Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24ore il 3.12.2018
Nel recente
rapporto “Who made the cut?” CB Insights indica 25 “metro area” dove sono presenti I più
importanti “hub tecnologici”, fra questi solo 6 sono europei (Amsterdam,
Barcellona, Berlino, Londra, Parigi, Stoccolma); come vedremo, gli “hub” più
importanti hanno una “potenza di fuoco” senza paragoni con le “cartuccelle”
italiche, disperse su 97 incubatori ed acceleratori, 40 parchi tecnologici, 65
spazi di “crowdfunding”: una dispersione di intelligenza, “focus”, risorse,
energie e competenze che fotografa la situazione farraginosa, dispersiva, poco
focalizzata e povera di risorse finanziarie del nostro paese. Il confronto è
impari: i 200 siti italici assorbono meno di un quarto degli investimenti annui
fatti nella sola Tel Aviv, una delle piazze più dinamiche ed avanzate nel
settore dell’alta tecnologia. Ma più che piangere sulle domestiche debolezze, è
meglio esaminare che cosa avviene nel mondo e quali dinamiche virtuose derivano
dal lavoro e dalla intelligenza profusa negli “hub” in giro per il mondo.
Accanto ai 6 “hub”
europei, tra i primi 25 mondiali troviamo 8 “hub” negli Stati Uniti (accanto alla “mitica” Silicon Valley,
ecco Austin, Boston, Denver, Los Angeles, New York, Seattle, Vancouver), 1 in Israele (Tel Aviv), 1 in Brasile (San Paolo), 1 in Australia (Sydney), 1 in Canada (Toronto), 7 in Asia (Mumbai, New Delhi, Bangalore,
Pechino, Seul, Shanghai, Tokio), un caleidoscopio della diffusione di
innovazione e cultura tecnologica ed industriale. I “pesi massimi” restano
Silicon Valley, Boston, Londra, Los Angeles, New York e Tel Aviv; gli “hub” a
maggiore crescita includono Austin, Bangalore, Pechino, Berlino, New Delhi,
Parigi, Seattle, Shanghai, Tokio, Toronto; a seguire, Amsterdam, Barcellona,
Denver, Mumbai, San Paolo, Seul, Stoccolma, Sydney, Vancouver.
Alcuni dati sintetici possono aiutarci ad inquadrare il
tema:
1. Dal 2012, nella Silicon Valley ci sono stati 12.000 operazioni che hanno coinvolto
imprese tecnologiche, seguita da New York con 5.000; in termini di “funding”, nel periodo gennaio 2012 – maggio 2018, Silicon
Valley ha visto una raccolta complessiva di 140 miliardi US$, seguita da
Pechino con 75 miliardi US$ e poi New York (36 miliardi US$) e Shanghai (23
miliardi US$);
2. Silicon Valley ha avuto un numero di operazioni di “exit” (disinvestimento con quotazione o
vendita a terzi), ciascuna di valore
superiore a 100 milioni US$, 4 volte superiore, in numero, a quelle di New
York, ed ancora maggiore di quanto fatto a Londra, Los Angeles, Pechino;
parlando solo di “unicorn” (le start-up con una capitalizzazione superiore a 1
miliardo US$), Silicon Valley ha sinora “battezzato” 57 “unicorn”, Pechino 29,
New York 13 e Shanghai 11;
3. Tel Aviv è l’“hub” più aperto ad investitori esteri, che hanno apportato oltre i 2/3 delle risorse a
sostegno di start-up; 1 operazione di “exit” su 7 ha avuto un valore medio
superiore a 100 milioni US$; in questa classifica Londra è seconda con il 44%
di investitori esteri, seguono Silicon Valley (24%), New York (20%), Boston
(16%); Tel Aviv è anche la preferita dagli investitori
“corporate” (imprese e “venture capitalists”), con una quota del 25% sul
totale raccolto (Silicon Valley è seconda con il 21%, seguita da Boston col
18%);
4. Fra i “pesi massimi”, nel periodo 2012-2017 ogni anno si
sono realizzate in media 670 operazioni con un valore annuo totale medio di 38
miliardi US$ (controvalore dei prezzi di vendita e/o IPO); Silicon Valley, nel
periodo 2012-2017, ha visto oltre 200 operazioni di “exit” con un valore
superiore a 100 milioni US$;
5. Pechino e Shanghai stanno rapidamente scalando la
classifica; nel periodo 2012-2017 Pechino ha visto perfezionarsi quasi 500
operazioni e Shanghai oltre 350; il futuro vedrà crescere il loro peso ed il
loro ruolo, come quello degli altri “hub” asiatici, sia sui contenuti
tecnologici che per i valori in ballo;
6. A Berlino quasi la metà del funding arriva da investitori
esteri; Stoccolma ha visto crescere la sua importanza grazie all’IPO di Spotify
(una delle più elevate del 2018) ed alla vendita di iZettle (a PayPal), che
hanno portato a 648 le operazioni concluse dal 2012.
Il “fattore critico di successo” è la capacità di avere ritorni significativi sugli investimenti
iniziali: l’“ecosistema” ha bisogno di vedere entrare il denaro, ma ancor
più di vederlo uscire (sotto la forma di vendita, apertura del capitale a fondi
ed investitori, quotazione/IPO); le più importanti operazioni di “exit” sono
quelle che hanno interessato Facebook (IPO, 104 miliardi US$), Spotify (il più
importante “unicorn” europeo, basato a Stoccolma; IPO, 29,4 miliardi US$),
JD.Com (IPO cinese, 25,7 miliardi US$), Snap (IPO, 24,8 miliardi US$). In questa
classifica, Silicon Valley svetta con 252 “exit” di valore unitario superiore a
100 milioni US$ fatte fra il 2012 ed il maggio 2018, largamente in vantaggio su
New York (61), Londra (49), Los Angeles (43), Pechino (34), Boston (23), Tel
Aviv (19). Se i primi investitori “guadagnano ed incassano”, maggiori saranno
gli incentivi a ripetere operazioni di investimento nelle iniziative degli
“hub”.
La tecnologia si
“ciba” di finanza, intesa come investimenti da parte di imprese, privati
investitori, fondi di private equity e venture capital; le buone idee nascono dove il “mix” fra competenze tecnologiche
(le migliori e più dinamiche università, i campus, i “nerd”,…) e mezzi finanziari
trova il terreno fertile per sviluppare idee e renderle attuabili; la voglia di
innovare, inventare, confrontarsi con il mercato è la “sana malattia” che fa
crescere l’industria e, in un circolo virtuoso, attraverso le tecnologie rende
possibile il “salto di conoscenze e competenze” che rendono possibile e
credibile il successo di una nazione e dei suoi (migliori) cittadini, una
categoria affatto diversa da quanti vengono ipnotizzati e lobotomizzati dal
miraggio desertico del reddito di cittadinanza.
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