Un estratto di questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole 24ore il 1.3.2019
In tempi di accese, ma come par di vedere poco lucide e
strumentali, polemiche su povertà, ruolo dello stato, redditi più o meno
“dovuti” a festanti platee variegate e mutevoli nella loro composizione sociale
umana e politica, ci sembra necessario ricordare che il nostro paese è uno “stato sociale” di ampie e tentacolari
forme e presenze, encomiabilmente proteso a rendere migliore il mondo (così
limitiamo le ambizioni …) garantendo ai
cittadini i servizi per soddisfare una pluralità di bisogni fondamentali:
sanità, istruzione, previdenza, servizi socio-assistenziali. Ricordiamo
ancora, en passant, come l’insieme di queste attività possa
essere svolto sia dal settore pubblico
che dal settore privato (c.d. settore “non
profit”), composto da enti che non perseguono fini di lucro e guadagno, e privilegiano
l’impatto positivo delle loro attività in ambito sociale, assistenziale,
sanitario, a sostegno, integrazione, condivisione delle attività svolte dal
settore pubblico.
In questo articolo cercheremo di metter a fuoco quali attività rientrano
nel campo di intervento della legge-quadro sull’assistenza, chi fa che cosa,
quale è la dimensione economica del fenomeno.
Allacciamoci allora le
cinture di sicurezza, e prepariamoci a muoverci in un meandro di norme e
codicilli, che cercheremo di “disinnescare” per rendere comprensibile la
ponderosa materia.
Le competenze in ambito sanitario ed assistenziale sono state
modificate (e qui ci dobbiamo veramente astenere dal commentare) dal nuovo articolo 117 della Costituzione
https://www.senato.it/1025?sezione=136&articolo_numero_articolo=117,
dalla c.d. “riforma Bindi” (d.lgs. 229/1999) e dalla legge 328/2000
(“legge quadro per la realizzazione del sistema integrato”), il
tutto risultando in un forte
decentramento con il trasferimento delle più importanti attività in ambito
sanitario alle regioni. In particolare, e su questo ci soffermeremo in questo
articolo, la legge-quadro 328/2000 prevede:
a)
misure di sostegno alla povertà
b)
misure economiche per favorire la vita
autonoma e la permanenza a domicilio
c)
interventi di sostegno ai minori ed ai
nuclei familiari anche attraverso l’affido e l’accoglienza in strutture
comunitarie
individuando gli interventi per garantire i Livelli Essenziali delle
Prestazioni Socio-Assistenziali (LIVEAS) da assicurare su tutto il
territorio nazionale ai soggetti che si trovano in particolari condizioni di
fragilità e disagio: misure per sostenere le responsabilità familiari (educative, economiche); misure di
sostegno delle donne in difficoltà; interventi
per l’integrazione sociale delle persone
con disabilità (inclusi centri socio-riabilitativi, comunità alloggio ed
accoglienza); interventi per le persone
anziane e con disabilità per favorire la loro permanenza a domicilio, la socializzazione
e l’accoglienza presso strutture residenziali e semi-residenziali; prestazioni
socio-educative per soggetti dipendenti
da patologie od altre cause debilitanti; consulenza
alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e l’auto-aiuto.
Le regioni
provvedono a: programmare, coordinare,
indirizzare gli interventi sociali nel loro territorio; verificare la loro
effettiva attuazione; disciplinare l’integrazione degli interventi, in particolare
per le attività sanitarie e socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitari; elaborare
il Piano Regionale, che esprime le indicazioni dei piani di zona, la
programmazione ed il finanziamento della formazione del personale, le forme di
integrazione con i servizi sanitari, la definizione dei livelli di qualità del
servizio richiesti, le forme di sperimentazione di eventuali modelli di
intervento innovativi, la determinazione del concorso da parte degli utenti al
costo delle prestazioni.
Le province (quando
ancora attive, anche attraverso le Città Metropolitane) concorrono alla
programmazione regionale ed integrano le iniziative regionali e dei comuni.
I comuni italiani
(che sono 7.918) sono titolari delle
funzioni amministrative che riguardano
gli interventi sociali svolti a livello locale e concorrono alla
programmazione regionale. I comuni sono
quindi i principali attori nella gestione dei servizi e degli interventi in
ambito socio-assistenziale.
In particolare, i comuni programmano,
progettano, realizzano il sistema locale dei servizi sociali, indicandone
le priorità ed i settori di intervento (“Piano
di zona” comunale); autorizzano ed
accreditano i servizi sociali e le strutture a ciclo residenziale e
semi-residenziale a gestione pubblica, vigilando la loro attività; definiscono i parametri di valutazione
delle condizioni di povertà ai fini della determinazione delle regole di
accesso alle prestazioni ed ai servizi.
Sempre i comuni
sono chiamati ad offrire una pluralità di strutture a favore dei cittadini in
condizioni di fragilità sociale (anziani non autosufficienti, disabili); queste
strutture possono essere di 2 tipi:
a) strutture
socio-sanitarie che garantiscono in forma integrate interventi
assistenziali, quali residenze
assistenziali (RSA) e case di riposo
per gli anziani, in forma permanente; centri
diurni integrati per l’accoglienza diurna degli anziani; comunità e centri diurni per i disabili;
b)
strutture
socio-assistenziali, per gli anziani
(case albergo, casa di riposo; residenza sanitaria assistenziale; mimi
alloggi protetti, per anziani parzialmente autosufficienti o a rischio di
marginalità sociale; centri sociali per gli anziani); per i disabili (centri
socio-educativi; strutture non residenziali che accolgono i disabili durante le
ore del giorno; comunità alloggio handicap, sia su base temporanea che
permanente; strutture per il sollievo, che accolgono il disabile per un certo
periodo di tempo); per i minori (micronido,
per bambini fra i 3 mesi ed i 3 anni; centro prima infanzia, per bambini sino a
3 anni, per un massimo di 4 ore giornaliere (senza servizio di somministrazione
dei pasti); nido, per bambini fra i 3 mesi ed i 3 anni, di tipo diurno, sia
pubblici che privati; nido famiglia, svolto da famiglie anche in forma
associata; comunità educative e di pronto intervento, strutture residenziali di
accoglienza, sia pubbliche che private, destinate a minori temporaneamente privi
di supporto familiare, in situazioni di disagio; comunità familiari, che si
occupano di minori in situazioni di disagio, in via temporanea); per i giovani (alloggi per l’autonomia;
centri di aggregazione giovanile); per gli adulti (centro di pronto intervento
adulti, destinati temporaneamente a fornire vitto ed alloggio a persone in
difficoltà ed a rischio di emarginazione; comunità di
risocializzazione/reinserimento, gestite in via continuativa da personale
qualificato, rivolte ad adulti con difficoltà di inserimento); servizi per gli immigrati; servizi per
gli emarginati (persone senza fissa
dimora, persone affette da dipendenze, persone soggette alla prostituzione
anche minorile, persone prive di mezzi per sostenersi afflitte da povertà;
quali Servizi di accoglienza abitativa, Centri per il decorso di malattie
temporanee, Mense cittadine, centri di distribuzione del vestiario, centri di
pratica di igiene personale, Comunità terapeutiche per tossico-dipendenti,
Comunità per il ricovero e l’assistenza di donne vittime di sfruttamento,
Azioni volte al recupero di ex-carcerati)
Abbiamo quindi:
(1) una “dimensione
verticale”
rappresentata dagli organi dello stato chiamati a dare applicazione ai principi
della legge: allo stato centrale
(governo) è richiesto di preparare un Piano
Nazionale deli Interventi e dei Servizi Sociali; alle regioni è chiesta la
programmazione, il coordinamento, l’indirizzo degli interventi sociali, che
si sostanzia nel Piano Sociale Regionale;
ai comuni è richiesta la gestione dei servizi sociali e
socio-assistenziali a livello territoriale (locale), secondo quanto
indicato nel Piano di Zona e quindi
i comuni sono i principali attori nella gestione dei servizi e degli interventi
in ambito socio-assistenziale; alle ASL è richiesta la erogazione delle prestazioni sanitarie, eventualmente richieste
per dare esecuzione al servizio integrato; e
(2) una “dimensione
orizzontale”,
che significa che accanto all’azione di strutture pubbliche (ASL, strutture
socio-assistenziali comunali) è prevista l’azione di strutture private che fanno riferimento a associazionismo, volontariato, cooperazione sociale, altre espressioni
della società civile (terzo settore: non profit, onlus, …)
Tutto bello, edificante, necessario. Ma quanto costa allo stato ogni anno tutto questo? Il costo affrontato è
sufficiente per risolvere, od almeno tentare di risolvere, le situazioni di
disagio, che sono crescenti nel tempo anche per una diversa più complessa
evoluzione della composizione sociale e demografica della popolazione?
Abbiamo i dati del 2016 come rilevato
dall'Istat (“La spesa dei comuni per i servizi sociali: anno 2016”); la spesa
dei Comuni per i servizi sociali, al netto del contributo degli utenti e del
Servizio Sanitario Nazionale, ammonta a circa 7 miliardi e 56 milioni di euro (con un incremento del 2% rispetto
all'anno precedente, quando la spesa era stata lo 0,42% del Pil nazionale). Per
ciascun residente i Comuni hanno speso in media 116 euro nel 2016, contro i 114 del 2015.
A livello territoriale le
disparità sono rimaste elevatissime: si passa dai 22 euro della Calabria ai 517
della Provincia Autonoma di Bolzano; ed al Sud, dove risiede il 23% della
popolazione, si spende solo il 10% delle risorse destinate ai servizi
socio-assistenziali. Questo semplice confronto mette in chiaro la profonda
differenza di risorse, approccio, effettivo intervento fatto in aree diverse
del paese; un monito a intervenire in profondità sulle modalità di fornitura
dei servizi.
La principale fonte finanziaria dei servizi
sociali proviene da risorse proprie dei
comuni e dalle varie forme associative fra comuni limitrofi (61,8%). Al secondo posto vi sono i fondi regionali
per le politiche sociali, che coprono un ulteriore 17,8% della spesa
complessiva. Il 16,4% della spesa è finanziata da fondi statali o dell'Unione
europea. Tra questi il fondo indistinto per le politiche sociali, che ha
registrato una progressiva flessione dell'incidenza sulla copertura della spesa
(dal 13% del 2006 al 9% nel 2016). Nel periodo osservato diminuiscono
gradualmente le risorse dedicate ai servizi
per gli anziani, sia in valore assoluto che come quota sul totale della
spesa sociale dei Comuni (dal 25% nel 2003 al 17% nel 2016). Nello stesso lasso
di tempo l'incremento delle persone anziane residenti accentua la diminuzione
della spesa pro-capite: da 119 euro nel 2003 si passa a 92 euro annui nel 2016.
Sono invece quasi raddoppiate le risorse
destinate ai disabili: da 1.478 euro annui pro-capite nel 2003 si passa a
2.854 nel 2016. Le spese per i minori e le famiglie con figli passano da 86 a
172 euro l'anno pro-capite e sono rivolte per il 40% agli asili nido e ai
servizi per la prima infanzia.
Uno “stato sociale” con luci ed
ombre; uno “stato sociale” che sempre più si sostiene, e si sosterrà, sullo
sforzo del volontariato (il Terzo Settore); e le risorse sembrano sempre più
limitate e disperse, con aree del paese dove i residenti sono ben assistiti, ed
altre nella morsa di risorse locali “diversamente indirizzate”, per restare nel
limite della decenza e del politicamente corretto.
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