sabato 5 novembre 2016

La pelle del leone e quella della volpe.



“” Per definire appieno la cifra (di Annibale Barca) sia concesso qui supportare il nostro discorso con un aforisma celebre, che Plutarco attribuisce a Lisandro di Sparta. Biasimato da alcuni dei suoi concittadini perché si serve abitualmente degli stratagemmi, indegni di un popolo che si vanta stirpe di Eracle, il vincitore della guerra del Peloponneso replica che la leonté, la spoglia dell’invulnerabile leone (…) non copre per intero il corpo dell’eroe. Dove non arriva la pelle del leone – egli conclude – occorre cucire la pelle della volpe. Il senso è chiaro: se nella metafora di Lisandro la pelle del leone simboleggia l’areté, il valore personale in battaglia, quella della volpe richiama la necessità, in guerra, di un uso costante di metis, l’intelligenza, declinata però in tutti i suoi aspetti, persino nelle sue manifestazioni deteriori, come dolos e mechané, techne e kerdos, l’inganno e l’artifizio, l’accorgimento e la malizia.(…) 
A chi gli chiederà come ci si debba comportare in guerra, Antigono Gonata risponderà (…) che vale qualunque mezzo si ritenga utile, che si può cioè usare indifferentemente l’inganno come la forza, che si può attaccare il nemico apertamente o di nascosto. (…) 
In un passo del “De officiis” di Cicerone: “esistono due modi di violare il diritto, la violenza e la frode. La violenza è propria del leone, la frode della volpiciattola, comportamenti l’uno e l’altro lontanissimi dall’umana natura; ma è la frode a essere degna di riprovazione maggiore”.””



(Giovanni Brizzi, “Canne. La sconfitta che fece vincere Roma”)

martedì 1 novembre 2016

Buonanotte al secchio.



“” C’è il declino dell’intelligenza. Quella individuale e quella collettiva. Quella inconscia che guida l’istinto di sopravvivenza e quella conscia che guida la facoltà di capire, apprendere, giudicare e quindi distinguere il Bene dal Male. Eh, sì. Paradossalmente siamo meno intelligenti di quanto lo fossimo quando non sapevamo volare, andare su Marte, cercarvi l’acqua. O riattaccarci un braccio, cambiarci il cuore, clonare una pecora o noi stessi. Siamo meno lucidi, meno svegli, di quando non avevamo quel che serve o dovrebbe servire a coltivare l’intelligenza. Cioè la scuola accessibile a tutti anzi obbligatoria, l’abbondanza e l’immediatezza delle informazioni, l’Internet, la tecnologia che rende la vita più facile. E il benessere che toglie l’assillo della fame, del freddo, del domani, che placa l’invidia. Quando questo bendiddio non esisteva, bisognava risolvere tutto da soli. Quindi sforzarci a ragionare, pensare con la propria testa. Oggi no. Perché anche nelle piccole cose quotidiane la società fornisce soluzioni già pronte. Decisioni già prese. Pensieri già elaborati confezionati pronti all’uso come cibo già cotto. “We are thinking of you. So you don’t have to. Stiamo pensando per te. Così tu non devi farlo” dice l‘agghiacciante scritta che ogni tanto lampeggia in un angolo dello schermo quando alla TV scelgo il canale “Science and Science-Fiction”. Più o meno ciò che fanno i dannati computer (io li detesto) quando correggon gli errori e addirittura forniscono suggerimenti, così esentandoti dal dover conoscere la Consecutio Temporum e l’ortografia, nonché sgravandoti da ogni senso di responsabilità e portandoti all’ottusità. Ergo, la gente non  pensa più. O pensa senza pensare con la propria testa. Neanche per fare una somma o una sottrazione, una moltiplicazione o una divisione. Che del resto non sa più fare. Quand’ero bambina tutti sapevano fare le somme e le sottrazioni, le moltiplicazioni e le divisioni. Tutti conoscevano la Tavola Pitagorica. Perfino gli analfabeti. Nei negozi degli alimentari c’era una stadera che dava il peso non il prezzo, così il bottegaio doveva calcolare con la propria testa il prezzo del formaggio che pesava un etto e venticinque grammi. O del pesce che pesava sei etti e trentanove grammi, o del pollo che pesava un chilo e duecentosettanta grammi. E lo calcolava. Velocissimamente. Perfettamente. Infatti se eri stupido non potevi gestire un negozio di ortolano o di pescivendolo o di macellaio. Oggi chiunque può. Perfino l’incolto che oltre a foderarmi di pallottole ignora chi fosse Giovanna d’Arco o Maria Stuarda o Maria Antonietta o Caterina di Russia. Perché al posto della stadera ha la bilancia elettronica che pesa per lui e che insieme al peso gli dà il prezzo. Negli altri mestieri, lo stesso. Quand’ero bambina i fornelli a gas e i fornelli elettrici li avevano i ricchi e basta. Per cuocere l’uovo, bollire l’acqua, dovevi usare il carbone cioè accendere il fuoco. Dovevi anche tenere il carbone acceso con il soffietto. Oggi no. Giri la manopola del fornello elettrico o del fornello a gas, e lui s’accende da solo. Senza fiammifero. Rimane acceso da solo, e ciò sarebbe una gran conquista se il tempo che risparmi tu lo impiegassi per pensare. Per ragionare su ciò che vedi, che ascolti, che leggi, ad esempio. Per sfruttare il tuo cervello nel campo delle idee, della coscienza, della morale. Per accorgerti che qualcosa di ciò che vedi e ascolti e leggi non va, nasconde un inganno o un’impostura. Invece no. Non lo fai perché … 
Perché il cervello è un muscolo. E come ogni altro muscolo ha bisogno d’esser tenuto in esercizio. A non tenerlo in esercizio impigrisce, si intorpidisce. Si atrofizza come si atrofizzano le mie gambe quando per mesi e mesi sto a questo tavolino, sempre a scrivere, sempre a studiare … E atrofizzandosi diventa meno intelligente, anzi diventa stupido. Diventando stupido perde la facoltà di ragionare, giudicare, e si consegna al pensiero altrui. Si affida alle soluzioni già pronte, alle decisioni già prese, ai pensieri già elaborati confezionati pronti all’uso. Alle ricette che, come le bilance elettroniche o i fornelli a gas o i computer, l’indottrinamento gli somministra attraverso le formule del Politically Correct. La formula del pacifismo. La formula dell’imperialismo. La formula del pietismo, la formula del buonismo. La formula del razzismo, la formula dell’ecumenismo. La formula anzi la ricetta del conformismo cioè della viltà. Senza che lui se ne renda conto. Il fatto è che non può rendersene conto. Quelle formule e quelle ricette sono veleni incolori, insapori, inodori: polvere d’arsenico che ingerisce da troppo tempo. E niente è più indifeso quindi più malleabile e manipolabile d’un cervello atrofizzato, d’un cervello stupido, d’un cervello che non pensa o pensa coi cervelli altrui. Puoi ficcarci tutto, lì dentro. Dal Credere-Obbedire-Combattere alla verginità di Maria. Puoi fargli credere che Cristo era un profeta dell’Islam, che aveva nove mogli e diciotto concubine, che predicava l’occhio per occhio e dente per dente, e che morì a ottant’anni di raffreddore. Puoi convincerlo che Socrate era un siriano di Damasco, Platone un iracheno di Bagdad, Copernico un egiziano del Cairo, Leonardo da Vinci un marocchino di Rabat, e che tutti e quattro avevano studiato all’università di Kabul. Puoi raccontargli che Bush è l’erede di Hitler e ogni sera legge il Mein Kampf, che Sharon è così grasso perché mangia i bambini palestinesi in salmì, che la cultura islamica è una cultura superiore, e che senza di essa l’Occidente non esisterebbe. Puoi dargli a bere che il pluriculturalismo è l’imperativo categorico di cui parlava Emanuele Kant, che nel Corano sta la nostra salvezza, che le bandiere arcobaleno sono simbolo di pace e le persone come me simbolo di guerra. Non essendo più capace di pensare con la propria testa, nemmeno per accendere il fuoco o per calcolare che due più due fa quattro, quel cervello accetterà ogni bugia o stoltezza senza reagire. La immagazzinerà e la risputerà col medesimo automatismo con cui gira la manopola del gas o si cerca il pezzo del pollo sulla bilancia automatica. Atrofizzato e basta? Dovrei dire lobotomizzato. La lobotomia è una castrazione mentale. Consiste nel recidere le vie nervose che controllano i processi cerebrali … Chi subisce la lobotomia smette di pensare ciò che potrebbe pensare, diventa docile strumento nelle mani di chi pensa per lui. E se chi pensa per lui è a sua volta lobotomizzato, buonanotte al secchio.””



(Oriana Fallaci, “La forza della ragione”, 2003)