martedì 30 settembre 2014

La Famiglia Continua a Tagliare.


I dati Istat dei consumi del mese di luglio 2014 confermano la contrazione dei consumi delle famiglie italiane: alimentare -2,5%, cartoleria libri e giornali -3,6%, casalinghi -2%, profumeria -1,2%.
Dopo aver eliminato sprechi, aver scoperto i discount, sostituito prodotti cari con quelli meno cari nella stessa categoria, approfittato delle promozioni, le famiglie tagliano i consumi: “Il dato di luglio delle vendite al dettaglio conferma che siamo ancora lontani dall’uscita del tunnel e che la ripresa del Paese resta un miraggio” ad avviso del Federdistribuzione.
Nel carrello della spesa i prodotti ortofrutticoli fanno -23%, il 16% non si avvicina a prodotti che costano troppo (comprese le “primizie”), il 13% cerca solo prodotti al prezzo più basso.
E la crisi del consumi colpisce più il Nord (-1,6% i ricavi nel periodo marzo-agosto 2014 sullo stesso periodo 2013) del Sud (-0,7% nello stesso periodo): “La crisi ha colpito il cuore produttivo e l’area più ricca del nostro paese (…) in 4 anni di crisi acuta dei consumi gli ammortizzatori sociali avevano permesso di tamponare una situazione difficile anche al Nord (…). Ora la disoccupazione e l’erosione dei redditi ha raggiunto un livello tale da non poter più permettere di fa finta di niente”.

domenica 28 settembre 2014

La Crescita non è Solo sulla Carta.


Nei primi 7 mesi del 2014 la produzione di imballaggi in carta e cartone è cresciuta del 2,7% sullo stesso periodo del 2013, con una produzione di 2,475 milioni di tonnellate, per la maggior parte per imballaggi di macchinari per la produzione industriale, e per circa il 45% diretta all’estero. Il segnale è confermato anche dall’aumento della produzione di carta per uso grafico, cresciuta dello 0,9% a 1,940 milioni di tonnellate.
La crescita degli imballaggi è un indicatore anticipatorio della produzione industriale; per Assocarta “già a partire da luglio abbiamo notato un trend meno favorevole”.
Un settore altamente “energivoro” che chiede da tempo misure per “ridurre la bolletta”, come la riduzione degli aggravi sulla auto-produzione.

L’Indice della Difesa.




Da inizio 2014, l’indice azionario DJ Defense - che raggruppa le società USA che operano nel business della difesa e degli armamenti accanto a società di altri paesi, sempre operanti nello stesso business – ha segnato un +19,33% (dato al 18.9.2014) rispetto al +3,5% del DJ Industrial; su 3 anni, il DJ Defense ha fatto il +122,3% contro il +49,0% del DJ Industrial.
Venti di guerra o meno, l’andamento del settore sembra direttamente correlato con una crescente incertezza definibile come “rischio geo-politico”, che viene da lontano. 
E le prospettive di ricavi ed utili in aumento fanno lievitare il costo delle azioni, il cui andamento tende ad anticipare il possibile sviluppo economico del business. 
Gioco d’attacco, per la Difesa.

venerdì 26 settembre 2014

Prima che la frutta marcisca.


La UE ha messo a disposizione un plafond di 125 milioni di euro come misura straordinaria per sostenere il settore orto-frutticolo danneggiato dall’embargo russo sulle importazioni occidentali. 
I 125 milioni sono disponibili sino a fine 2014, od al raggiungimento dei volumi massimi stabiliti, e copriranno sino al 100% del prezzo dei prodotti ritirati dal mercato e destinati a soggetti indigenti, sino al 75% del prezzo per i soci delle Organizzazioni dei Produttori, sino al 50% per i produttori che non siano soci delle Organizzazioni dei Produttori quando i prodotti siano destinati ad altri usi industriali, o lasciati in campo, o raccolti in anticipo. 
Per ogni gruppo di prodotti sono previsti quantitativi massimi, calcolati sulla base della media dei volumi dell’ultimo triennio di export verso la Russia. 
La UE ha comunicato anche quante domande sono state sinora presentate per utilizzare il plafond: l’Italia ha chiesto rimborsi per 459.000 euro.  
Piangere sempre; allungare la mano, pure; fare una domanda secondo le regole, mai.

giovedì 25 settembre 2014

Fondazioni bancarie: missione impossibile.


Create per dare stabilità all’azionariato bancario attraverso la divisione fra proprietà e gestione bancaria, le fondazioni bancarie sono 88, di cui 53 possiedono meno del 50% delle azioni delle banche conferitarie, 13 hanno più del 50% delle azioni, 22 non possiedono più azioni. La legge di riordino delle fondazioni bancarie, la c.d. legge Ciampi, imponeva a tutte le fondazioni di scendere sotto il 50% di partecipazione, cosa avvenuta per le principali banche, ma ancora in parte irrealizzata.
Le fondazioni più importanti sono al Nord Ovest: esse rappresentano il 74.7% del patrimonio totale, e le 18 fondazioni più grandi hanno un patrimonio cumulato di 31.000 milioni (dati tratti dal 18esimo rapporto curato dall’Acri).
Al 31.12.2012 il patrimonio cumulato di tutte le fondazioni era 48.183 milioni, cresciuto al tasso annuo del 1.5% dal 2000, rispetto ad una inflazione annua del 2.2%. Il totale degli impieghi (attivo) delle fondazioni è di 51.002 milioni a fine 2012, e le principali voci sono: 20.200 milioni partecipazioni bancarie, 21.000 milioni strumenti finanziari (investimenti).
I proventi incassati dall’universo fondazioni sono stati 1.535,6 milioni nel 2012 (in crescita del 24% sul 2011) di cui 445,4 milioni rappresentati da dividendi distribuiti dalle banche partecipate. Gli oneri di gestione (inclusi costi del personale di 61,3 milioni, per totali 1.026 dipendenti ed una media di 11,6 dipendenti per fondazione) sono 410,7 milioni, pari al 26.7% dei proventi totali. Le spese di gestione degli organi statutari (consigli di indirizzo e di gestione) hanno avuto una crescita costante: pari all’1.5% nel 2005 sui proventi, nel 2012 sono raddoppiate al 3%, con un peso superiore nelle fondazioni piccole (8.1%) e medio-piccole (7.4%) e nel Sud (6.5%).
A fronte di tali proventi, nel 2012 le fondazioni hanno erogato, nel rispetto dei settori di destinazione ed intervento, 965,8 milioni su 22.204 interventi sul territorio, con una media di erogazione per fondazione di 11 milioni, maggiore nel Nord Ovest (24,3 milioni) e minore al Sud (3,4 milioni); la media dei singoli interventi è stata di 39.000 euro nel 2012. Negli ultimi 10 anni le erogazioni totali sono state 15.600 milioni, e con trend calante negli anni: 1.366 milioni nel 2010, 1.092 nel 2011, con quote importanti nella salute pubblica e arte e beni culturali (ciascun settore conta circa il 30% delle erogazioni).
Nel 2011 le fondazioni hanno ricapitalizzato, complessivamente, le banche conferitarie per 1.270 milioni.
Costose, limitate nella capacità di incidere con interventi seri sul territorio, vista la relativa modesta dimensione dei singoli interventi (39.000 euro), con un patrimonio largamente ancora concentrato nelle partecipazioni bancarie, con una insufficiente diversificazione degli investimenti (ad esclusione di casi come C.R Roma che non ha più investimenti bancari, Compagnia San Paolo col 65% del patrimonio investito fuori dalla banca, Cariplo).
Le 10 fondazioni con maggiore patrimonio sono Cariplo (6.551 milioni), Compagnia San Paolo (5.622 milioni), C.R. Verona e Vicenza (2.654 milioni), C.R. Torino (1.917 milioni), C.R. Padova e Rovigo (1.745 milioni), Roma (1.445 milioni, senza partecipazioni bancarie), C.R. Cuneo (1.330 milioni), C.R. Firenze (1.305 milioni), C.R. Lucca (1.183 milioni), C.R. Genova e Imperia (1.013 milioni). La fondazione più “povera” è quella del Monte di Pietà di Vicenza con 1,7 milioni.
Il patrimonio delle fondazioni è ben investito? In caso di necessità di capitale da parte delle banche conferitarie, gli azionisti fondazioni hanno mezzi sufficienti, e volontà, di sottoscrivere nuovo capitale? Ne hanno la possibilità giuridica e la convenienza? Che cosa accade se le fondazioni non incassano dividendi sufficienti a sostenere i rispettivi piani di erogazione sul territorio? Riducendo la capacità di erogazione sul territorio, viene ridotta la loro missione di sussidiarietà sul territorio e relativo peso nell’ambito socio-politico locale.
Il patrimonio delle fondazioni è generalmente investito in modo sotto-ottimale, con una componente derivante da investimenti finanziari (tendenzialmente “sicuri”) che sono diminuiti dal 75.6% del totale dei proventi al 64.4% del 2010, 46.3% nel 2011, per risalire al71% nel 2012 (anche a causa della riduzione dei dividendi incassati).
Le fondazioni potrebbero essere chiamate a sottoscrivere nuovo capitale delle banche conferitarie; esse peraltro hanno una limitata “capacità di investimento” e si trovano dinanzi a possibili aumenti di capitale a prezzi spesso molto inferiori a quelli di carico (in bilancio) che ne ridurrebbero il peso azionario, con relativa diluizione dell’azionariato.
Le 7 principali banche (IntesaSanPaolo, Unicredit, BPM, MPS, Bper, Pop. Sondrio, Ubi) hanno portato a perdita 34.319 milioni totali fra il 2011 ed il 2012; dopo tali interventi “monstre” i crediti deteriorati sul patrimonio delle banche sono ancora significativi (MPS 3 volte il patrimonio); le 9 banche principali hanno avuto un risultato corrente cumulato negativo di 2.793 milioni nel 2012, con un patrimonio finale di 160.578 milioni su 1.397.779 milioni di crediti (pari all’11.5% dei crediti); ma ulteriori perdite potrebbero realizzarsi: le rettifiche fatte ai crediti anomali coprono il 37.9% dei crediti erogati e quelle fatte sui crediti in sofferenza (dove le aspettative di recupero sono basse) coprono il 54.1%.; i crediti in sofferenza sono, a livello di sistema bancario italiano, il 13% dei crediti, circa 181.700 milioni; se si volesse provvedere ad una integrale copertura delle sofferenze bancarie con capitale proprio (secondo ragionevoli e corretti criteri, cui è peraltro possibile allontanarsi per decisione degli amministratori), si dovrebbe metter mano alla raccolta di nuovo capitale in misura pari al 45.9% dei 181.700 milioni di crediti in sofferenza: ciò significherebbe un “deficit” di capitale di 83.500 milioni, a livello di sistema bancario, per riportare lo stesso ad una adeguato rapporto patrimonio/crediti erogati totali. Le fondazioni bancarie potrebbero coprire ¼ di tale fabbisogno, nel caso liquidassero tutti gli investimenti in strumenti ed investimenti finanziari (ipotesi peraltro irrealistica).
Le fondazioni non hanno mezzi adeguati per sostenere le banche conferitarie partecipate, anche se lo volessero. Le banche hanno necessità di capitale, almeno per una parte considerevole dell’ammontare indicato (83.500 milioni) e potranno trovarlo solo attraverso operazioni sul mercato con raccolta di nuovo capitale (cosa che porterà le fondazioni in posizione minoritaria ed a perdere il controllo).
La missione di mantenere voce in capitolo per le fondazioni ci sembra una “missione impossibile”. Nel modo meno glorioso, le banche troveranno nuovi assetti societari, patrimoniali, di controllo.

Tax inversion.


La Burger King (controllata dal fondo brasiliano 3G e partecipata da Berkshire Hathaway, la società guidata da Warren Buffett) annuncia l’acquisto della canadese Tim Hortons, regina del fast-food di caffè e ciambelle in Canada; valore dell’acquisto: 11,4 miliardi di US$, finanziati per  3 miliardi da titoli privilegiati sottoscritti da Buffett che renderanno il 9% l’anno in dividendi garantiti; una mega-operazione che prevede l’integrazione dei 2 business che post-operazione conteranno 18.000 ristoranti nel mondo in oltre 100 paesi, e ricavi di 23 miliardi di US$. 
Ma non è tanto la dimensione dell’operazione che suscita interesse, quanto il suo futuro assetto: la nuova società (che nasce da uno scambio azionario e per contanti: 65,50 Can$ e 0,8025 azioni di Burger King per ogni azione Tim Hortons) avrà la sua sede legale in Canada, grazie ad uno schema di “tax inversion” che consiste nel trasferire la sede, e quindi la residenza fiscale, dagli USA (dove la “corporate tax” è al 40% degli utili) al Canada, dove le tasse sui redditi societari sono il 27% (fra tasse statali e federali). 
Un forte incentivo alla “delocalizzazione societaria”, mantenendo le “operations” (attività produttive e commerciali) in USA. 
Un ulteriore risultato è che, poiché la legge USA prevede la tassazione negli USA degli utili realizzati da società estere possedute da gruppi americani (c.d. “double taxation”), con la “tax inversion” gli utili realizzati da società estere di Burger King non saranno più soggetti ad imposizione fiscale negli USA.

martedì 23 settembre 2014

L’opera incompleta.


L’opera è un “prodotto tipico italiano” che ha molto successo all’estero, meno in Italia: Verdi è il compositore maggiormente presente nei cartelloni della stagione 2012/2013 dei teatri mondiali con 2.586 rappresentazioni programmate, seguito da Puccini (1.893) e Mozart (1.893); fra le 10 opere più rappresentate, 6 sono di compositori italiani.
Un segno di grande successo nel mondo; ma la prima città italiana per numero di rappresentazioni è Venezia, al 42esimo posto nel mondo, con 106 rappresentazioni: Vienna è la prima con 578 rappresentazioni, seguita da Berlino (523), Parigi (437), Mosca (424), San Pietroburgo (377).
I teatri italiani producono poco e perdono progressivamente posizioni su un terreno che dovrebbe vederli in cima alla classifica.
Ancora una volta, la predisposizione all’autogol emerge prepotente: sarebbe il caso di rivoltare come un calzino l’organizzazione dei tanti, troppi teatri ed enti teatrali portandoli dalla sfera pubblica a quella privata: lasciate che una bell’aria entri anche dove ci si è abituati.

Perché l’Italia non è Attrattiva per gli Investitori Esteri.


L’associazione delle banche estere ha presentato l’Osservatorio sull’attrattività dell’Italia per gli investitori esteri: voto 33,2, su una scala sino a 100.
Il valore basso “che può migliorare soltanto attuando efficaci e credibili politiche di sviluppo e creando un sistema-Paese capace di dare certezze, soprattutto in materia fiscale e giuridica” è motivato da eccesso di burocrazia (indicato come prima causa dal 27% degli interpellati e in totale indicato dal 55% delle citazioni del campione composto da fondi di private equità, fondi sovrani, camere di commercio estere, studi legali e società di consulenza internazionali), scarsa flessibilità del mercato del lavoro (14% di citazioni come prima causa, e 41% del totale), incertezza del quadro normativo (14% di prima causa, e 32% del totale), tempi della giustizia civile (9% di prima causa, e 50% del totale).
Al primo posto per attrattività gli Stati Uniti (voto 91 su una scala sino a 100), seguiti da Germania (77), Cina (73), Gran Bretagna (64), India (59), Brasile (50).
Lo studio dimostra che “siamo ancora indietro rispetto agli altri paesi con una valutazione sull’attrattività che è la metà di USA e Germania”; ed “oggi la competizione non è con i Paesi che producono a basso costo.
Le grandi multinazionali non cercano basso costo del lavoro, ma qualità di produzione ed efficienze di servizi che un Paese può offrire loro”.
Il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?

lunedì 22 settembre 2014

Quale è il giusto prezzo dei farmaci?


Ad inizio 2014 la FDA degli USA ha approvato un farmaco (il Sofosbuvir, prodotto dalla Gilead e venduto sotto il nome commerciale Sovaldi), attualmente l’unico in grado di curare e guarire l’epatite C, che colpisce 2,7 milioni di persone solo negli USA; il prezzo di vendita negli USA è 1.000 dollari ed un ciclo di cura nei richiede 84.
Il Senato USA ha dato 60 giorni alla Gilead per rispondere a domande specifiche: come è stato redatto il business plan, quali spese sono state sostenute in passato per R&D e sviluppo del farmaco, come il farmaco è promosso presso medici ed ospedali, ed altro. Il Senato intende quindi comprendere gli “economics” del farmaco e valutare se il prezzo pagato dai pazienti statunitensi è “giusto” o meno.
L’indagine parlamentare si innesta su una situazione di mercato peculiare: lo stesso farmaco è venduto a circa 700 dollari nel Regno Unito ed a 11 dollari in Egitto.
La questione diventa quindi duplice: se il prezzo negli USA è “gonfiato”, ciò significa che i malati statunitensi stanno pagando lo “sconto” accordato ai malati di altri Paesi? E poi, il prezzo di un farmaco può essere arbitrario, o deve essere giustificato dai costi sostenuti per la ricerca e lo sviluppo, maggiorato di un ragionevole profitto?
Sinora, le imprese farmaceutiche si sono basate su un semplice criterio di mercato: il prezzo di ogni farmaco è “quello” che il mercato è disposto a pagare.

I numeri della distribuzione.


Nei primi 9 mesi del 2014 sono stati cancellati dalla fotografia della distribuzione italiana 25mila punti vendita, il 2,6% dei totali 946mila esercizi italiani; una crisi che viene da lontano, accresciuta dalla avversa congiuntura economica.
Nel 2000, i punti vendita erano 848mila, saliti a 953mila nel 2011 (massimo del periodo), e scesi a 946mila nel 2012; in termini di tipologia della rete distributiva, in numero i negozi tradizionali pesavano il 79,7% ed oggi sono il 74,7% di tutti gli esercizi; gli ambulanti sono passati dal 5,3% al 6,3%; la distribuzione moderna è cresciuta dal 15% al 19%; ma le variazioni sono assai significative quando si osservano i valori del giro d’affari: la distribuzione moderna copriva il 46,1% nel 2000 ed oggi si accaparra il 58,6% del totale dei consumi commercializzati; gli ambulanti sono cresciuti dall’11,9% al 12,7%; i negozi tradizionali sono crollati dal 42,1% nel 2000 al 28,7%, in percentuale un meno 13,4% assoluto, ma quando si osservano i valori del giro d’affari, la fotografia è ancora più nitida: i consumi commercializzati erano 198,5 miliardi nel 2000, saliti a 218,6 miliardi, un incremento dei consumi di 20,8 miliardi anno su anno.
La distribuzione tradizionale fatturava 83,6 miliardi nel 2000, oggi ne fattura 62,7, una diminuzione di 20,1 miliardi anno su anno. La distribuzione moderna fatturava 91,5 miliardi, oggi ne fattura 128,1. Quello che ha perso la distribuzione tradizionale è finito nelle grandi superfici, e l’aumento dei consumi è andato tutto a beneficio delle stesse grandi superfici.

Neet e rischiano di continuare ad esserlo.


La UE assegna 1.500 milioni all’Italia per il progetto “Garanzia Giovani” per combattere la disoccupazione under 25, ma 100 milioni si sono già “volatilizzati” nella creazione di un sito che il governo ha voluto per collegare Centri per l’Impiego (pubblici) ed Agenzie per il Lavoro (private), “una follia” nelle parole dell’Assessore al Lavoro del Veneto, “quelle risorse devono essere utilizzate per strumenti di avvicinamento e di inserimento al mondo del lavoro”.
Il portale “Cliclavoro”, costo 100 milioni, intermedia 23.000 posti di lavoro; per confronto, un analogo portale tedesco ne intermedia 900.000.
Il lavoro viene meglio “stanato” e reso disponibile dalle Agenzie private, che oggi sono 2.483, occupano 10.000 persone ed hanno consentito di trovare un nuovo lavoro a 470.000 persone (dato 2012), con un tasso di collocamento (media di persone che hanno trovato lavoro, per ogni addetto) di 47.
I dati dei Centri pubblici sono meno “performanti”: 553 centri che occupano 9.865 dipendenti (quindi, lo stesso numero delle Agenzie private) che hanno trovato lavoro a 35.200 persone (media ultimi 7 anni) con un tasso di collocamento di 4, meno di 1/10 di quello delle agenzie private.
Qualcosa su cui pensare e lavorare, sodo: un pubblico “tirarsi su le maniche” non resti un vuoto messaggio.

La Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze.


Nata nel 1957 come Scuola Tributaria Centrale Enzo Vanoni, la Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze è l’emblema dell’auto-referenzialità e dello spreco della Pubblica Amministrazione.
Un breve viaggio nella sua storia recente aiuta a comprendere quanto pervasivi siano presenza e potere dei funzionari pubblici: nel settembre 2000 con decreto MinFinanze n.301 la Scuola viene messa alle dirette dipendenze del ministro ed a rettore, pro-rettore e professori viene conservato “il trattamento economico (..) relativo alla qualifica posseduta presso l’amministrazione di provenienza incrementato da un ulteriore trattamento economico”; “i professori inquadrati acquisiscono, ad ogni effetto, lo stato giuridico e le funzioni di professori ordinari, con salvezza delle procedure di avanzamento di carriera”.
A tempo indeterminato.
Nel luglio 2004, con decreto del rettore approvato dal ministro pro-tempore, i compensi corrisposti a rettore, pro-rettore e professore, capi dipartimento e docenti ordinari vennero “rideterminati” in aumento.
La Scuola, nelle parole dell’attuale rettore, diviene “un’assicurazione sulla vita” di alti burocrati. A poco vale invocare “vigilanza, vigilanza, vigilanza.
Bisogna controllare le scuole e controllare le spese” se proprio i soggetti che dovrebbero controllare (i funzionari dello stato) se ne fanno fonte di allegra baldoria, per di più eterna.

La Flotta Europea.


La flotta dei Paesi membri della UE conta su 23.000 unità per una portata complessiva di 430 milioni di tonnellate: il 60% delle navi container ed il 43% delle petroliere che solcano i mari del mondo; 590.000 occupati; 56 miliardi di fatturato, con un PIL per dipendente di 88.000 euro (contro una media di 53.000 euro pro-capite a livello di tutti i settori UE); le 3 principali compagnie del mondo sono europee (la danese Maersk, l’italiana MSC, la francese CGA-CGM) che insieme controllano il 60% delle movimentazioni; il settore è cresciuto del 70% in tonnellaggio fra il 2005 ed il 2014.
Un’Europa marittima che viaggia a velocità doppia rispetto a quella terrestre. La risposta sembra essere duplice: fisco ed internazionalizzazione. Sul fronte fiscale, la UE ha ceduto al “dogmatismo” consentendo i registri internazionali marittimi, che permettono “condizioni di ingaggio” degli equipaggi competitivi con quelli concorrenti; ed ha agevolato l’applicazione della “tonnage tax”, una tassa forfettaria commisurata al tonnellaggio delle navi e non a livelli di fatturato od utili prodotti.
Come risultato, le flotte europee si sono “riposizionate” sui mari internazionali, le compagnie hanno investito nel rinnovo delle flotte, si è sviluppato il “re-flagging” che è il ritorno sotto bandiera comunitaria di navi prima immatricolate in “Paesi di convenienza”. La UE è diventata una “concentrazione dello shipping internazionale”.
“Immagina; puoi”.

I Numeri della Globalizzazione.


Gli investimenti fra le due sponde degli oceani sono imponenti; secondo l’Office of Trade and Industry USA, i principali Paesi europei hanno investito 1.353,1 miliardi di dollari (FDI, Foreign Direct Investments) negli USA, e gli USA hanno in essere 1.761,5 miliardi di dollari di investimenti nel Vecchio Continente, con un saldo di +408,4 miliardi di dollari.
La parte del leone degli investimenti europei in USA la fanno Regno Unito con 486,8 miliardi (il 36%), seguito da Olanda con 274,9 miliardi (il 20,3%), e poi Francia con 209,1 miliardi (il 15,5%) e Germania con 198 miliardi (il 14,6%); l’Italia resta indietro, con 23,3 miliardi di investimenti (l’ 1,7%).
Sul fronte opposto, quello degli investimenti USA in Europa, svetta l’Olanda con 645,1 miliardi di dollari (il 36,6%), seguita da UK con 597,8 miliardi (il 33,9%), e poi Irlanda con 203,8 miliardi (l’ 11,6%), e più indietro Germania con 121,2 miliardi (il 6,9%); staccata l’Italia con 26,8 miliardi (l’ 1,5%).
Ben 3.075.000 di lavoratori americani lavorano in imprese locali possedute da europei, ed altrettanti (3.283.000) sono gli europei occupati in imprese locali possedute da azionisti USA: 207.800 sono gli italiani che lavorano per imprese statunitensi, che tutte insieme fatturano annualmente 125,9 miliardi di dollari nel Belpaese.
Da notare come l’Italia, secondo Paese europeo industriale dopo la Germania, abbia attratto meno di un quarto degli investimenti USA fatti in Germania, e che imprese USA abbiano investito nel Regno Unito 22 volte di più di quanto abbiano fatto in Italia.
Ospitali poco, all’italiana.

Fee-Only: Cronaca di 7 Anni


La direttiva MIFID che prevedeva la figura del consulente finanziario indipendente è stata recepita dalla legge n. 13 del 6.2.2007; dopo 7 anni e mezzo e ripetute manifestazioni di intenti di MISE, Consob, Associazione dei Promotori Finanziari, ABI, Assoreti, Anasf, Assosim, Ascosim, la previsione contenuta nel TUF (Testo Unico della Finanza), il decreto MEF del dicembre 2008, il regolamento Consob 17130 del 15.1.2010, la realtà è che la creazione di una sezione apposita all’interno dell’Albo dei promotori finanziari attende attuazione; la fase transitoria che consentiva ai consulenti indipendenti che avessero iniziato ad operare prima del 31.10.2007 (ante-MIFID) doveva terminare nel giugno 2006; nell’incertezza, la si è estesa al 31.12.2015.
Ulteriore prova della capacità patria di gestire le cose, a luglio 2014 l’emendamento al “decreto competitività” presentato dal MEF, e che avrebbe detto la agognata parola “fine” alla settennale odissea, non è stato approvato. L’accordo fra tutte le parti non basta nel Paese che ha fatto di “waiting for Godot” il suo “jingle”.

Scuole Senza Manager

Iniziate le scuole per oltre 6,5 milioni di studenti, ma in 1.168 scuole, il 13% del totale, una scuola su 8, manca il preside; una emergenza definita “ormai fuori controllo, e le graduatorie dei concorsi sono esaurite”, “va subito bandita una nuova selezione nazionale”. Numeri da bollettino di grande epidemia: in Basilicata le scuole senza manager/preside sono il 31,9%, in Emilia Romagna il 25,5%, in Friuli Venezia Giulia il 24,2%.
La figura del preside non è onorifica, ma sostanziale: indirizza, guida, gestisce, dovrebbe premiare e punire “perché non sono solo gli allievi a dividersi in bravi e meno bravi ma anche i professori” (parole del premier pro-tempore all’apertura dell’anno scolastico). La riforma delle scuole appare sempre nel “top” delle riforme di ogni governo: ad agosto, facile vincere lo scudetto.

Carcerato, ma quanto ci costi?


I detenuti nelle carceri, quelle che una volta si diceva patrie galere, sono 66.883, l’82% dei condannati: il 18% ha accesso a pene alternative; nella vicina Francia i detenuti sono il 26% dei condannati, ed i soggetti a pene alternative il 74%.
Prima riflessione sulla opportunità di adottarle, queste misure alternative che portano anche denaro, essendo spesso semi-libertà dietro cauzione o con obbligo di lavoro, anche parziale, a favore dello stato.
Ma quanto costa tenere i detenuti nelle carceri?
Quale il costo nella UE?
E’ possibile affidarsi a carceri private anziché pubbliche?
Lasciamo da parte considerazioni “filosofiche” sul che cosa deve perseguire la detenzione, che è il recupero del condannato, e concentriamoci sugli aspetti economici perché questo richiedono i tempi magri che stiamo attraversando.
Partiamo dai dati (2012) di un carcere “standard”, quello di Rimini: costo annuo onnicomprensivo di 8.123.320 euro, 200 detenuti (media annua), costo annuo per detenuto 40.611 euro, pari a 3.384 euro al mese e 112,81 euro al giorno; l’80% dei costi è rappresentato da costo del personale (agenti ed altri), il 13% se ne va per vitto (3,95 euro al giorno), il 4% in manutenzione, il 3% per utilities: elettricità, gas, …
Le stime di costo medio giornaliero in Italia sono di 115 euro. Il costo annuo per lo stato della detenzione di 66.883 detenuti, al costo annuo di 40.700 euro, porta ad un conto di 2 miliardi e 722 milioni.
Avrete notato che il costo annuo per detenuto è superiore al reddito medio degli italiani: meglio carcerati che lavoratori, meglio rubare che lavorare, verrebbe da dire …
Quale il costo in alcuni paesi europei? Il costo maggiore è in Norvegia con 12.118 euro al mese, nel Regno Unito è di 4.600 euro, in Francia di 3.100 euro, in Spagna di 1.650 euro.
E’ possibile ridurre il costo di 2.722 milioni?
La gestione privata è presente anche in Europa; la Correction Corp. of America gestisce 64 carceri in Europa, con un costo giornaliero di 29,4 euro (meno di 1/3 di quello italiano). Con gli stessi parametri (ipotetici, per tante ragioni), il risparmio per le casse dello stato sarebbe di quasi 1.8 miliardi di euro.
Non basta, ma aiuta.

Le Aree Produttive le Mette il Comune.


Il comune di Asti cerca il rilancio industriale: 68.000 mq disponibili nell’area di Quarto, a pochi metri dall’uscita autostradale Asti Est sulla TO-PC, in un’area di insediamento produttivo dotata di fognature, viabilità e servizi, oggi inutilizzata per i due terzi, sono stati messi a bando di vendita dal Comune piemontese ad un prezzo di 70 euro al metro quadro, pagamento in 40 anni, nessun onere di urbanizzazione (già coperto dal comune), edificabili per uso industriale e commerciale, in alternativa disponibili ad affitto per 15 anni.
Un invito rivolto ad imprese locali e non, in particolare le 630 imprese multinazionali che hanno già una presenza in Piemonte. Tempi di saldi, confidando di poter “piazzare la merce”.
Un detto piemontese recita “fra niente e piuttosto, meglio piuttosto”.

domenica 21 settembre 2014

Perché il Venture Capital Latita in Europa?


Nel 2013, i fondi di VC europei hanno raccolto 4.000 milioni di euro, per il 40% da programmi sostenuti dalla UE e dai singoli paesi, per meno del 25% da investitori privati, per oltre il 10% da società di gestione di patrimoni, per meno del 5% da banche. L’ European Investment Fund (EIF), una agenzia finanziata dalla UE, da sola ha messo a disposizione 600 milioni per finanziare le “start-up” europee.
La storia dei fondi di VC europei mostra rendimenti sul capitale investito significativamente inferiore ai fondi USA: dal 1990, il rendimento annuo è stato del 2,1% in Europa, contro il 13% dei fondi USA nello stesso periodo (The Economist, “European Venture Capital. Innovation by fiat”).
L’inadeguato “return” dei fondi europei sembra legato sia ad investimenti meno “performanti” rispetto a quelli in cui hanno investito i fondi USA, sia al fatto che i fondi europei, ed in particolare quelli sostenuti dalla mano pubblica, disinvestono troppo presto dalle “start-up”, perdendo quindi quel “quid pluris” che viene dopo la prima fase pionieristica: e quel “quid pluris” è proprio il premio che i VC privati si attendono.
I fondi governativi sembrano più sostenitori delle “start-up” nei loro primi passi, per poi passare alle prossime “start-up”, ma questo “modus operandi” è proprio quanto i VC privati rifuggono: “we want the tree and the apples”. L’”intellighenzia” politica europea ha riposto grandi aspettative nel VC per creare nuova occupazione, cercando di sostenerla con programmi come l’EIF; ma gli investitori privati (fondi pensione, milionari e banche) non sono stati sinora “simpatetici” con quanto vagheggiato dai burocrati europei, preferendo non destinare il proprio denaro ai fondi sostenuti e “sponsorizzati” dalla mano pubblica. Una prima ragione attiene al diverso obiettivo di fondo: politica e governanti vogliono vedere nuova occupazione, spesso in determinati settori ed in certi paesi; gli investitori tipici del VC rifuggono da obiettivi indicati dalla politica: “I undertand why governments invest in venture capital, but they are spoiling it for the rest of us”, nelle parole di un veterano del settore privato.
Una evidenza fattuale è che per ogni euro investito da fondi di VC sponsorizzati dalla mano pubblica, il settore privato ne disinveste uno; questo è un serio problema per il settore e per le iniziative in cui si investe.
Una seconda ragione sembra legata alla diversa percezione della qualità degli investimenti di VC fatti da fondi pubblici e privati: come esempio viene citato proprio EIF che ha sinora investito 3.800 milioni in 260 fondi di VC ed iniziative “start-up”, ma non ne fornisce dati, risultati, prospettive.
Ulteriore ragione è indicata nella legislazione sul lavoro in Europa, pensata per grandi imprese e non per le piccole: il caso esemplare è la normativa sulle “stock options” che sono la “carota” per gli “start-uppers” USA e che vengono quindi favorite dalle leggi fiscali di quel paese, mentre in Europa troppo spesso sono viste con disfavore dai singoli sistemi fiscali nazionali.
Nelle parole di un altro veterano, i fondi sponsorizzati dai governi “servono il piatto principale prima che la tavola sia imbandita a dovere”.
I fondi “governativi” sono visti spesso come fondi gestiti da burocrati e quindi inefficienti “per natura e destinazione”; se vogliono trovare una migliore “ragion d’essere” in un mercato che premi innovazione, intraprendenza, coraggio, dovranno seguirne le mosse e diventare assai più “privati” e, come dicono gli inglesi, “put the money where the mouth is”.

Historia magistra vitae: lo standard romano.


25 secoli fa un popolo di ingegneri innovò in modo definitivo il mondo dei trasporti, “standardizzandolo”. Ad una nazione che volle, riuscendoci, conquistare il mondo apparve evidente la necessità di avere strade con la coppia di tracce dove scorrevano le ruote dei carri sempre uguale (quando le tracce sono costituite, chiunque transiti con un carro avente distanza tra la coppia di ruote diversa da quella degli altri rischia seriamente di non poterle percorrere). 
La distanza tra le due ruote di un  assale è ovviamente dipendente dalla larghezza del carro. Il carro deve percorrere tutte le strade, quindi esiste un limite ovvio di larghezza massima ed anche uno minimo: trattandosi allora di mera trazione animale, essa era rappresentata da una coppia di buoi affiancati.  Il carro standard dell'epoca dell'impero romani aveva la larghezza dei glutei di 2 buoi affiancati, ruote, mozzi compresi, incluse in tale ingombro. 
Tutte le ruote dei carri, dall'impero romano in poi, dovettero avere questo stesso scartamento e, per non rovesciare i carri, questo non fu mutato nel Medioevo e neppure con la rivoluzione industriale nell'adozione dello scartamento ferroviario, che non fu altro che il trasferimento su rotaia dei solchi stradali. 
Lo scartamento ferroviario standard (1.435 mm, pari a 4' e 8 1/2") è tale perchè è la misura dell'assale romano. 
La distanza tra le ruote dei carri è uno dei primi esempi storici della necessità spontanea di costituire uno standard che fu definito naturalmente dai concreti e pratici antichi romani, rigorosamente codificato e rispettato nei secoli. I romani (di allora) hanno costruito, in senso stretto, la loro grandezza sull’ingegneria.
Disciplina rigorosa, come il latino è una lingua rigorosa.