Questo articolo è apparso su Econopoly de IlSole24ore martedì 1 ottobre 2019.
Grandi avvenimenti sono occorsi negli Stati Uniti negli ultimi 10 anni, a leggere un rapporto (“America has two economies – and they’re diverging fast”) preparato dal think tank Brookings e dal Wall Street Journal;
un ritratto di come il voto degli americani si stia polarizzando, con
gli stati delle coste orientale ed occidentale e delle aree ad elevata
concentrazione di lavoratori “high skilled” – tipicamente
quelli occupati nei settori tecnologici, dei servizi digitali,
dell’economia dei servizi ad alta efficienza – che vedono i propri
elettori preferire, in modo spesso assai marcato, il voto ai
Democratici, e gli stati agricoli e con economie “tradizionali”
contrassegnate da lavoratori con competenze più contenute ed a minore
produttività che invece preferiscono votare per i Repubblicani.
Questa polarizzazione è aumentata fra il 2008 ed il 2018, un periodo
(breve in termini di eventi economici, più lungo in termini “politici”)
in cui gli USA sono passati da una amministrazione democratica, segnata
dalla gestione Obama, ad una repubblicana, segnata dalla presidenza
“fuori le righe” di Trump, il cui messaggio politico ha riscosso un
particolare successo negli stati “old economy”.
Ricordiamo che la distribuzione della popolazione, negli Stati Uniti,
è disomogenea fra i singoli stati, diversi anche per estensione
geografica; l’analisi evidenzia alcuni aspetti peculiari della
situazione odierna, confrontata con quella di 10 anni fa, dei singoli
distretti elettorali (che spesso divergono da una rigida collocazione
geografica statale).
Nel 2008, i distretti che votarono democratico, spesso distretti
urbani, “coprivano” il 39% del territorio statunitense, contro il 61%
dei distretti conservatori; 10 anni dopo, la mappa si era modificata,
con solo il 20% del territorio contrassegnato dal “blu” democratico,
contro il “rosso” conservatore; una distribuzione che riflette anche la
più bassa densità della popolazione nelle aree rurali.
Ma quando si passa ad esaminare gli aspetti economici e demografici,
si osserva una decisa modifica intervenuta nel decennio in esame: il reddito medio familiare
dei distretti “democratici” è passato da 54.000 $ nel 2008 a 61.000 $
nel 2019, quello dei distretti “conservatori, nello stesso periodo, è
sceso da 55.000$ a 53.000$ (si veda il grafico del Brookings qui sotto).
Questo diverso andamento è ovviamente legato alla diversa
“performance economica” delle singole aree geografiche, ed ulteriori
dati sembrano confermare questa ipotesi iniziale. La produttività per occupato è cresciuta del 18% nei distretti “dem” ed è invece rimasta stabile nei distretti “cons”; gli adulti con un diploma universitario
sono passati dal 28,4% (2008) al 35,6% (2018) della popolazione nei
distretti “dem”, mentre nei distretti “cons” questi valori sono passati
dal 26,4% al 27,8% nello stesso periodo; la concentrazione urbana
della popolazione è cresciuta dall’86,7% al 94,6% nei distretti “dem”
nel decennio, mentre è diminuita dall’82,7% al 75,6% nei distretti
“cons”; in modo altrettanto significativo, la percentuale degli occupati in servizi professionali e “digitali”
è passata dal 63,7% al 71,1% nei distretti “dem”, nel decennio, mentre
la stessa percentuale nei distretti “cons” è scesa dal 36,3% al 28,9%;
non sembri sorprendente, allora, osservare come la percentuale degli occupati nella c.d industria di base
(“la “vecchia” manifattura) sia oggi il 43,6% contro il 53,9% di 10
anni fa nei distretti “dem”, e sia invece salita dal 46,2% al 56,4% nei
distretti “cons”; e che la quota di popolazione nata all’estero
ed integrata nel sistema domestico sia oggi pari al 20,1% (contro il
15,4% 10 anni fa) nei distretti “dem” ed all’8,1% (10,5% nel 2008) nei
distretti “cons”; i distretti “cons” hanno una percentuale di popolazione “non white” del 27,3% (28% nel 2008) contro il 49,5% (39,4% nel 2008) dei distretti “dem”; ed infine, gli ultra 65enni sono il 16,5% della popolazione nei distretti “cons” (erano 12.9%) ed il 14,7% (erano il 12,7%) nei distretti “dem”.
Nel breve volgere di un decennio, i distretti che hanno votato “dem” hanno visto una crescita economica superiore,
un livello di reddito in crescita (e non in diminuzione, come i
distretti “cons”), una migliore educazione (adottando come criterio la
percentuale di laureati sulla intera popolazione), una crescita nei
settori “high tech” contro una riduzione dell’occupazione nei settori
“tradizionali”, una crescita della popolazione nata all’estero e
“non-white”, una minore percentuale di ultra 65enni; per contro, gli stessi indicatori, per i distretti “cons”, fanno segnare un risultato di segno contrario:
più occupati nei settori “tradizionali” (dall’agricoltura all’industria
di base), meno laureati, minori redditi familiari, più “white”, più
ultra-65enni. Questa seconda è “l’America che ha votato Trump” e che la
presidenza in carica vede come la “First, America” da salvare, od almeno
difendere.
Oggi i democratici sono “ancorati” ai distretti e nelle aree urbane
che crescono, spesso e molto in modo diseguale, mentre i conservatori
(il GOP, Good Old Party) vede le proprie basi nelle aree rurali e
extra-urbane a minore crescita, con basi economiche tradizionali o
calanti, con una popolazione più anziana.
Le sfide per gli Stati Uniti sembrano quindi evidenti:
da un lato cercare di ridurre, od almeno contenere, una
contrapposizione fra le due Americhe che oggi si fronteggiano sul piano
economico e sociale; dall’altro, trovare una sintesi politica meno
“antagonista” e meno intransigente, l’una parte del paese verso l’altra.
Ma le sfide non sono, a nostro avviso, solo Oltreoceano;
la nostra piccola società vive anni altrettanto febbrili, difficili,
modesti sul fronte progettuale, inconsistenti sul fronte realizzativo;
una analisi come quella condotta da Brookings e WSJ sarebbe da un lato
altamente auspicabile; dall’altro di difficile realizzazione, non
foss’altro che il bipolarismo (e quindi ci sia permesso dire: la
semplificazione dei modelli, limitati a 2 negli USA) da noi non esiste e
lo scenario politico, e quindi il voto degli italiani, non è frutto e
risultato solo di diverse concezioni e modelli politici, di risultati
economici (il famigerato PIL e l’ancor più bistrattato profitto …), di
livello culturale. Ma fermiamoci qui, in attesa di una seria e
circostanziata (con numeri e dati come quelli sciorinati da Brookings e
WSJ) analisi del voto degli italiani in rapporto ai fenomeni economici e
sociali del nostro tempo, ricordandoci che “mala tempora currunt” (e vanno veloci assai).
martedì 1 ottobre 2019
venerdì 23 agosto 2019
Spiagge a prezzo di saldo, il prezzo del trionfo delle lobby sullo Stato
Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24ore venerdì 17 agosto 2019.
Agosto, milioni di italiani sono in vacanza, alla ricerca del mare pulito, della spiaggia disponibile, del lettino e dell’ombrellone in prima fila, della facile abbronzatura. Senza pensieri, o quasi. Sono i numeri che danno pensieri … eccone alcuni in rapida sequenza (per riferimento, si veda anche il Rapporto Spiagge 2019 di Legambiente).
In Italia ci sono 7.412,4 km di coste, tutti rigorosamente facente parte del Demanio, patrimonio indisponibile dello Stato, che può concederle in uso tramite l’istituto della concessione: oggi le concessioni demaniali marittime sono 52.619, di cui 11.104 per stabilimenti balneari e 1.231 per circoli, campeggi, resort ed alberghi; il giro d’affari stimato degli stabilimenti balneari che occupano e gestiscono le spiagge italiane è di 15 miliardi di euro annui; a fronte di questi numeri, lo Stato incassa (dato 2016) 103 milioni dalle concessioni, meno dello 0,7% del fatturato degli stabilimenti balneari.
La prima considerazione è ovvia: lo Stato è un pessimo amministratore delle sue proprietà (questo già lo sapevamo, valendo per quasi tutte le iniziative che riportano il bollino “amministrato dallo Stato”); … anche i bagnanti distratti e sudaticci amabilmente sdraiati sui lettini lungo l’arenile si chiederanno: … e che cosa fa lo Stato per migliorare questa situazione? La risposta è disarmante: fa di tutto per peggiorare la sua situazione (quindi, la nostra, essendo noi i contribuenti che manteniamo in vita questo baraccone).
Ed ecco perché e come.
Lo Stato italiano da un lato non è in grado di applicare canoni corretti e “di mercato” (da cui rifugge come la peste, essendo lo Stato italiano, per definizione, onnivoro, “socialisteggiante” nonché fortemente, visceralmente pervaso di un animo corporativo), dall’altro è incapace di dare applicazione ad una direttiva europea, la “direttiva Bolkestein”, che contiene le regole che garantiscono la parità tra imprese e professionisti europei nel mercato comunitario. La direttiva Bolkestein stabilisce che i servizi e le concessioni pubbliche vengano lasciati alla libera concorrenza tra privati tramite gare con regole e criteri d’assegnazione trasparenti, che diano la possibilità a tutti gli operatori, a prescindere dal Paese europeo nel quale abbiano sede, di partecipare. E potenzialmente di aggiudicarsi la gara offrendo servizi e canoni più competitivi. Applicare la direttiva al settore del turismo balneare italiano vorrebbe dire rimettere in discussione il business sul quale si regge l’intero comparto degli stabilimenti e dall’altro mettere in chiaro la dabbenaggine dello Stato come amministratore.
(Qualcuno si chiederà: “sì, l’Italia … ma che cosa avviene in Francia, Spagna, Portogallo, Grecia?”; nello spazio ristretto concesso a questo articolo possiamo solo fare riferimento allo studio comparativo fatto sulla materia dal nostro Parlamento ; i volenterosi scopriranno che i governi stranieri sono molto più efficienti avendo ottenuto deroghe pluridecennali, cosa che gli incompetenti governanti italiani, da anni, nemmeno sono in grado di comprendere, figurarsi copiare).
Riassumendo:
– nel 2006 la direttiva Bolkenstein ha decretato l’apertura del mercato e messo a rischio-asta le concessioni demaniali marittime sino allora, ed ancora oggi, ottenute in via diretta;
– nel 2012 il governo italiano, con un atto ben definibile come “d’imperio”, ha prorogato, senza discussione ed in modo automatico, le concessioni in essere sino al 2034, così contravvenendo a quanto disposto dalla direttiva in oggetto; ovviamente, è stata aperta una procedura di infrazione contro l’Italia e fra pochi mesi è attesa la sentenza della Corte di Giustizia europea che, con tutta probabilità, boccerà la proroga delle concessioni fatta dal Governo nel 2012 con l’assunzione dell’impegno a riordinare la materia: riordino che ovviamente non c’è mai stato;
– se non bastasse, con la legge di bilancio approvata lo scorso inverno, il Governo in carica (pro-tempore…) ha aperto la strada a una proroga di ulteriori 15 anni a beneficio degli attuali stabilimenti balneari, titolari di concessioni delle aree demaniali. Un provvedimento preso nonostante una sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue di luglio 2016 avesse criticato la negligenza italiana nell’applicazione delle regole europee e chiesto di aprire le concessioni alla concorrenza internazionale tramite gare pubbliche.
A nostro avviso, esiste un legame stretto fra i 2 corni del problema, l’applicazione della direttiva Bolkestein e l’incapacità dello Stato di mettere a reddito il suo patrimonio balneare; infatti, se si aprisse alla Bolkestein ci sarebbe un prevedibile, forte aumento delle offerte per il rilascio delle concessioni, sino ad un valore reputato conveniente dall’offerente; di conseguenza, lo Stato avrebbe un aumento (riteniamo considerevole, sino a 10 volte il livello attuale) delle entrate da concessioni balneari; ed anche il problema della tutela degli attuali concessionari potrebbe essere agevolmente superato dando loro l’opzione di “pareggiare” la migliore offerta, con un adeguato “sconto” (ad esempio, pari al 10% in meno della migliore offerta).
Se una soluzione non è stata ancora trovata, dopo oltre un decennio dalla entrata in vigore della direttiva Bolkestein, forse è perché non la si vuole trovare, schiavi e prigionieri di lobby ben riconoscibili e dei relativi voti che ne derivano, al fine di perpetuare il sistema-paese in voga; sistema-paese che, a ben guardarlo, è il viatico verso il disastro annunciato.
Ma è agosto, il mare chiama e la spiaggia si fa rovente: un bel tutto e passa tutto. O forse no.
mercoledì 14 agosto 2019
Piccoli: ma cresceranno? Equity e lending crowdfunding italiani.
Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24ore mercoledì 14.8.2019
Dal 2014, data di nascita
ufficiale, il crowdfunding ha raggiunto i 517 milioni di euro di
raccolta complessiva, di cui 82 milioni come equity.
Il 4° Report italiano sul CrowdInvesting (dell’Osservatorio Crowdinvesting della School of Management del
Politecnico di Milano) fotografa l’evoluzione della “raccolta alternativa”,
principalmente indirizzata alle start-up innovative (che hanno
rappresentato oltre il 70% della raccolta), raddoppiata nel giro di un anno: la
raccolta nell’ultimo anno (dal 30 giugno 2018 al 30 giugno 2019) è stata di 49
milioni per l’equity crowdfunding (170 campagne censite) e di
207 milioni per il lending. Le campagne di raccolta sono state finora 401,
organizzate da 369 imprese diverse, 170 negli ultimi 12 mesi (quasi una
ogni 2 giorni). Il tasso di successo continua a mantenersi elevato: 75% nei
primi 6 mesi del 2019 (media dal 2014: 71,7%). L’obiettivo medio di
raccolta per i progetti non immobiliari è salito a 191.956 euro, ed è pari a
664.231 quello degli immobiliari. “L’aumento delle detrazioni e deduzioni
fiscali per startup e PMI innovative potrebbe aver portato a un aumento
dell’investimento medio”, nel commento al Report.
Mediamente viene offerto in cambio il 10,4% del
capitale; si consolida la prassi di offrire titoli senza diritto di voto
sotto una certa soglia di investimento (e votanti sopra tale soglia). In media
ogni campagna riceve il sostegno di 85,6 investitori.
Per quanto riguarda l’equity crowdfunding,
sulla base dell’attuale tasso di crescita del mercato,
l’Osservatorio prevede una raccolta di 60 milioni di euro nel 2019
e di 80 milioni nel 2020, dopo quella di 36 milioni del 2018.
Al 30 giugno 2019 risultavano autorizzati in Italia 35
portali, ma un buon numero di questi non si era ancora attivato.
Solo il 10% delle imprese ha mantenuto le promesse
fatte in sede di business plan dopo una campagna di equity crowdfunding: “Questi
numeri sono in linea col fatto che le emittenti sono soprattutto startup
innovative, che per loro natura hanno un basso tasso di successo”.
Dei 233 emittenti che hanno chiuso una prima
campagna con successo, 5 sono andati in liquidazione e 7 hanno annunciato
eventi successivi di vario tipo (tra exit ed eventi particolari come
acquisizioni o rimborsi). Per contro, delle 101 società che non hanno avuto
successo nella loro prima campagna di equity crowdfunding, soltanto 1 ci ha
riprovato e ha avuto successo, mentre 13 sono state liquidate, restandone 87
ancora attive.
L’equity crowdfunding per ora ha compiuto la prima
fase del suo ciclo, con le prime exit, dismissioni e write-off.
Riguardo il lending crowdfunding, al 30
giugno 2019 risultano attive in Italia 6 piattaforme destinate a finanziare
persone fisiche (consumer) e 7 (più 3 in partenza) per le imprese (business),
di cui 3 specializzate nel real estate. In ambito business aumentano le
piattaforme che offrono il modello di investimento ‘diretto’, dando possibilità
di scelta immediata al finanziatore su come allocare i prestiti, mentre in
quello consumer prevale il modello ‘diffuso’, con il denaro suddiviso su tanti
crediti diversificati.
Il mercato del crowdinvesting è oggi trainato dai
progetti real estate, con 6 piattaforme attive che in totale hanno
raccolto 15,6 milioni di euro: 8,8 milioni di euro spalmati su 8
progetti con l’equity crowdfunding e altri 6,8
milioni per 30 progetti in ambito lending.
Possiamo vedere un bicchiere mezzo pieno e quindi gioire
della crescita di queste forme di finanziamento, o mezzo vuoto, rilevandone le
criticità, e tutto dipende dal nostro grado di tolleranza all’alcool; oggi i
numeri ci dicono che:
-
il
crowdfunding è al momento trainato dal real estate e non da iniziative
industriali (più o meno innovative), come era negli auspici iniziali;
-
La quota azionaria della componente equity è
limitata al 10% del capitale, una quota irrilevante alla
partecipazione attiva alle decisioni aziendali;
-
L’ammontare medio della raccolta di equity
nelle imprese non real estate è inferiore a 200.000 euro,
probabilmente insufficiente per sostenere effettivi programmi di sviluppo
aziendale, se non in una primissima (spesso calcolata in mesi …) fase iniziale
di start-up;
-
Solo il 10% delle imprese ha mantenuto le
promesse contenute nei business plan presentati in sede di raccolta;
un segnale da valutare per il futuro, se si vuole dare dignità allo strumento
ed agli operatori;
-
Per l’equity crowdfunding, 35 operatori (seppure
solo in parte effettivamente attivi) si sono divisi 49 milioni di raccolta
negli ultimi 12 mesi, con i primi 3 portali che complessivamente hanno raccolto
29 milioni, il 60% della raccolta totale; accanto ad operatori che hanno
raccolto 8 milioni di equity per le imprese sostenute, con ricavi da
commissioni (in larga misura rappresentate da una percentuale sulle somme
raccolte, con retainer fees contenute) che probabilmente ne hanno
assicurato il punto di pareggio, ad una prima valutazione gli altri sembrano
quindi ancora lontani dal raggiungere una situazione economica sostenibile; la
domanda che ci poniamo è forse banale: “esiste un problema di offerta con troppi
operatori per un mercato con una domanda ancora limitata? Quanti di essi
saranno ancora attivi fra 12 mesi? La domanda (nuove richieste di equity
crowdfunding) crescerà in modo così sostenuto da assicurare la remunerazione
per tutti gli operatori?”
La domanda di equity e lending crowdfunding per iniziative
industriali (start-up innovative e non innovative) esiste nel nostro paese (spesso
fatto di piccole iniziative che raramente superano le fasi iniziali) e va
“coltivata” con ancora maggiori assiduità e costanza; il sostegno da parte del
legislatore c’è; l’esperienza dei primi anni sembra positiva; i prossimi passi,
confidando in rapidi successi, saranno quindi cruciali per raggiungere una
dignità di mercato e di reputazione.
venerdì 2 agosto 2019
Aziende in crisi in amministrazione straordinaria, ovvero il Bengodi dei commissari.
Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24ore venerdì 2 agosto 2019.
Non ci sono solo le procedure concorsuali previste dalla
Legge Fallimentare (piani di risanamento e ristrutturazione, fallimento,
liquidazione) per le imprese in crisi: non facendosi mancare nulla, la
normativa italiana ha previsto nel 1999 con la legge Prodi-bis la procedura
di amministrazione straordinaria per le imprese con almeno 200
dipendenti, amministrazione straordinaria modificata ed allargata alle imprese
con almeno 500 dipendenti nel 2003 (in occasione del dissesto Parmalat) con la legge
Marzano.
Una rete di protezione ad ampio raggio, avente
l’encomiabile obiettivo di salvare imprese e posti di lavoro, ripagare i debiti
verso i fornitori, insomma rimettere insieme i cocci rotti.
Ad oggi, le procedure aperte con la Prodi-bis sono 101;
quelle ex Marzano 28. Alcune procedure durano pochi anni (come fu per Parmalat,
risanata in 2 anni), altre molti anni, con casi eclatanti: Bongioanni è
“aperta” ed in Prodi-bis dal marzo 2000, Cirio, Giacomelli e Tecnosistemi dal
2003, Minerva airlines, Arquati ed Olcese dal 2004, Parmatour dal 2005. In un
caso (Alitalia) sono ben 2 le imprese finite in Marzano: potenza dello
strumento o potere degli “stakeholders” e degli interessi in gioco?
I soggetti chiamati, di volta in volta, a “risanare” le
imprese in amministrazione straordinaria sono i commissari, nominati
discrezionalmente dal MISE sino al 21016, successivamente selezionati
attraverso un bando pubblico, il vaglio di una commissione ed infine scelti dal
MISE, e dal 2018 scelti per sorteggio. Per la maggior parte, essi sono avvocati,
professori universitari, commercialisti, e raramente managers: particolare
significativo, poiché trattandosi di imprese, questi ultimi dovrebbero essere i
primi ad essere chiamati per “risanare”; ma i quesiti irrisolti sono solo
all’inizio di questa storia.
Sicuramente devono essere bravi e simpatici, almeno agli
occhi del ministero e dei suoi funzionari: devono infatti essere rapidi nel
candidarsi, come è stato nel caso di Mercatone Uno dove il bando datato 12
giugno scadeva nel pomeriggio del 14 giugno, o di Stefanel con bando emesso il
24 giugno e scadenza (sabato e domenica nel mezzo) il 27 giugno. Insomma,
domanda, esame e selezione a tempo di record. E poi si dice che nei ministeri
non si lavora …
Ricordiamo il numero delle imprese in Prodi-bis: 101, ed in
Marzano: 28. Ebbene, i commissari che seguono i casi ex Prodi-bis sono 111, di
cui 41 con più incarichi; e 48 per le 28 imprese ex-Marzano, di cui 10 con più
incarichi. Fra i commissari con più incarichi, 1 ne ha 6, 2 ne hanno 5, 5 ne
hanno 4.
Trattandosi di impegni non banali, la domanda sorge
spontanea: ma quanto tempo i commissari, stimati e premiati professionisti,
possono dedicare alle società in crisi? Come è possibile dividere il
proprio tempo fra attività professionale e 5 o 6 incarichi commissariali?
Lavorano di notte, a Natale e Ferragosto?
Abbiamo visto che le procedure possono durare anni, molti;
nel frattempo, che cosa succede alle imprese, ai suoi dipendenti, ai suoi
fornitori? Accanto a casi in cui le imprese ritrovano la rotta giusta in
breve tempo, ripagando i debiti verso fornitori e mantenendo, almeno in parte,
i livelli occupazionali, si hanno molti casi in cui i debiti non si ripagano,
ma anzi crescono e si accumulano. Strano, poiché l’obiettivo fissato dalle
leggi Prodi-bis e Marzano è chiaro: risanare e restituire al mercato.
Meno strano, ove si osservi come vengono pagati i commissari,
con parcelle spesso milionarie: queste vengono calcolate sul valore del passivo
e dell’attivo aziendale. Grande passivo, grande parcella. In un caso recente
(la prima messa in Marzano di MercatoneUno), il compenso liquidabile ai 3
commissari ammonta a 7,2 milioni di euro.
Alcune domande finali ci sembrano quindi d’obbligo:
- ma le amministrazioni straordinarie sono utili al
mercato o solo ai professionisti beneficiari di laute parcelle?
- Ed inoltre, sarebbe auspicabile mettere un limite
temporale alle procedure e fissare un diverso criterio per remunerare
l’attività dei commissari, limitando inoltre il numero degli incarichi a quanto
effettivamente sostenibile, in termini di impegno e di tempo, dai
professionisti incaricati?
- Ha un senso limitare la scelta dei commissari ad un numero
ristretto (oggi, circa 150) di persone?
- In termini più ampi, ha significato estendere procedure
straordinarie ad imprese sulla base del numero dei dipendenti rispetto alla
eventuale “importanza sistemica” dell’impresa in crisi?
Occorrerebbe riaprire il dibattito e formulare un piano
complessivo, lontano da logiche “di potere” ed “amicali” come quelle sinora
adottate, sotto ogni tipologia e stagione di governo. Ma è agosto, fa caldo, i
politici sono al mare ad abbronzarsi su spiagge riservate, e chissà quanti
altri pensieri avranno per la mente, confidando di arrivare, oltre che alla
fine dell’estate, anche alla fine della legislatura.
martedì 16 luglio 2019
Europa sotto attacco (e senza difese).
Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24ore martedì 16 luglio 2019.
L’Europa è sotto un triplice attacco:
1. economico: l’amministrazione USA sta
riposizionando il suo sistema economico puntando sul “reshoring” (le
imprese USA devono tornare a produrre
negli USA) e sulla guerra alle produzioni cinesi, così da avere un sistema
economico bipolare (quella che abbiamo chiamato “globalizzazione bipolare”
in https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/11/17/se-non-reindustrializza-europa-rischia-grosso/ ): le imprese sparse per il mondo, quindi
anche europee, o lavorano per la filiera industriale USA o per quella cinese,
ma non per le due contemporaneamente; la Russia sta giocando la sua
(tradizionale, sin dai tempi dei primi zar) partita imperialista utilizzando,
questa volta, il suo gas: i gasdotti sono il suo cavallo di Troia per dividere
l’Europa e renderla vassalla; la Cina compra “hub”, in genere portuali,
come testa di ponte per l’invasione dei suoi commerci;
2. politico: per ragioni diverse ma sfortunatamente
coincidenti, USA e Russia vogliono la dissoluzione
della Unione Europea, consapevoli che se questa fosse unita in una forte
federazione sarebbe un concorrente temibile sullo scacchiere economico,
politico, militare; il caso (o la disgraziata necessità? ...) ha offerto loro il
ventre molle dell’Italia che con il governo Lega-pentastellato è perfetta
per essere la prima tessera del domino a cadere;
3. demografico e sociale: il flusso migratorio
dall’Africa è solo agli inizi e crescerà ancor più sull’onda e sulla scia
dell’incapacità dell’Unione Europea di affrontare il vero problema, la causa di
tutto ciò, che risiede nella instabilità politica, sociale, demografica,
climatica dell’Africa sub-sahariana. L’Europa da un lato è oggi palesemente
incapace di agire, dall’altro è impossibilitata (per il suo retaggio coloniale)
ad intervenire in Africa; si limita a cercare (senza riuscirci) di gestire gli
effetti, cioè i flussi migratori, con risultati negativi, il tutto contrassegnato
da un approccio emotivo e non razionale.
Dinanzi a questi 3 attacchi la Unione Europea è incapace di
formulare una risposta convincente e plausibile; i 3 attacchi sono collegati
intimamente e costituiscono un pericolo mai corso dal continente europeo nella
sua plurimillenaria storia.
Una diagnosi forse modesta, ma purtroppo realistica.
Senza idee e senza persone che sappiano farle proprie e
condurre ad un piano, il nostro continente è destinato alla distruzione di
tutto ciò che l’ha reso ricco ed attraente: storia, cultura, benessere,
progresso, persone, economie, servizi.
E’ evidente che il quarto problema è quindi “politico”; una
Unione Europea divisa su tutto, ed unita solo dalla vanagloria per il suo
passato, è il peggior giocatore in una sfida a tutto campo, che vede una Triade
in lotta per il predominio economico e politico; la Cina si è svegliata, la
Russia ha trovato il suo zar, gli USA non si sa bene che cosa abbiano trovato,
“ma funziona”.
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