Un estratto di questo articolo è stato pubblicato su Econopoly del Sole24 ore in data 15.5.2020
Immaginare
come potrebbe essere il post-coronavirus è come fare affidamento sull’arte
divinatoria degli aruspici, consistente nell’esame delle viscere di animali
sacrificali per trarne segni premonitori: opera illusoria, priva di elementi
concreti su cui elaborare e lavorare; meglio non fare troppo affidamento sulle
previsioni di guru di varia disciplina.
Restano
poche cose certe, come quelle che fanno riferimento a clima e cibo; dal loro
rapido esame traiamo alcune indicazioni: dobbiamo prepararci ad un futuro che
strizza l’occhio al passato, una sorta di ritorno alla tesi di Malthus ( https://it.wikipedia.org/wiki/Thomas_Robert_Malthus) così riassunta: la
pressione demografica diffonde povertà e fame nel mondo, il che significa
che se la popolazione eccede la disponibilità di cibo presente nella società,
il risultato sarà fame e povertà. Se lo sviluppo economico ed il
miglioramento delle tecnologie di produzione (agricola ed industriale) hanno
negli ultimi due secoli migliorato le rese agricole, temporaneamente togliendo
validità alla tesi malthusiana (basata sulla evidenza che la crescita
dei mezzi di sussistenza è aritmetica, mentre quella della popolazione è
geometrica, cioè ha un potenziale di incremento enorme, a meno
che venga controllata, cioè soggetta a "freni preventivi", in grado
di rallentarne la capacità riproduttiva) (*), l’evoluzione del cambiamento
climatico ed il suo impatto sulla disponibilità di cibo, combinata allo tsunami
che il coronavirus promette di scaricare su clima e cibo stessi, porta a scenari
duri e difficili, ad un approdo … malthusiano.
Le
domande che ci poniamo: il coronavirus impatta sulla gestione e sulla
disponibilità di cibo? Dobbiamo attenderci variazioni nel paradigma alimentare,
oggi diretto verso un crescente consumo di carne rispetto al passato? Le
risorse diminuiranno, come potrebbe accadere con le aree coltivate? Perché?
La
maggior parte dell’umanità ha sempre vissuto in regioni con una temperatura
media variabile fra un minimo di 6° ed un massimo di 28°, temperature ideali
per la vita umana e per la produzione di cibo; il clima sta cambiando: fra il
1979 ed il 2017 il numero di eventi potenzialmente fatali dovuti al combinato
impatto di situazioni estreme di elevati caldo ed umidità è raddoppiato in
numero e frequenza, in aree tropicali e sub-tropicali; in meno di 50 anni il
clima, e quindi le condizioni di vita, cambierà più che nei 6.000 anni passati;
nel caso la temperatura media salisse di 3°, la temperatura corporea
crescerebbe di 7,5°, rendendo molto precaria la nostra vita su questa Terra (v. nota**); in
questo scenario (si badi bene, dipinto prima dell’impatto del coronavirus),
quasi 1/3 della popolazione mondiale vivrebbe in situazioni di caldo estremo
(tecnicamente, con una temperatura media superiore a 29°), caldo combinato ad
un aumento dell’umidità in regioni come India (parliamo di 1,2 milioni di
abitanti), Nigeria (485 milioni), Pakistan, Indonesia, Sudan (tutti paesi che
superano, ciascuno, i 100 milioni). Condizioni negative per la vita umana,
per l’allevamento, per l’agricoltura e quindi per le risorse alimentari. O
scappi, o ti adatti. L’adattamento a temperature ed umidità così elevate è
difficile, oggi inimmaginabile, sicuramente per la maggior parte della
popolazione interessata. Resta la migrazione. Dove? Certamente non nelle
aree urbane litoranee, dove già vivono i 2/3 della popolazione mondiale, e che
in caso di aumento della temperatura dei mari di 2° verrebbero in parte sommerse
dal mare.
Ma
siamo solo all’inizio della storia …
Tre
quarti del cibo consumato nel pianeta è fatto di riso, grano, mais; metà di
tutto quanto mangiano i 7 miliardi di esseri umani è rappresentato da riso.
L’efficienza produttiva e lo sfruttamento del terreno variano in modo
considerevole fra paesi “avanzati” (negli Stati Uniti a metà del secolo scorso
1 ettaro produceva 2 tonnellate di cereali ed un contadino poteva lavorarne
circa 25 con una produzione annua di 50 tonnellate; oggi, grazie a
miglioramenti nella tecnica e nell’irrigazione, la produttività consente di
lavorare 100 ettari con una produzione annua di 1.000 tonnellate per ogni
contadino) ed “arretrati” (nell’Africa sub-sahariana, 1 ettaro produce quasi
700 chili di cereali ed ogni contadino lavora in media 1 ettaro, producendo
quindi 700 chili annui). 1/3 della popolazione mondiale, oggi, non ha cibo a
sufficienza, e gli sforzi per ridurne il numero sono stati largamente
infruttuosi, con un aumento della pressione demografica.
Intimamente
collegato al tema del cibo è il tema dell’acqua, della sua disponibilità (alta
in regioni a bassa densità abitativa, bassa in quelle ad alta intensità
abitativa), del suo cattivo utilizzo, della sua qualità.
Mangiare
animali, nel nostro mercato globale, è un lusso, diffusosi in aree di recente
sviluppo economico, come la Cina ed ampie zone del Sud Est asiatico (i paesi
che crescono); mangiare carne mette l’uomo in competizione con gli animali
nella scelta di che cosa mangiare; seppure per millenni gli animali abbiano
mangiato erba, oggi essi mangiano gli stessi alimenti che rientrano nella dieta
dell’uomo: soia, mais, altri cereali.
I bovini,
50 anni fa, erano 700 milioni: oggi sono 1.400 milioni, il doppio. Sono
necessarie 4 calorie vegetali per produrre 1 caloria di pollo, 6 per 1 caloria
di maiale, 10 per una caloria di bovino od agnello.
Occorrono
1.500 litri per produrre 1 chilo di mais, 15.000 litri per produrre 1 chilo di
carne bovina. 1 ettaro di terra buona può produrre 35 chili di proteine
vegetali, che scendono a 7 chili se utilizzate come alimento per animali.
In
termini economici, mangiare carne significa “appropriarsi” di risorse vegetali
che potrebbero bastare per 5 o 10 persone.
Negli
ultimi decenni, il consumo di carne è raddoppiato rispetto alla popolazione, il
consumo di uova è triplicato. L’allevamento di animali copre l’80% della
superficie agricola coltivabile (a tecnologia attuale), assorbe il 40% della
produzione mondiale di cereali ed il 10% delle risorse idriche del pianeta.
L’uomo ha via via “conquistato” terreno coltivabile
distruggendo foreste ed habitat animali, quegli stessi animali che possono -
come fanno sempre più spesso … - trasmettere virus e batteri all’uomo, cosa che
avviene sia con animali selvatici con cui si viene direttamente in contatto in
queste aree “di confine”, sia indirettamente, tramite contatti fra animali
selvatici ed animali domesticati, come sono gli animali che vivono in
allevamenti, destinati alla macellazione ed al consumo per l’uomo. Tutto va
bene sino a quando va bene, in queste aree marginali, che nel tempo si sono
necessariamente estese per fra fronte all’aumento esponenziale del fabbisogno
di carne. Senza dimenticare che la concentrazione di animali domesticati in
spazi ristretti moltiplica l’effetto di virus animali (si pensi ai ricorrenti
casi di pandemie aviarie e suine). Viviamo circondati da virus e batteri
malefici, sempre più combattivi e resistenti, e destinati a vincere,
sicuramente nel medio termine. Le nostre medicine possono molto, ma non tutto;
certo, qualche progresso rispetto alla Peste Nera (“casualmente” proveniente
dalle steppe sino-asiatiche a dorso di cavallo mongolo) c’è stato, se
ricordiamo che la metà degli abitanti europei morì per sua causa diretta.
Allora,
che facciamo? Una semplice analisi costi/benefici ci potrebbe aiutare – se lo
volessimo - a dirimere la questione; se spingiamo oltre la politica
alimentare attuale (più carne!) corriamo rischi crescenti in termini di
esposizione a virus e batteri dannosi per l’uomo, spesso mortali; se ci fermiamo
e viriamo verso una riduzione di spazi destinati all’allevamento intensivo ed
un aumento della coltivazione vegetale, avremmo risorse sufficienti per tutta
l’umanità?
E se
uniamo i puntini fra cambiamento climatico e scelta alimentare, passando per le
perigliose cuspidi delle domande inevase sull’impatto futuro del coronavirus,
il quadretto che ci troviamo ad osservare descrive il classico “worst case
scenario”:
-
- per limitare, se non escludere, il diffondersi di
virus letali per l’uomo, sarà necessario abbandonare gli allevamenti animali
posti vicino agli habitat delle specie selvagge; il risultato sarà una
riduzione della produzione di carne; queste aree non saranno disponibili, se
non in parte, per la coltivazione vegetale per consumo umano; questa sarà una
prima risposta “strategica” per combattere la possibile diffusione di nuovi e
vecchi virus, avendone avuta dolorosa esperienza;
- -
in modo crescente, si dovranno incrementare, a
discapito dell’allevamento di bestiame, le coltivazioni di alimenti di
origine vegetale, che hanno una migliore resa, ma anche un valore proteico
inferiore alla carne; per molti, sarebbe un “passo indietro” di difficile
accettazione;
-
… gli spazi destinati alla agricoltura potrebbero
rapidamente ridursi, in alcuni casi esaurirsi, anche per effetto del
cambiamento climatico; il risultato sarebbe una riduzione, forse sostanziale,
del cibo disponibile;
Avremo una riduzione delle risorse, e quindi una
riduzione del tasso di crescita (se non una sua inversione)
della popolazione, che si dovrà allineare alla dinamica della disponibilità
di risorse alimentari: tornerebbe il “vecchio paradigma” della crescita
aritmetica (positiva e/o negativa) di risorse alimentari (cibo) e
popolazione, con una tendenza all’allineamento. “uno vale uno”, ovvero Malthus
is back!
Uno
scenario arduo da accettare: chi si approprierà delle (sempre più) scarse
risorse alimentari (inclusa l’acqua)? Chi oggi già ne ha la disponibilità,
i ricchi paesi del Nord del mondo, oppure chi dai paesi poveri del mondo sarà
costretto a migrare, pacificamente o più spesso non pacificamente?
Il
coronavirus non ha fatto altro che metterci dinanzi, inesorabilmente, a dure
scelte. Il governo del mondo, peraltro, è oggi largamente dominato da paesi che
adottano quelle che eufemisticamente potremmo chiamare “politiche antipatiche”
(USA, Russia, Cina, Turchia, Brasile), ma che contano più di tutti gli altri
messi insieme.
Fasten your seat belt, and pray!
Bibliografia
essenziale:
“La
ricchezaa e la povertà delle nazioni”, David S. Landes
“La
fame”, Martin Caparròs
"One billion people will live in insufferable heat within 50 years", The Guardian, 5.5.2020 (nota **)
"One billion people will live in insufferable heat within 50 years", The Guardian, 5.5.2020 (nota **)
(*) Nota esemplificativa della
c.d. crescita geometrica:
Narra la leggenda che
all’inventore degli scacchi, che presentava in dono al re di Persia il suo
nuovo gioco, venne chiesto cosa voleva in cambio del suo regalo. Egli chiese
soltanto del riso e disse che la quantità si doveva calcolare mettendo un
chicco di riso nella prima casella della scacchiera, 2 chicchi nella seconda, 4
nella terza, 8 nella quarta, e così via, in modo da mettere in ogni casella il
doppio dei chicchi messi nella casella precedente. Il simpaticone chiese poi
che gli fosse consegnato il contenuto della 64-esima casella. Il re acconsentì
prontamente e chiese che fosse portato il riso, rimanendo allibito quando i
suoi esperti lo informarono che la quantità di riso richiesta superava di gran
lunga le risorse del suo impero! Facciamo un piccolo calcolo.
Stimando in 1/45 di grammo il peso medio di un chicco di riso, il peso di 263
chicchi (quelli che dovrebbero trovarsi nella 64-esima casella) è di oltre 200
miliardi di tonnellate. Considerando che la produzione mondiale di riso nel
2014 è stata di 741 milioni di tonnellate, capiamo che evidentemente il re non
poté soddisfare tale richiesta