo schema è l’unico a disposizione dell’ente previdenziale: ci sembra votato al rapido suicidio.

Il quadro diviene ancora più difficile laddove si consideri il peso importante rivestito dalle prestazioni assistenziali sul totale delle uscite dell’INPS, prestazioni che vengono erogate prelevando le somme relative dal “monte contributivo” dei dipendenti in servizio: si tratta quindi di spese non coperte da specifici accantonamenti, che vanno a “sottrarre” risorse finanziarie al sistema pensionistico.

In termini generali, sarebbe auspicabile una netta separazione fra prestazioni previdenziali, e relativa spesa, da un lato e prestazioni assistenziale, e relativa spesa, dall’altro; la prima coperta da contributi, la seconda coperta da fiscalità generale. Una separazione che aiuterebbe, inoltre, il cittadino a ben “pesarne” benefici e pesi.
La spesa assistenziale per erogazione di pensioni assistenziali e per l’invalidità civile è stata così composta nel 2012 e 2013:


2012

2013

Invalidi civili
             16.662

             17.428

Altre prestazioni
               8.119

               7.899

assegni sociali, vitalizi




Spesa assistenziale totale
             24.781

             25.327


Fra le informazioni che riteniamo utili per una corretta valutazione della tenuta del sistema, rileviamo che non sono disponibili dati sulla consistenza delle pensioni di riversibilità, un istituto che assorbe risorse finanziarie slegate da una previsione attuariale e statistica, e che andrebbe rivista (inclusa una sua abolizione, per il futuro).

Rinviamo chi fosse interessato alla lettura del Rapporto Annuale INPS (sito www.inps.it), 364 pagine ricche di informazioni, purtroppo non sempre quelle essenziali ed utili per capirne la dinamica finanziaria relativa alla gestione pensionistica. “Molto c’è da fare”, anche in questo campo.


Il secondo ed il terzo pilastro.

Considerato che la pensione obbligatoria non assicura, né assicurerà in futuro, un adeguato tenore di vita, i lavoratori possono (devono …) scegliere di destinare una parte del proprio risparmio alla costruzione di una rendita aggiuntiva, versando volontariamente dei contributi alle forme pensionistiche complementari. Le forme pensionistiche complementari si distinguono fra fondi pensione e piani pensionistici individuali (PIP), entrambi sottoposti alla vigilanza della COVIP.
I fondi pensione (istituiti da banche, assicurazioni, SGR e SIM) sono il secondo pilastro della previdenza e possono essere aperti o chiusi. Ai fondi aperti può iscriversi chiunque.  Ai fondi chiusi possono iscriversi solo i lavoratori che appartengono a una determinata categoria (dipendenti di una particolare azienda, che svolgono un determinato tipo di lavoro o residenti in una particolare Regione); sono detti negoziali i fondi costituiti sulla base di un accordo tra datore di lavoro e sindacati o associazioni di categoria.
I PIP costituiscono il terzo pilastro della previdenza e si realizzano mediante polizze assicurative (contratti di assicurazione sulla vita a scopo previdenziale), a carattere individuale.
Gli elementi da considerare per scegliere se e come aderire alla previdenza complementare sono:
  • il tasso di sostituzione atteso, cioè il prevedibile rapporto tra l’importo della prima pensione obbligatoria che spetterà al momento della cessazione dell’attività lavorativa e l’importo dell’ultima retribuzione
  • il trattamento fiscale del risparmio destinato alla previdenza rispetto a quello destinato ad altri tipi di investimento
  • i possibili rendimenti finanziari dei contributi versati alla previdenza complementare rispetto a quelli che si possono attendere da altri investimenti e dal Trattamento di Fine Rapporto (TFR)
  • le condizioni di utilizzo delle somme accumulate come TFR o presso i fondi
  • le spese di gestione
  • l’eventuale contributo del datore di lavoro in caso di adesione alla previdenza complementare.

Il risparmio versato a una forma pensionistica complementare è soggetto a una tassazione, sinora più favorevole rispetto a tutte le altre forme di investimento ma in procinto di perdere la sua peculiarità:

  • le somme versate ai fondi o ai PIP fino all’importo di 5.164,56 euro all’anno non sono tassate; alle somme versate oltre tale limite si applicano le stesse aliquote con cui è tassata la retribuzione
  • i rendimenti finanziari degli investimenti, sinora tassati all’11,5%, saranno soggetti ad una aliquota maggiorata al 20%
  • le pensioni saranno tassate ad un’aliquota compresa tra il 9 e il 15%, in funzione di vari parametri, fra cui la permanenza nel fondo.

La maggioranza dei paesi OCSE adotta il sistema EET, con 3 grandi eccezioni: Danimarca, Svezia ed Italia; la regola EET è semplice: Esenzione (sui contributi versati), Esenzione (sui rendimenti dei fondi), Tassazione (sulla pensione integrativa). Il sistema EET aumenta i vantaggi per il risparmiatore, poiché i rendimenti annualmente realizzati sul “patrimonio previdenziale” sono totalmente reinvestiti, e non ridotti dalla tassazione. Sarebbe meglio tassare la prestazione finale (generalmente, con prestazioni annuali od infra-annuali), nel contesto della tassazione del pensionato-contribuente. L’Italia ha recepito la direttiva UE 41/2003 con il d.lgs 28/2007, ma non applica lo schema EET.

Riteniamo particolarmente penalizzante la tassazione annuale dei rendimenti, tenuto conto della natura previdenziale dello strumento; una penalizzazione ancor più “antipatica” se si osserva che i “rendimenti” della forma di previdenza obbligatoria pubblica non sono soggetti a tassazione, anno per anno. Ma la potenza del legislatore fiscale è senza limiti: differenze di trattamento alla partenza, durante il viaggio periglioso della creazione del “montante pensionistico”, all’incasso della pensione. 


Il TFR versato a una forma complementare (secondo pilastro) ed i versamenti ai PIP (terzo pilastro) vengono investiti sui mercati finanziari dal gestore: quindi possono aumentare o diminuire di valore secondo l’andamento degli investimenti e secondo la linea di investimento (conservativa, bilanciata, aggressiva) prescelta. La legge (DM 703/1996) limita la allocazione degli investimenti: sino al 50% in azioni ed obbligazioni UE, USA, Canada e Giappone negoziate/i in mercati regolamentati; sino al 20% in azioni ed obbligazioni negoziate/i in mercati non regolamentati; sino al 5% in titoli non-OCSE.


Il legislatore italiano, nel suo accanimento farneticante e malaccorto, ha recentemente previsto la possibilità che l’accantonamento annuo del TFR possa essere dirottato, in parte, verso la “busta paga”; questa misura avrà un impatto negativo sull’intero sistema complementare: ogni anno, 5.187 milioni di euro di accantonamenti da quote TFR dei dipendenti privati sono diretti a forme di pensione complementare; una cifra che rappresenta il 43,5% di tutti i flussi verso il sistema previdenziale integrativo del 2013, che sono stati 11.913 milioni; la percentuale sale al 63,4% (2.733 milioni su totali 4.308 milioni) per i fondi pensione negoziali, che da soli hanno assorbito il 36,2% dei flussi dell’anno. E’ di palmare evidenza che una eventuale misura – come quella sottoposta dal governo in carica – che indirizzi l’accantonamento annuo del TFR verso la “busta paga”, anche parzialmente, avrebbe impatti negativi sull’intero sistema della previdenza complementare: un settore che si vuole, da anni, favorire, ma che avanza a passi lenti, per cui una misura come quella immaginata dal governo avrebbe l’effetto di uno “stop” forse definitivo, se solo si osserva che dal 2007 i lavoratori che hanno aderito al conferimento tacito del TFR ai fondi complementari sono stati 231.000, l’8% dei nuovi iscritti (dipendenti del settore privato) e solo il 3,7% dei 6.200.000 iscritti totali alle forme pensionistiche complementari. Come da troppo tempo accade nel paese, la coperta è corta: tiri da una parte, si scopre dall’altra. 


La prestazione tipica di un fondo pensione è l’erogazione di una rendita (pensione), a partire dal momento del pensionamento. E’ possibile ottenere una liquidazione in capitale (in una unica soluzione) sino al 50% del montante finale accumulato. La reversibilità della prestazione al coniuge sopravvissuto è facoltativa ed opzionale, a fronte del pagamento di un costo addizionale, annualmente corrisposto. La ragione è semplice: nella elaborazione attuariale della previsione di trasformazione del capitale finale in rendita, il gestore deve considerare un rischio di sopravvivenza doppio e riferito al sottoscrittore ed al coniuge.


La prestazione pensionistica sotto forma di rendita può prevedere diverse opzioni: rendita semplice: è la rendita che viene pagata al pensionato finché in vita; rendita certa per un certo numero di anni e poi vitalizia; rendita reversibile; rendita con contro assicurazione per la restituzione del montante residuale; rendita con maggiorazione per perdita di autosufficienza (copertura Long Term Care, LTC). Come quando si acquista una autovettura nuova, ogni optional, più o meno essenziale e/o importante, ha un costo addizionale.

Anche e specialmente in campo previdenziale “two is better than one, especially when one probably means nothing…”: due sistemi sono meglio di uno.


I fondi pensione hanno caratteristiche importanti: sono individuali, e quindi personalizzabili; sono “cash” e rappresentano un capitale, via via crescente, investibile e fruttifero; sono “incassabili” (sino alla metà del capitale finale) e “trasformabili” in coperture assicurative (come la LTC, importante in un’era di innalzamento della aspettativa di vita e di concentrazione delle spese sanitarie negli ultimi anni di vita). Alcune di queste caratteristiche sono, a nostro avviso, necessarie anche per la forma di previdenza pubblica; il “trasferimento” non sarà però indolore o facile, ma diverrà rapidamente materia di discussione e confronto per allineare il sistema pubblico ai sistemi previdenziali di paesi “virtuosi” (si pensi all’Olanda).


Auguriamo a tutti di godere un lungo periodo lavorativo, non essendo così fiduciosi nell’augurare una altrettanto lunga e serena pensione.