venerdì 22 febbraio 2019

La nascita della Repubblica Italiana ed il suo rapido sviluppo, il c.d. miracolo italiano.


La nascita della Repubblica


Prima pagina del quotidiano il Corriere della Sera, edizione dell'11 giugno 1946, che dichiarava la vittoria del voto repubblicano a seguito dei risultati del referendum istituzionale del 2 e 3 giugno.





Elezioni politiche italiane del 1946: la distribuzione dei seggi




La Repubblica Italiana nacque il 2 giugno 1946, in seguito ai risultati del referendum istituzionale indetto quel giorno per determinare la forma di stato dopo la fine della seconda guerra mondiale. I risultati furono proclamati dalla Corte di Cassazione il 10 giugno successivo: la repubblica ottenne il 54% dei consensi e i ricorsi concernenti presunti brogli circa la legalità dello svolgimento della consultazione furono respinti il giorno 18 giugno.
La notte fra il 12 ed 13 giugno 1946, nel corso della riunione del Consiglio dei ministri, il presidente Alcide De Gasperi, preso atto del risultato referendario, assunse le funzioni di Capo provvisorio del nuovo Stato repubblicano. Messo di fronte al fatto compiuto, l'ex re Umberto II, rimasto in carica soltanto un mese e per questo soprannominato il "re di maggio", lasciò polemicamente e volontariamente il paese il 13 giugno 1946.
Oltre che per il referendum, si votava per l'elezione di un'Assemblea Costituente che avesse il compito di dare all'Italia una nuova Costituzione: primo partito risultò la Democrazia Cristiana, seguita dal Partito Socialista Italiano e dal Partito Comunista Italiano. Il Partito d'Azione, invece, a seguito del risultato deludente, si sarebbe sciolto nel 1947. Fu la prima consultazione politica alla quale partecipavano anche le donne italiane.
Alla sua prima seduta, il 28 giugno 1946, l'Assemblea Costituente, sotto la presidenza di Giuseppe Saragat, elesse quindi Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio. De Nicola poi sarà il primo ad assumere le piene funzioni di Presidente della Repubblica Italiana il 1º gennaio 1948.
In quegli anni l'Italia operò le scelte decisive che avrebbero determinato il proprio destino: guidata da De Gasperi, che presiedeva un governo di unità nazionale composto dai tre partiti antifascisti del Comitato di Liberazione Nazionale, l'Italia accettò di entrare a far parte della sfera di influenza atlantica, filoamericana e anticomunista, contrapposta al blocco sovietico. Questa collocazione accese una competizione politica tra i due maggiori partiti, la DC e il PCI. Quest'ultimo rimarrà da allora confinato all'opposizione per via dei legami ideologici e finanziari col regime totalitario dell'Unione Sovietica,[1] legami che avrebbero provocato, nel caso di una sua entrata al governo, una rottura dell'alleanza internazionale con gli Stati Uniti e degli accordi di Yalta. Un tale assetto politico priverà inoltre l'Italia di una logica dell'alternanza fino alla caduta del muro di Berlino,[2] generando un'anomalia rispetto alle altre democrazie occidentali dove i partiti comunisti godevano di una forza e un consenso assai minori che in Italia.[3][4] Questa situazione degenererà in pratiche consociative più o meno occulte,[1] che porteranno di fatto a un progressivo coinvolgimento dell'opposizione nelle decisioni della maggioranza.[5]
Fu in particolare durante la missione di De Gasperi del gennaio 1947 negli Stati Uniti, con i quali si accordò per ricevere gli aiuti economici previsti dal Piano Marshall (un prestito Eximbank di 100 milioni di dollari), che si aprì un dialogo costruttivo tra USA e Italia, in grado di dare a De Gasperi la motivazione e il sostegno necessari ad attuare l'ambizioso disegno di un nuovo governo senza le sinistre. Il Piano Marshall, con cui si chiedeva ai paesi beneficiari di estromettere in cambio le forze filosovietiche, fu il primo atto della guerra fredda. Il PSI e soprattutto il PCI interpretarono la propria esclusione dall'esecutivo, avvenuta nel maggio 1947, alla stregua di un "colpo di stato"; essi tuttavia decisero di non abbandonare i lavori dell'assemblea costituente a cui stavano partecipando insieme alla DC. Questa decisione consentirà in particolare al PCI di acquisire una legittimità costituzionale che non poteva avere sul piano ideologico, e che lo porterà, negli anni a venire, a richiamarsi spesso alla Costituzione come motivo di auto-legittimazione democratica, e a difenderla da qualunque tentativo di modificarla senza un suo previo consenso.[3]
 Un'altra anomalia tipicamente italiana fu l'atteggiamento del Partito Socialista (allora denominato PSIUP), che a differenza di quanto avveniva negli altri paesi occidentali decise di schiacciarsi sempre più sulle posizioni dei comunisti, per timore di vedersi sottrarre da costoro l'egemonia sulle masse operaie, accettando così anche la dipendenza da Mosca.[3] Alcuni esponenti del partito, guidati da Saragat, disapprovando la scelta di legarsi a un regime totalitario come l'Unione Sovietica, operarono nel gennaio 1947 una scissione, dando vita al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, che in seguito diverrà Partito Socialdemocratico Italiano.
Nel frattempo vennero firmati nel 1947 i Trattati di Parigi con i quali formalmente e definitivamente fu siglata la pace con le potenze alleate e vennero sancite le conseguenze della sconfitta nella Seconda guerra mondiale, con mutilazioni nazionali territoriali: l'Istria e la Dalmazia cedute alla nascente Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia, il Dodecaneso alla Grecia, Briga e Tenda alla Francia, l'Isola di Saseno all'Albania, il pagamento dei danni di guerra all'URSS e la perdita di tutti i possedimenti coloniali italiani.
Nonostante si cercasse di tornare alla normalità, nel paese si stavano diffondendo alcuni movimenti separatisti, in particolare in Sicilia e in Alto Adige. Per farvi fronte Alcide De Gasperi creò, il 15 maggio 1946, la Regione a statuto speciale della Sicilia. Per il Sud Tirolo trovò nel settembre 1946 una soluzione con il collega ministro degli esteri austriaco Karl Gruber: fu costituita la Regione a statuto speciale del Trentino-Alto Adige, dotata di ampie autonomie e dove accanto all'italiano, a livello regionale, fu ufficializzato pure il tedesco. In seguito, nel 1948, si avrà la creazione della Regione a statuto speciale anche della Valle d'Aosta.
Tornò tuttavia alla ribalta in quel periodo la mafia, sconfitta durante il fascismo ma riemersa nel 1943 in occasione dello sbarco Alleato in Sicilia.[6] Il 1º maggio 1947 rimase tristemente celebre l'eccidio di Portella della Ginestra, quando il bandito Salvatore Giuliano, presumibilmente assoldato da alcuni latifondisti, sparò sulla folla che festeggiava la Festa dei lavoratori chiedendo la distribuzione delle terre: fu la prima strage in Italia di cui non si scopriranno i mandanti. Giuliano venne poi ucciso dal suo braccio destro Gaspare Pisciotta, che a sua volta fu ritrovato morto in carcere in circostanze misteriose.
Negli ultimi giorni del 1947 venne infine ultimata la stesura della Carta Costituzionale, entrata ufficialmente in vigore il 1º gennaio 1948. Fu questo un periodo particolarmente felice per la letteratura italiana ed ancor di più per il cinema, con l'affermazione del neorealismo.
Gli anni del centrismo e della ricostruzione
Dopo che il 31 maggio 1947 era caduto il terzo governo De Gasperi per la fuoriuscita di socialisti e comunisti, si formò il IV governo De Gasperi appoggiato soltanto dalla Democrazia Cristiana, dal Partito Liberale Italiano, dal Partito Repubblicano Italiano, e dal neonato partito socialdemocratico di Saragat. L'esecutivo si avvalse anche di un gruppo di tecnici guidati dal liberale Luigi Einaudi, il quale attraverso una politica deflazionistica, attenta alla spesa pubblica e ai salari, riuscì a far diminuire fortemente l'inflazione. Fu l'inizio di una lunga fase di governo detta del "centrismo", perché dominata da partiti collocati esclusivamente nell'area di centro dello schieramento politico. L'Italia diventò un grande cantiere, anche grazie agli aiuti del Piano Marshall che contribuì a risanare il bilancio dello Stato. In contemporanea si verificarono evoluzioni nella politica e nel costume.
Il Partito Socialista invece, dopo la scissione di Saragat, si accostò sempre più al Partito Comunista fino a formare con esso una federazione che avrebbe dovuto condurre l'Italia verso la rivoluzione socialista; la somma di PSI e PCI sembrava infatti maggiore dei voti della DC. L'effigie di Garibaldi fu il simbolo con cui il nuovo partito, denominato Fronte Democratico Popolare, si presentò alle prime elezioni parlamentari dell'Italia repubblicana nel 1948.
Il timore di una vittoria della sinistra crebbe tra i dirigenti della Democrazia Cristiana, anche in considerazione dell'avanzata del partito dell'Uomo Qualunque che avrebbe potuto sottrarle una parte consistente di elettorato. Si trattava di un movimento sorto attorno all'omonimo giornale fondato a Roma nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini, che ripudiava le ideologie e che per il proprio atteggiamento di generica sfiducia nella classe politica diede vita a quella tendenza definita appunto qualunquismo. Continuarono inoltre in quegli anni gli episodi di rappresaglia contro ex-fascisti ma anche contro gente comune, da parte di apparati del PCI, come l'eccidio di Porzûs in Friuli ai danni di formazioni resistenziali "bianche",[7] o le stragi del triangolo della morte in Emilia. Si trattò di vendette che si protrassero oltre la fine della guerra e che colpirono anche inermi cittadini, sacerdoti, e chiunque non fosse esplicitamente affiliato all'ideologia comunista, accusato di fascismo perché ritenuto "nemico di classe".[8] Il 28 novembre 1947 l'esponente del PCI Giancarlo Pajetta con l'aiuto di bande armate arrivò ad occupare la prefettura di Milano a seguito della rimozione di Ettore Troilo, ultimo tra i prefetti politici della Resistenza ancora in carica; seguirono due giorni di insurrezione in cui sembrò approssimarsi un colpo di stato, finché il leader nazionale del PCI Togliatti, su pressioni di Stalin, ordinò ai ribelli di ritirarsi.[9]
La campagna elettorale del 1948, tra le più aspre e combattute dell'Italia repubblicana, si risolse infine con la vittoria della Democrazia Cristiana (che ottenne il 48,51% alla Camera dei Deputati e il 48,14% al Senato della Repubblica) e la bruciante, inaspettata, sconfitta del Fronte Popolare: questo non era andato al di là della somma dei voti del PSI e del PCI ottenuti nel 1946. Tra le cause della sconfitta, oltre ai vari episodi di intimidazione che lasciavano trapelare l'esistenza di un volto armato e minaccioso accanto a quello più rassicurante di Togliatti, vi era la proposta di un modello di vita, di tipo sovietico, piuttosto ignoto allora agli italiani, contrapposto a quello ben più accattivante e filo-americano offerto dalla DC. Il partito dell'Uomo Qualunque invece per il suo scarso successo non fu tale da scalfire i voti per la DC, e si sciolse entro pochi mesi. Alcide De Gasperi poté formare così il suo quinto governo, appoggiato, oltre che dal suo partito, anche dai socialdemocratici di Saragat, dal Partito Repubblicano Italiano e dal Partito Liberale Italiano, il cui principale esponente, Luigi Einaudi, divenne il secondo presidente della Repubblica.
La sconfitta in casa comunista tuttavia fu mal digerita; il malcontento che covava esplose all'improvviso in occasione di un attentato a Togliatti il 14 luglio 1948. Alla notizia della sua presunta morte ci furono sollevazioni in tutte le città italiane che reclamavano la destituzione del governo De Gasperi democraticamente eletto. La situazione cominciò a precipitare, si contarono diversi morti e quasi un migliaio di feriti,[10][11] ma Togliatti non morì, venendo salvato dai medici; fu provvidenziale un suo stesso annuncio alla radio in cui invitava i "compagni" a deporre le armi.[12] Nello stesso giorno giunse la notizia di una grande impresa compiuta dal ciclista Gino Bartali, le cui gesta dividevano gli italiani tra suoi fan e sostenitori di Fausto Coppi.
Nel 1949, su richiesta degli Stati Uniti, l'Italia aderì alla NATO, un'alleanza fra tutti i paesi dell'Europa Occidentale contrapposta al regime sovietico, il quale stava mostrando pericolose mire espansioniste della propria influenza come nella guerra civile greca. Il Patto prevedeva, nel caso di un attacco nemico nei confronti di uno Stato alleato, che tutti i paesi intervenissero militarmente in sua difesa. La decisione di aderire alla NATO scatenò nuovamente le proteste e le agitazioni delle sinistre nelle piazze italiane; Nenni, leader del PSI, insieme a Togliatti accusarono De Gasperi di mettere in pericolo la democrazia e l'indipendenza politica dell'Italia. La contrapposizione rifletteva quella a livello mondiale tra USA e URSS che si tradusse di lì a poco con lo scoppio della guerra di Corea, scatenata dall'invasione comunista del Sud del paese, e che fu una delle fasi più "calde" della guerra fredda, durante la quale il mondo temette lo scoppio di un nuovo conflitto mondiale.
Accanto alle agitazioni politiche l'Italia si stava comunque ricostruendo. La forte prevalenza democristiana nei governi che si succedettero, tutti a guida De Gasperi, permise di varare importanti riforme come quella del piano Casa, detta anche piano Fanfani, con cui lo Stato agevolò la costruzione di 75 000 abitazioni per i lavoratori, stanziando circa 15 miliardi di lire all'anno in cambio di una trattenuta sul loro stipendio.[13] Venne poi varata nel 1950, con una misura del ministro dell'Agricoltura Antonio Segni, la riforma agraria, ritenuta tra le più importanti del secondo dopoguerra,[14] che attuava, tramite l'esproprio coatto ai grandi latifondisti, la distribuzione delle terre incolte ai braccianti agricoli rendendoli così piccoli imprenditori; se da un lato la riforma andava incontro alle rivendicazioni dei contadini del Sud, sfociate in episodi come la strage di Melissa, per altri versi ridusse in maniera notevole la dimensione delle aziende agricole, togliendo di fatto la possibilità di trasformarle in veicoli imprenditoriali avanzati.[14] Sul versante estero, nel 1951 l'Italia aderì al Trattato di Parigi che istituiva la CECA (Comunità europea del carbone e dell'acciaio), il primo embrione di un'organizzazione europea. Nel 1955 venne ammessa invece alle Nazioni Unite. Il 1958 vedrà infine la nascita della Comunità Economica Europea, il primo passo verso la realizzazione dell'Unione europea.
Tra gli altri atti di rilievo della stagione centrista ci fu l'attuazione di un riassetto fiscale operato dal ministro delle Finanze Ezio Vanoni, e l'istituzione della Cassa del Mezzogiorno per finanziare iniziative industriali tese allo sviluppo economico del meridione d'Italia e colmarne il divario con le regioni settentrionali. Furono così poste le premesse per quello che alla fine degli anni cinquanta diventerà un vero e proprio boom economico. La produzione industriale accelerò e comparvero i primi segnali del consumismo; iniziò la produzione su larga scala dei primi motorini come Vespa e Lambretta. Nel 1954 cominceranno le prime trasmissioni televisive della RAI, che portarono a un incremento vertiginoso della vendita di televisori. I primi programmi televisivi più seguiti furono il festival di Sanremo e il gioco a quiz Lascia o raddoppia?, che «nasceva in un Paese che nasceva: c'era lo stesso carico di sogni, di speranze, di buone intenzioni».[15] In campo cinematografico, ai film del neorealismo si succedono quelli surreali di Federico Fellini, mentre grande successo riscossero i primi colossal girati a Cinecittà a cui contribuì l'emergente regista Sergio Leone. In campo artistico si affermarono talenti come Alberto Burri.
Se da un lato stava nascendo una nuova borghesia benestante, nel paese permanevano ancora delle sacche di povertà, dovute al fatto che i salari dei lavoratori crescevano più lentamente rispetto ai ritmi della produzione industriale. Le proteste sociali e sindacali, come quelle alle Fonderie Riunite di Modena nel 1950, vennero fermamente represse dal ministro dell'Interno Mario Scelba, dipinto dai comunisti con tinte fosche. Nel novembre 1951 ci fu poi una terribile alluvione nel Polesine che causò 84 morti e rivelò la penuria di mezzi adeguati di contrasto delle catastrofi naturali. La crescita economica peraltro non fu senza sacrifici: il disastro di Marcinelle in una miniera del Belgio nel 1956 mise in luce che l'Italia aveva ceduto ai belgi 50 000 minatori in cambio del carbone di cui aveva bisogno.
La DC intanto stava guardando con crescente preoccupazione all'avanzata sulla propria destra del Movimento Sociale Italiano, nato dalle ceneri della Repubblica Sociale Italiana, e del Partito Nazionale Monarchico dell'armatore Achille Lauro. Alle amministrative del 1951, dove si votava anche per eleggere il sindaco di Roma, l'invito agli elettori fu di non disperdere i voti. Alcuni componenti del clero cattolico, tuttavia, compreso papa Pio XII, intimoriti dal clima da guerra fredda e dalla minaccia sovietica, auspicarono un'alleanza con le destre ritenendo fosse opportuno unire adesso le forze in funzione anticomunista, così come durante la lotta per la Liberazione vi era stata un'unione di tutte le forze antifasciste: fu pertanto incaricato lo storico leader don Luigi Sturzo di trovare una mediazione tra DC, MSI e monarchici. Ampi settori della DC, tuttavia, tra cui lo stesso De Gasperi, opposero resistenza al progetto, rivendicando un'autonomia politica dalle volontà curiali, e sancendo il fallimento dell'operazione Sturzo nella maggior parte dei casi, in particolare a Roma dove venne comunque eletto un sindaco democristiano (mentre in altre realtà locali l'alleanza con le destre giunse in porto).
L'atteggiamento della DC nei confronti delle destre fu molto duro e aperto anche negli anni successivi. Per contrastare la loro avanzata fu varata nel 1953 la legge Scelba che vietava la ricostituzione del disciolto Partito Fascista. Anche se rivolta esplicitamente al Movimento Sociale, la legge di fatto rimase inapplicata, né i comunisti si batterono per una sua effettiva messa in pratica vedendo tacitamente nel MSI un partito capace di erodere consensi al suo principale avversario, la DC.[16] Un altro provvedimento fu una nuova legge elettorale, ribattezzata dagli oppositori "legge truffa", che prevedeva un premio di maggioranza al partito (la DC nelle intenzioni) che avesse superato la soglia del 50% dei voti. Questa legge non avrebbe danneggiato tanto le sinistre che mantenevano ampi consensi elettorali nel paese, ma proprio le destre che avrebbero visto esclusi o ridotti i propri rappresentanti al Parlamento. Nella campagna elettorale del 1953, che vide un ampio ricorso alla satira, i democristiani vennero dipinti dai comunisti come un pericolo per la democrazia e come gente corrotta; i comunisti invece come trinariciuti e mangiatori di bambini. La contrapposizione tra DC e PCI si rifletterà nei film su Don Camillo e Peppone. Alle elezioni, per un soffio la DC non ottenne la maggioranza assoluta dei voti, e il meccanismo della "legge truffa" non scattò; ci furono peraltro accuse di brogli e irregolarità rivolte agli scrutatori di fede comunista. Si trattò comunque di una sconfitta per la DC che determinò la fine dell'esperienza politica di De Gasperi.
Gli scompigli in casa democristiana portarono a un succedersi di diversi governi (Pella, Fanfani, Scelba), mentre emergeva l'esigenza di un superamento del centrismo, ora che la DC faticava a governare da sola con i suoi minori alleati di centro. Tra i successori più in voga di De Gasperi vi era il democristiano Attilio Piccioni, la cui carriera fu però stroncata da uno scandalo, rivelatosi poi una montatura, in cui rimase coinvolto il figlio Piero, riguardante il caso Montesi.[17]
A nuovi scenari che consentissero ad esempio un'apertura ai socialisti guarderà sempre più con favore il nuovo presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, esponente della sinistra democristiana, e amico dell'imprenditore Enrico Mattei, presidente dell'Agip, una delle personalità più rilevanti e potenti del panorama post-bellico italiano, di cui appoggiava le iniziative spregiudicate. Fra i primi a intuire l'importanza del petrolio per lo sviluppo dell'Italia, Mattei osteggiò il predominio delle cosiddette sette sorelle in campo petrolifero, e portò avanti una visione neoatlantista che coinvolgesse il Mediterraneo nelle politiche di cooperazione tra Europa e Stati Uniti. Avviò la costruzione di una rete di gasdotti per lo sfruttamento del metano, aprì all'energia nucleare, e negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e con l'Unione Sovietica.

Notevoli sconvolgimenti si stavano producendo anche in casa comunista, dove si era accesa una rivalità fra Pietro Secchia e Togliatti, dopo che quest'ultimo aveva rifiutato l'invito di Stalin a trasferirsi in URSS per occuparsi della propaganda sovietica. Nel 1953 avvenne poi la morte di Stalin: circondato allora da un'aura di mito, la sua figura venne pesantemente ridimensionata pochi anni dopo quando ne fu svelato il volto spietato dal suo successore Krusciov, che ne denunciò i crimini e le nefandezze, come le purghe e le deportazioni nei gulag.[18] La notizia della denuncia fu un trauma per il mondo comunista, non solo del PCI ma anche del PCUS, che cercarono di negare i crimini, ma ebbe conseguenze in Ungheria che nel 1956 si ribellò al regime sovietico uscendo dal Patto di Varsavia. La rivolta ungherese venne però repressa nel sangue dalle armate sovietiche, una repressione che suscitò ondate di sdegno e di avversione al comunismo nei paesi occidentali. Nel PCI emerse per la prima volta il dissenso, da parte di intellettuali come Delio Cantimori, Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, firmatari del Manifesto dei 101: costoro furono espulsi dal partito, che decise invece di difendere la repressione sovietica e di continuare a schierarsi con l'URSS.
Nel 1954 intanto fu firmato il Memorandum di Londra con il quale il Territorio libero di Trieste veniva suddiviso in due zone, una assegnata all'Italia con il ritorno di Trieste alla madrepatria, ed una alla Jugoslavia (la parte settentrionale dell'Istria).

Verso la fine del centrismo

L’uscita di scena di De Gasperi, il vuoto lasciato nella dirigenza della DC fu progressivamente riempito da due nuove personalità, Amintore Fanfani e Aldo Moro. Già nel 1956 Fanfani, uomo dal piglio risoluto, ritenne maturi i tempi per un'alleanza col PSI, ora che questo partito sotto la spinta degli autonomisti si era deciso a rompere i legami col PCI, contestandone la sottomissione al regime comunista sovietico, soprattutto in occasione della repressione della rivoluzione ungherese del 1956. Pur avviandosi così verso una nuova fase, nel PSI restavano tuttavia forti le resistenze nei confronti di una possibile alleanza con la DC.
Le elezioni del 1958 segnarono un importante successo dei partiti componenti il centro-sinistra vagheggiato da Fanfani. Quest'ultimo, divenuto intanto segretario della DC, si decise perciò a compiere un ulteriore passo, formando un governo che comprendeva anche il PSDI di Saragat, come premessa per una futura alleanza coi socialisti di Nenni. Tra gli atti di rilievo del nuovo governo, orientato su tematiche care alla sinistra, come una politica estera filo-araba o l'appoggio all'ENI fondato da Enrico Mattei, ci fu l'abolizione delle case chiuse con la legge Merlin, seppure tra le contestazioni di alcuni parlamentari o del giornalista Indro Montanelli. Venne anche varato il nuovo codice della strada per far fronte al grave incremento degli incidenti automobilistici, dovuto alla motorizzazione di massa nell'epoca in cui stava esplodendo il cosiddetto boom economico.

Il miracolo economico
Durante il cosiddetto "miracolo economico" il Prodotto interno lordo, che fino al 1958 era cresciuto in media del 5.5%, crebbe nei sei anni successivi del 6.3%. Tale crescita rappresentò un record nella storia del paese. Il reddito pro-capite passò da 350.000 a 571.000 lire. Tra il 1958 e il 1959 gli investimenti lordi crebbero del 10%, mentre tra il 1961 e il 1962 l'incremento fu del 13%. Questi numeri ridussero sensibilmente il divario storico con i grandi Paesi europei: Inghilterra, Germania e Francia.
La crescita del reddito pro capite produsse l'aumento dei consumi individuali che registrarono una crescita media di cinque punti percentuali l'anno. La domanda di beni durevoli (automobili, elettrodomestici, ecc.) raggiunse una crescita annua pari al 10.4%.
La produzione industriale registrò una crescita pari all'84% tra il 1953 e il 1961, grazie sia alle nuove tecnologie di produzione che arrivavano in gran parte dagli Stati Uniti, sia ad una manodopera con bassi salari.
Con l'aumento dell'industrializzazione diminuì il peso delle attività agricole nel bilancio globale dell'economia del paese. Tra il 1954 e il 1964 in tutta Italia vi fu una diminuzione di 3 milioni di posti di lavoro nel settore agricolo. Il peso dell'agricoltura si ridusse del 10.8% del Prodotto interno lordo.
Tra il 1958 e il 1963, infatti, l'economia italiana, ma anche la società e le famiglie, subirono una radicale trasformazione: da paese prevalentemente agricolo l'Italia diventò una delle sette grandi potenze industriali del mondo.
Allora l'Italia primeggiava soprattutto in due grandi settori ad alta tecnologia, quali la microelettronica e la chimica, grazie a gruppi industriali come la Olivetti e la Montecatini, ma anche nella farmaceutica, nel nucleare, nell'aeronautica, nelle telecomunicazioni, settori che in seguito sarebbero scomparsi o finiti in mani straniere.[19]
Importanti cambiamenti ci furono nell'alimentazione e nella vita delle donne, grazie alla diffusione degli elettrodomestici, in particolare del frigorifero e della lavatrice. Anche le automobili e le motociclette divennero beni accessibili per un gran numero di italiani. Si affermarono marchi come Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Autobianchi, Gilera, Piaggio.
Contribuì alla rapida crescita dell'Italia l'elevata disponibilità di manodopera, dovuta ad un forte flusso di migrazione dalle campagne alle città, e dal Sud verso il Nord. Questo fenomeno provocò per certi versi un aumento del divario economico tra il Settentrione e il Meridione. Il tentativo di ridurre tale squilibrio con l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, o la formazione di poli siderurgici Italsider, non darà risultati soddisfacenti. Ma contribuì alla crescita anche un fattore esterno, cioè la creazione del Mercato comune europeo (MEC), preceduta dalla creazione nel 1951 della Comunità europea del carbone e dell'acciaio e la creazione della CEE nel 1957, a cui l'Italia aderì immediatamente. Con la creazione del MEC vi fu l'apertura delle frontiere europee ai commerci, col conseguente aumento delle esportazioni e degli scambi commerciali europei.
Se il paese uscì dall'arretratezza in cui versava, non mancarono però gli aspetti negativi legati al "miracolo economico", come una crescita tumultuosa dei centri urbani. Questo notevole sviluppo si dovette tra l'altro anche all'intervento dello Stato nell'economia attraverso politiche di tipo Keynesiano, rese possibili soprattutto dall'aumento della spesa pubblica e dalla creazione di società a partecipazione statale. Fondamentale in tal senso fu la realizzazione di alcune infrastrutture necessarie per lo sviluppo del mercato: un importante ruolo fu ricoperto dall'IRI, ente pubblico di origine fascista fondato nel 1933, che intervenne sostanzialmente nella costruzione della rete autostradale (con la costituzione della Società Autostrade) e nel potenziamento del settore dei trasporti, non solo automobilistico, ma anche metropolitano, navale e aereo (fondazione dell'Alitalia).
Il varo del centro-sinistra
Nel marzo 1959, intanto, all'interno della DC era emersa la corrente dei Dorotei, che contestava il decisionismo di Fanfani, e il fatto che egli concentrasse nelle sue mani tre poteri: quello di presidente della DC, di presidente del Consiglio, e di ministro degli Esteri. I Dorotei giunsero ad appoggiare in Sicilia la giunta del democristiano Silvio Milazzo, sostenuta da una convergenza di missini e comunisti, contro il candidato di Fanfani Barbaro Lo Giudice. Trovandosi isolato, e senza più appoggi nel partito al suo difficile tentativo di trovare un'intesa col PSI, Fanfani rassegnò le dimissioni da tutte e tre le cariche.
Dopo che Aldo Moro fu eletto segretario della DC col sostegno dei Dorotei, nel 1960 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi affidò a Fernando Tambroni, ex-ministro degli Interni distintosi per il suo carattere deciso e autorevole, il governo che avrebbe dovuto finalmente varare il nuovo corso di centro-sinistra. Di fronte a un ennesimo temporeggiamento di Nenni e della base socialista, tuttavia, Tambroni decise di cercare altrove i voti di cui aveva bisogno, e li trovò nel Movimento Sociale Italiano, a cui concedeva in cambio il suo "sdoganamento".[20] Il governo Tambroni in tal modo ricevette dall'opposizione diverse accuse di neofascismo, ma fu soltanto alcuni mesi dopo, in occasione di un congresso del MSI da tenere a Genova, città ritenuta "antifascista" in quanto medaglia d'oro della Resistenza, che scoppiarono delle pesanti proteste di piazza, sobillate dal PCI,[21] con scontri e morti ammazzati anche nelle altre città italiane.
In seguito ai gravi fatti di Genova Tambroni rassegnò le dimissioni; al suo posto tornò Fanfani che stavolta trovò i socialisti più disponibili ad un'alleanza con la DC, memori dell'esperienza appena trascorsa, a partire dalla quale il MSI subirà un isolamento dal cosiddetto arco costituzionale che durerà almeno fino alla metà degli anni ottanta.[22] Venne così varato un governo che si reggeva su un appoggio esterno del PSI, e definito da Moro delle «convergenze parallele», perché basato sulla convergenza di disegni e linee politiche assai distanti tra loro, ma che nonostante tutto durerà quasi tre anni. Tra i suoi atti di rilievo vi fu la nazionalizzazione dell'energia elettrica (che nel 1964 porterà alla nascita dell'Enel) voluta dalle forze di sinistra ma osteggiata dal PLI e dalle società private Edison e SADE, allora sostenute dal Corriere della Sera, le quali paventavano il rischio di creare in tal modo inefficienze e aumenti di spesa per lo Stato e le famiglie. Vi fu poi l'estensione della scuola dell'obbligo fino ai 14 anni con la creazione della scuola media unificata, per impedire l'abbandono scolastico dei ragazzi avviati precocemente al lavoro.
Nell'agosto del 1960 si erano svolte intanto le Olimpiadi di Roma. Benché l'unità nazionale italiana si stesse ormai consolidando, grazie anche alla diffusione della lingua comune veicolata dalla televisione, persistevano episodi di separatismo, tra i quali la Notte dei fuochi del 1961 in Alto Adige; un'altra strage avverrà il 25 giugno 1967 in Cima Vallona, ad opera del Comitato per la liberazione del Sudtirolo (Befreiungsausschuss Südtirol-BAS), in cui rimasero uccisi quattro militari.
Nel 1961 avvennero le celebrazioni del centenario dell'unificazione italiana: il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy disse:


 
Molti dei presenti non sono italiani né per sangue, né per nascita, ma ritengo che tutti noi abbiamo un grande interesse per questo anniversario.

Tutti noi, nel senso più vasto, dobbiamo qualcosa all’esperienza italiana.

E’ un fatto storico straordinario: ciò che siamo e in cui crediamo ha avuto origine in questa striscia di terra che si protende nel Mediterraneo. Tutto quello per la cui salvaguardia combattiamo oggi ha avuto origine in Italia, e prima ancora in Grecia. Perciò per me come Presidente degli Stati Uniti è un onore partecipare a questa occasione importantissima nella vita di un Paese amico, la Repubblica Italiana.

Aggiungo, ed è un altro fatto storico strano, che il nostro Paese, così importante per la civiltà occidentale, venne scoperto dall’ardita e difficile navigazione di un italiano, Cristoforo Colombo. Il nostro Paese aveva meno di un secolo quando furono poste le basi dell’Italia moderna.

L’Italia e gli Stati Uniti hanno un legame antico e uno nuovo, intrecciati inestricabilmente, nel passato, nel presente e, crediamo, nel futuro.

Il Risorgimento, da cui è nata l’Italia moderna, come la Rivoluzione americana che ha dato le origini al nostro Paese, è stato il risveglio degli ideali più radicati della civiltà occidentale: il desiderio di libertà e di difesa dei diritti individuali.

Lo Stato esiste per proteggere questi diritti, che non ci vengono grazie alla generosità dello Stato. Questo concetto, le cui origini risalgono alla Grecia e all’Italia, è stato, secondo me, uno dei fattori più importanti nello sviluppo del nostro Paese.

E’ fonte di soddisfazione per noi sapere che coloro che hanno costruito l’Italia moderna siano stati in parte ispirati dalla nostra esperienza, così come noi prima eravamo stati in parte ispirati dalla vecchia Italia. Per quanto l’Italia moderna abbia solo un secolo di vita, la cultura e la storia della penisola italiana vanno indietro di oltre duemila anni. La civiltà occidentale come la conosciamo oggi, le cui tradizioni e valori spirituali hanno dato grande significato alla vita occidentale in Europa dell’Ovest e nella comunità Atlantica, è nata sulle rive del Tevere.

A questo ruolo storico della civiltà italiana dobbiamo aggiungere il contributo di milioni di italiani che sono venuti nel nostro Paese ha rafforzarlo, a farne la loro casa e diventarne cittadini di valore.

Questi legami antichi tra il popolo dell’Italia e degli Usa non sono mai stati più forti di quanto lo sono oggi, né sono mai stati in maggiore pericolo. La storia dell’Italia post-bellica è una storia di determinazione e coraggio nell’affrontare una missione grande e difficile. Il popolo italiano ha ricostruito un’economia e una nazione distrutti dalla guerra, e ha svolto un ruolo vitale nello sviluppo dell’integrazione economica dell’Europa Occidentale.

E’ certamente l’esperienza più incoraggiante del dopoguerra: l’Italia ha migliorato il benessere del suo popolo, portandogli la speranza per una vita migliore e giocando un ruolo significativo nella difesa dell’Occidente.

Nel grande anniversario del 1961 vediamo che ancora una volta forze nuove e potenti tornano a sfidare le idee su cui si fondano sia l’Italia che gli Stati Uniti. Se dobbiamo affrontare questa nuova sfida, dobbiamo mostrare ai nostri popoli e al mondo che ci guarda, che chi è disposto ad agire nella tradizione di Mazzini, Cavour e Garibaldi, come di Lincoln e Washington, può portare agli uomini una vita più ricca e più piena.

Questo è l’obiettivo del nuovo Risorgimento, un nuovo risveglio delle aspirazioni più antiche dell’essere umano per la libertà e il progresso, e la fiaccola accesa nell’antica Torino un secolo fa guida la lotta degli uomini dovunque: in Italia, negli Stati Uniti, in tutto il mondo intorno a noi.

In questo periodo anche la Chiesa cattolica andava incontro a un grande cambiamento con il Concilio Vaticano II, avviato nel 1962 da papa Giovanni XXIII con l'intenzione di "aprire la Chiesa alla lettura dei segni dei tempi". Si conobbero anche le prime risposte dello Stato alla mafia, dopo che nell'ambito della prima guerra di mafia il 30 giugno 1963 un'autobomba vicino alla casa di un boss a Ciaculli uccise sette carabinieri giunti sul posto in seguito ad una telefonata anonima. Il fatto, noto come strage di Ciaculli, fu alla base dei primi provvedimenti antimafia del dopoguerra. Nello stesso anno l'Italia, unendo la regione del Friuli con la parte dell'ex-territorio libero di Trieste, costituì la Regione a Statuto speciale del Friuli-Venezia Giulia.
Dal punto di vista letterario questo fu il periodo della neoavanguardia. Nel frattempo, le seguenti elezioni del 1963 videro un indebolimento della DC e del PSI, e un contemporaneo rafforzamento da un lato del PCI, che aveva duramente contestato la loro alleanza, e dall'altro del PLI, che aveva accusato il governo di causare l'aumento dei prezzi e di gonfiare la spesa pubblica. Fanfani è costretto a ritirarsi dalla scena politica; il presidente della Repubblica Antonio Segni formò per l'estate un governo "balneare" in attesa di nuovi sviluppi. Fu nell'autunno di quell'anno che si verificò il terribile cedimento della diga del Vajont, nel fondovalle veneto, che provocò la morte di circa 2000 persone.[24]
 Nel dicembre del 1963 fu incaricato Aldo Moro di formare il primo vero governo di centro-sinistra "organico", cioè con l'entrata effettiva dei socialisti al governo. Fu un varo a cui sia la DC che il PSI giunsero stremati da anni di trattative, congressi, ed esitazioni. Anche in quest'occasione non mancarono i malumori all'interno di entrambi i partiti, che esplosero pochi mesi dopo, nel maggio 1964, quando il governo Moro cadde per una questione riguardante il finanziamento pubblico alle scuole cattoliche. Ma già il ministro del Bilancio, il democristiano Emilio Colombo, aveva criticato Moro per un'eccessiva arrendevolezza nei confronti di alcune riforme auspicate dai socialisti, come quella sulle Regioni e sull'urbanistica, e su cui Nenni si rifiutava di cedere, sebbene il PSI avesse messo in minoranza il suo esponente più radicale, Riccardo Lombardi.

Di fronte allo stallo venutosi a creare, il presidente della Repubblica Segni convocò il comandante dell'arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, il quale partecipò in seguito ad una riunione con Moro e alcuni dirigenti della DC. Qualche anno più tardi si parlerà del tentativo, o piuttosto della minaccia, di attuare un piano eversivo, noto come il "Piano Solo", per far rientrare nei ranghi la sinistra, e convincerla ad ammorbidire le proprie posizioni. Nenni, probabilmente messo al corrente di questa possibilità, decise di far rientrare il PSI al governo; Lombardi lasciò la direzione del PSI, e il suo uomo di fiducia Giolitti non venne più confermato come ministro nel nuovo governo, il cui cui corso sarà negli anni a venire molto più moderato del precedente, e dalla cui agenda politica verranno tolte le riforme volute dai socialisti. Ci fu anche una scissione nel PSI da parte della componente più estremista del partito, che diede vita al PSIUP.
Nel 1966 invece il PSI, la cui direzione era passata da Nenni a Francesco De Martino, dopo aver contribuito ad eleggere Saragat presidente della Repubblica, si fonderà con il PSDI, rimarginando la scissione dello stesso Saragat avvenuta nel 1947, andando così a formare il Partito Socialista Unificato. La fusione si rivelerà però fallimentare alle elezioni del 1968, dopo le quali i due partiti torneranno a dividersi.
Il miracolo economico italiano (anche detto boom economico) è un periodo della storia d'Italia di forte crescita economica e sviluppo tecnologico, compreso tra gli anni cinquanta e anni settanta del XX secolo.
Il contesto storico
La fine della seconda guerra mondiale vedeva un'Italia sconfitta ed occupata da eserciti stranieri al pari della Germania e delle altre potenze dell'Asse, condizione che aggravava la cronica distanza nei confronti dei paesi dell'Europa più sviluppata di cui soffriva sin dall'epoca del Risorgimento ed a cui sfuggivano solo poche isole felici. Le nuove logiche geopolitiche della Guerra Fredda contribuirono, tuttavia, a far sì che l'Italia, paese cerniera fra l'Europa Occidentale, la Penisola Balcanica, l'Europa Centrale e l'Africa Settentrionale, vedesse del tutto dimenticato il suo antico ruolo di potenza nemica e potesse così godere, a partire dal 1947, di consistenti aiuti da parte del Piano Marshall, valutabili in circa 1.2 miliardi di dollari dell'epoca.[senza fonte]
La fine di tale piano (1951) coincise inoltre coll'acme della Guerra di Corea (1950-1953), il cui fabbisogno di metallo ed altre materie lavorate fu un ulteriore stimolo alla crescita dell'industria pesante italiana. Si erano poste così le basi d'una crescita economica spettacolare, il cui culmine si raggiunge nel 1960, destinata a durare sino alla crisi petrolifera del 1973 ed a trasformare il Belpaese da Paese sottosviluppato dall'economia eminentemente agricola ad una delle nazioni più sviluppate dell'intero pianeta. Per esempio, nei tre anni che intercorsero tra il 1959 ed il 1962, i tassi di incremento del reddito raggiunsero valori da primato: il 6,4%, il 5,8%, il 6,8% e il 6,1% per ciascun anno analizzato. Valori tali da ricevere il plauso dello stesso presidente statunitense John F. Kennedy in una celebre cena col presidente Antonio Segni.
Questa grande espansione economica fu determinata in primo luogo dallo sfruttamento delle opportunità che venivano dalla favorevole congiuntura internazionale. Più che l'intraprendenza e la lungimirante abilità degli imprenditori italiani [senza fonte], ebbero effetto l'incremento vertiginoso del commercio internazionale e il conseguente scambio di manufatti che lo accompagnò [senza fonte]. Anche la fine del tradizionale protezionismo dell'Italia giocò un grande ruolo in quella fase [senza fonte]. In conseguenza di quell'apertura, il sistema produttivo italiano ne risultò rivitalizzato, fu costretto ad ammodernarsi e ricompensò quei settori che erano già in movimento. La disponibilità di nuove fonti di energia e la trasformazione dell'industria dell'acciaio furono gli altri fattori decisivi. La scoperta del metano e degli idrocarburi in Val Padana, la realizzazione di una moderna industria siderurgica sotto l'egida dell'IRI, permise di fornire alla rinata industria italiana acciaio a prezzi sempre più bassi.
Il maggiore impulso a questa espansione venne proprio da quei settori che avevano raggiunto un livello di sviluppo tecnologico e una diversificazione produttiva tali da consentir loro di reggere l'ingresso dell'Italia nel Mercato comune. Il settore industriale, nel solo triennio 1957-1960, registrò un incremento medio della produzione del 31,4%. Assai rilevante fu l'aumento produttivo nei settori in cui prevalevano i grandi gruppi: autovetture 89%; meccanica di precisione 83%; fibre tessili artificiali 66,8%.[senza fonte] Ma, va osservato che il «miracolo economico» non avrebbe avuto luogo senza il basso costo del lavoro. Gli alti livelli di disoccupazione negli anni cinquanta furono la condizione perché la domanda di lavoro eccedesse abbondantemente l'offerta, con le prevedibili conseguenze in termini di andamento dei salari.
Il potere dei sindacati era effettivamente fiacco nel dopoguerra e ciò aprì la strada verso un ulteriore aumento della produttività. A partire dalla fine degli anni cinquanta, infatti, la situazione occupazionale mutò drasticamente: la crescita divenne notevole soprattutto nei settori dell'industria e del terziario. Il tutto avvenne, però, a scapito del settore agricolo. Anche la politica agricola comunitaria assecondò questa tendenza, prevedendo essa stessa benefici e incentivi destinati prevalentemente ai prodotti agricoli del Nord Europa: tendenza del resto inevitabile, visto il peso specifico ormai raggiunto da aziende quali Olivetti e Fiat dentro e fuori dall'Italia, e la potenza di capitani d'industria come Gianni Agnelli rispetto ai deboli governi della Prima Repubblica.
Il sistema economico dopo la fine della guerra
Il sistema economico marciava a pieno regime, il reddito nazionale stava crescendo e la gente era rinfrancata dall'incremento dell'occupazione e dei consumi. Si erano infine dimenticati gli anni bui del dopoguerra, quando il paese era ridotto in brandelli. È pur vero che tanti erano ancora i problemi da affrontare, fra cui la carenza di servizi pubblici, di scuole, di ospedali e di altre infrastrutture civili. Ma in complesso prevaleva un clima di ottimismo.
D'altra parte, all'inizio del 1960 l'Italia si era fregiata di un importante riconoscimento in campo finanziario. Dopo che un giornale inglese aveva definito col termine “miracolo economico” il processo di sviluppo allora in atto, dalla Gran Bretagna era giunto un altro attestato prestigioso per le credenziali e l'immagine dell'Italia. Una giuria internazionale interpellata dal “Financial Times” aveva infatti attribuito alla lira l'”Oscar” della moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Un premio che aveva coronato una lunga e affannosa rincorsa, iniziata nell'immediato dopoguerra, per scongiurare la bancarotta e non naufragare nell'inflazione più totale.
Di conseguenza, si era infine potuto concretare il cambio fra la lira e il dollaro, fissato a quota 625, e la rivalutazione delle riserve auree della Banca d'Italia era servita a ridurre l'indebitamento del Tesoro. Da qui anche l'euforia diffusasi in Borsa con i listini in forte rialzo. Sino a qualche tempo prima, ben pochi avrebbero immaginato che l'Italia potesse conseguire un successo economico dopo l'altro. È vero che, grazie agli aiuti americani del Piano Marshall, l'opera di ricostruzione post-bellica era avvenuta più rapidamente del previsto, ma l'Italia era rimasta pur sempre un paese prevalentemente agricolo, con una gran massa di braccianti e coloni.
Le cause e i fattori che hanno permesso lo sviluppo economico
Tra i fattori che hanno concorso allo sviluppo un ruolo importante viene attribuito all'ampia disponibilità di manodopera che aveva evitato al nostro paese quelle strozzature che si erano, invece, verificate altrove dando luogo a forti correnti immigratorie. Come si è visto, essa rappresenta il fattore centrale cui l'economista Kindleberger spiega l'intenso sviluppo di quegli anni. Lo schema seguito dall'economista americano è noto: quando in un sistema economico coesistono settori caratterizzati da differenti livelli di produttività e di salari, possono verificarsi trasferimenti di lavoratori in eccesso dal settore tradizionale, con produttività marginale quasi nulla, verso il settore più dinamico senza far lievitare significativamente i salari unitari e consentendo, invece, un incremento dei profitti che, attraverso l'impulso agli investimenti, alla produzione e, quindi, all'occupazione alimentano una sorta di circolo virtuoso della crescita.
Per l'Italia, i settori in questione coincidono, rispettivamente, con l'agricoltura e l'industria. Si spiegherebbe così anche la crisi che si è registrata in Italia nella prima metà degli anni sessanta, attribuita proprio all'esaurirsi della forza lavoro in eccesso. Fino agli inizi degli anni sessanta l'incremento medio dei salari era stato, infatti, inferiore a quello della produttività, anche se la quota di partecipazione dei redditi da lavoro al prodotto nazionale netto era aumentata tra il 1950 e il 1960 dal 50,8% al 55,1%.[senza fonte]
Negli anni sessanta, l'architetto Robert Stern applicò, invece, allo sviluppo economico italiano un modello del tipo «export led» prendendo in considerazione il periodo successivo al 1950 perché riteneva che gli anni precedenti fossero stati eccessivamente influenzati da fattori eccezionali, Piano Marshall compreso. Le conclusioni cui Stern era pervenuto si basavano innanzitutto sul fatto che le esportazioni italiane si fossero sviluppate nel periodo 1950-1962 ad un ritmo nettamente superiore a quello registrato dalle esportazioni mondiali. Le prime si erano, infatti, più che triplicate (+307%) mentre a livello mondiale si era registrato un incremento del 95%; e volendo circoscrivere il raffronto alle sole esportazioni industriali le conclusioni non cambiavano di molto (388% contro 123%).
Inoltre, disaggregando i dati relativi all'industria italiana Stern operò una netta distinzione tra settori “dinamici” (metallurgico, macchinari e prodotti metallici, mezzi di trasporto, prodotti chimici e fibre sintetiche, derivati del petrolio e del carbone), contraddistinti da un maggior incremento delle esportazioni (dal 47,6 al 60% sulle esportazioni industriali nel periodo compreso tra il 1951 e il 1963) e della produzione (+302,5%), e settori “tradizionali” (alimentari, bevande, tabacco, tessili, abbigliamento, calzature e cuoio) la cui quota sulle esportazioni industriali era diminuita dal 44,4% al 32,4% mentre lo sviluppo della produzione era stato solo del 97,7%.[senza fonte]
In sostanza, le esportazioni furono un importante stimolo all'investimento e quindi allo sviluppo di queste industrie nel periodo considerato. Inoltre, siccome si trattava delle industrie che contribuirono in modo significativo all'aumento della quota dei manufatti nel prodotto interno lordo italiano durante il periodo postbellico, sembra che si possa dire in base a tutto ciò che si è affermato, che il ruolo delle esportazioni nello sviluppo dell'economia italiana fu veramente notevole. Tale interpretazione è stata, successivamente, adottata con alcune modifiche anche dall'economista Augusto Graziani. Secondo Graziani, infatti, lo sviluppo degli anni cinquanta, che aveva tratto impulso dalla crescente liberalizzazione del commercio estero, aveva determinato il consolidamento di un dualismo industriale tra settori orientati verso i mercati esteri, e settori volti, invece, a soddisfare prevalentemente la domanda interna, finendo con l'accentuare le forme di dualismo territoriale, data la maggiore concentrazione dei primi nelle regioni centro-settentrionali.
In pratica, “i settori che producono per il mercato di esportazione hanno necessità di presentare prodotti competitivi sui mercati esteri (o, che è lo stesso, divengono settori esportatori solo se realizzano una sufficiente competitività). I settori esportatori devono quindi realizzare i livelli di produttività e di efficienza necessari per affrontare la concorrenza sui mercati esteri. Non così accade per i settori che lavorano per il mercato interno, i quali, al riparo della concorrenza estera, non sono vincolati ad alcun particolare livello di efficienza e di produttività”. Il modello interpretativo di Graziani è stato sottoposto a critiche per l'eccessivo peso che in esso assume la concorrenza estera.
Le esportazioni
Le esportazioni a più alto valore aggiunto erano, poi, cresciute a ritmi ancora più sostenuti: di 4,5 volte quelle meccaniche, quasi quadruplicate le chimiche. Era diminuito, invece, da circa un terzo a un quinto il peso delle esportazioni alimentari. Pertanto, le esportazioni di prodotti meccanici e chimici, che all'inizio del periodo erano pari all'84,5% delle esportazioni tessili e al 28,7% di quelle totali, assumevano a fine periodo valori pari, rispettivamente, al 161% e al 33,3%.[senza fonte] Nell'ambito del settore meccanico i maggiori incrementi riguardavano i prodotti finiti e, in particolare, le macchine da scrivere e da calcolo. Per il tessile la situazione era andata invece peggiorando nei primi anni cinquanta con l'accentuarsi della concorrenza internazionale e la perdita di alcuni mercati tradizionali come quelli dell'America del Sud.
Nel corso del 1954 la bilancia commerciale tessile si era volta al passivo ma, in compenso, tale andamento aveva prodotto l'effetto di accelerare il processo di rinnovamento degli impianti e di riorganizzazione del lavoro anche se continuavano a convivere, dando sovente vita ad un «reticolo interno» di rapporti economici, “da una parte, i colossi da 1000 e più dipendenti; dall'altra, le piccole aziende industriali e artigiane, spesso con meno di dieci dipendenti, e una schiera di lavoranti a domicilio”.[senza fonte]
Circa la destinazione delle nostre esportazioni, durante il decennio cinquanta si era consolidata l'importanza dei paesi europei verso cui era diretto il 62,3%, mentre il continente americano ne assorbiva il 20%. Al loro sviluppo continuo aveva certamente contribuito il positivo andamento dell'economia internazionale che favorì sia l'esportazione dei beni di consumo sia quella di beni strumentali, sorrette entrambe da una forte competitività e da una crescente specializzazione che avevano concorso a modificare la struttura delle correnti di esportazione, a vantaggio dei prodotti finiti industriali.
Le importazioni
Nello stesso periodo l'incidenza delle importazioni era cresciuta dal 10,6% al 16,6% sul complesso delle risorse disponibili e dal 9,2% al 16,5% rispetto alla domanda globale. Il loro valore complessivo era aumentato da 926 a 2.951 miliardi di lire, con un incremento annuo regolare, interrotto solo dal breve ciclo coreano e dalla flessione registrata tra il 1957-1958 in corrispondenza alla sfavorevole congiuntura registrata negli Stati Uniti e in altri paesi europei. Le importazioni di generi alimentari erano diminuite dal 20,4% al 16,7%, in relazione al crescente peso delle attività industriali e al generale miglioramento del tenore di vita della popolazione che erano, anche, alla base dell'incremento, dal 60,3% a 67,3%, delle importazioni di prodotti non agricoli e di materie prime industriali.
Inoltre, in relazione ai differenti ritmi di sviluppo che caratterizzavano i vari settori di attività, la composizione merceologica delle materie prime metteva in evidenza il progressivo ridimensionamento di quelle tessili ed un maggior peso di quelle impiegate nei settori meccanico e petrolchimico. Anche per le importazioni si era registrata una maggiore intensità degli scambi con gli altri paesi europei; in particolare, la percentuale di acquisti dagli altri paesi della comunità era cresciuta dal 17% al 27%, mentre erano progressivamente diminuite le importazioni dagli Stati Uniti.[senza fonte]
Il punto debole dell'economia italiana durante il boom
Il punto più debole dell'economia italiana era quello rappresentato dall'agricoltura. Le aziende caratterizzate da una scarsa produttività o ai margini di un'economia di sussistenza erano quasi il 60% del totale e le piccole imprese familiari avevano continuato ad ampliare la loro presenza senza dar luogo ad adeguate forme associative nella produzione e nel collegamento con i mercati. In pratica, circa l'80% della superficie coltivata era distribuita fra 2 milioni e mezzo di unità aziendali, di cui 2 milioni con dimensioni inferiori ai 5 ettari.
A rendere quanto mai precaria la situazione della nostra agricoltura stava poi il fatto che le terre più fertili riguardavano poco più di un terzo della superficie coltivata ed erano prevalentemente concentrate in Val Padana, mentre quelle povere o mediocri rappresentavano un carico variabile tra il 60% e il 65% della popolazione agricola attiva e si dividevano un reddito equivalente a non più del 33% della popolazione nazionale.
Fatto sta che soltanto tra il 1960 e il 1962 si cominciò a affermare, in sede politica, l'esigenza di introdurre dei correttivi, di attuare alcuni provvedimenti che evitassero un peggioramento del divario fra Nord e Sud, assecondassero l'ammodernamento dell'agricoltura per sanare il deficit della bilancia agro-alimentare e ponessero un freno alle speculazioni immobiliari cresciute a dismisura nelle principali aree urbane in seguito alla forte domanda di alloggi da parte degli immigrati; e, non da ultimo, rimuovessero posizioni ormai intollerabili di dominanza oligopolistica nel settore elettrico e in vari servizi di interesse collettivo.
Il divario fra Nord e Sud
La prevalente concentrazione industriale e delle condizioni di maggiore produttività agricola e terziaria nel Nord del paese continuava, però, ad alimentare situazioni di forte divario territoriale, cariche di implicazioni sociali oltre che economiche. Durante il decennio cinquanta il tasso annuo di crescita dei redditi pro capite era stato pari al 5,3% nell'Italia centrosettentrionale e al 3,2% nel Mezzogiorno. In presenza di un basso livello di industrializzazione, lo sviluppo del settore terziario in Meridione discendeva dall'eccesso di forza lavoro, generalmente senza alcuna qualificazione, che dava luogo ad un moltiplicarsi di attività precarie e scarsamente produttive e determinava una lievitazione delle cifre relative al prodotto delle attività terziarie, cui non corrispondeva però un effettivo stabile sviluppo dei servizi necessari al funzionamento di una società industrialmente avanzata.
Anche l'integrazione sui mercati internazionali aveva finito col rafforzare i caratteri del divario territoriale perché gli sforzi volti ad acquisire una maggiore competitività avevano interessato soprattutto le aziende proiettate sui mercati internazionali e concentrate prevalentemente nel Nord del paese. Inoltre, le particolari dinamiche occupazionali avevano comportato che i redditi da lavoro crescessero nell'industria più che negli altri settori di attività e che la loro distribuzione geografica presentasse caratteristiche di forte concentrazione solo in parte giustificate dalla diversa consistenza demografica.
Quattro regioni settentrionali (Piemonte, Valle d'Aosta, Liguria e Lombardia), infatti, assorbivano nel 1960 un volume di redditi da lavoro (4.099 miliardi) praticamente doppio rispetto a quello (2.088 miliardi) riferibile a sette regioni centro-meridionali (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna). Le cose, peraltro, non sarebbero cambiate di molto neanche dieci anni più tardi e il carattere dualistico del nostro sistema economico trova una puntuale conferma, ovviamente anche facendo riferimento a questo fenomeno. Il divario territoriale, che investiva i vari aspetti della vita economica, si manifestava anche in quelli più propriamente demografici.
Negli anni cinquanta la popolazione italiana aveva registrato un incremento medio annuo del 6 per mille, con un andamento decrescente della natalità e della mortalità che evidenziava un allineamento con i valori già da tempo registrati in altri paesi europei. Tuttavia, i diversi tassi di natalità e di mortalità, dovuti anche alla differente struttura per età della popolazione, configuravano una sorta di «dualismo demografico». Tra il censimento del 1951 e quello del 1961, l'incremento demografico era stato pari a circa 3 milioni, ma esso era stato Stato più sostenuto nelle regioni centro-settentrionali che non in quelle meridionali, nonostante queste ultime avessero registrato un più elevato tasso di natalità ed un più basso tasso di mortalità. Gli effetti dei flussi migratori, interni e verso l'estero, erano stati infatti superiori a quelli del movimento naturale, influenzando in modo decisivo la distribuzione geografica della popolazione, in stretta connessione con l'evoluzione delle vicende economiche.
Gli spostamenti interni avevano accentuato il livello di concentrazione demografica nelle città capoluogo di provincia la cui quota di popolazione era aumentata dal 28,2 al 31,9%, e il fenomeno era ancor più evidente al Nord dove la percentuale era aumentata dal 33,2 al 41,6%. In sostanza si era consolidato, tra il 1951 e il 1961, quel processo di intensa urbanizzazione che aveva interessato il paese fin dalla sua unificazione ed a cui si contrapponeva, invece, il progressivo spopolamento delle zone montane. Nel decennio in esame, infatti, il tasso medio annuo di crescita della popolazione residente registrato nei tredici centri urbani più popolosi era pari al 21,7 per mille, più che triplo rispetto a quello generale (6,4 per mille). A conferma della inadeguatezza delle riforme attuate fin dall'inizio degli anni cinquanta, la crescita del fenomeno migratorio era divenuto un inarrestabile richiamo per masse diseredate e che erano appena approdate a godere delle opportunità loro offerte dalla riforma agraria e dalle opere infrastrutturali promosse dalla Cassa per il Mezzogiorno.
Ma quegli orizzonti, un tempo soddisfacenti se confrontati all'endemica miseria precedente, ora non erano più senza alternative: l'occupazione al Nord rappresentava quindi un'attrattiva fortissima, tanto da superare gli ostacoli frapposti da una cultura secolare ostile a quelle migrazioni. Di fatto, i due milioni di ettari che, attraverso la riforma agraria e i vari incentivi fiscali e creditizi, erano stati acquisiti dalla piccola proprietà coltivatrice, a metà degli anni sessanta, tra abbandoni e successivi passaggi di proprietà, si sarebbero ridotti a circa 600 000 ettari, con un assottigliamento progressivo del numero di aziende condotte dagli assegnatari originari. Dunque, nonostante la piccola proprietà coltivatrice avesse raddoppiato tra il 1919 e il 1961 la propria estensione, raggiungendo i 10 milioni di ettari, tale sviluppo ha significato spesso un'ulteriore espansione delle basi di insediamento di quelle vere e proprie «centrali di smistamento del lavoro» che sono state le famiglie contadine.
Le migrazioni
Un'importante conseguenza di questo processo fu l'imponente movimento migratorio avutosi negli anni sessanta e anni settanta. È stato calcolato che nel periodo tra il 1955 e il 1971, quasi 9.150.000 persone siano state coinvolte in migrazioni interregionali; nel quadriennio 1960-1963, il flusso migratorio dal Sud al Nord raggiunse il totale di 800.000 persone all'anno.
Gli anni sessanta furono, dunque, teatro di un rimescolamento formidabile della popolazione italiana. I motivi strutturali che indussero prevalentemente la popolazione rurale ad abbandonare il loro luogo d'origine furono molteplici e tutti avevano a che fare con l'assetto fondiario del Sud, con la scarsa fertilità delle terre e con la polverizzazione della proprietà fondiaria, causata dalla riforma agraria del dopoguerra che aveva espropriato i latifondisti e che aveva suddiviso la proprietà terriera in lotti troppo piccoli. Ai fattori strutturali si accompagnarono quei fattori nelle Regioni del triangolo industriale.
Le ripercussioni sociali
Il 18 gennaio 1954, nelle battute iniziali del miracolo economico, il ministro dell'economia Ezio Vanoni predispose un piano per lo sviluppo economico controllato che, negli intenti del Governo, avrebbe dovuto programmare il superamento dei maggiori squilibri sociali e geografici (il crollo dell'agricoltura, la profonda differenza di sviluppo tra Nord e Sud); ma questo piano non portò ad alcun risultato. Le indicazioni che vi erano contenute in materia di sviluppo e di incremento del reddito e dell'occupazione, si basavano su una previsione fortemente sottostimata sul ruolo che avrebbe dovuto giocare il progresso tecnologico e l'incremento della produttività del lavoro che ne sarebbe derivato.
Quelle previsioni furono, quindi, travolte da un processo d'espansione, ben lungi da quel ristagno che il piano Vanoni metteva nel conto delle previsioni. Proprio perché non previsto, e per mancanza di un incanalamento regolato della crescita, il processo di espansione portò con sé gravi squilibri sul piano sociale. Il risultato finale fu quello di portare il «boom economico» a realizzarsi secondo una logica tutta sua, a rispondere direttamente al libero gioco delle forze del mercato e a dar luogo a profondi scompensi. Il primo di questi fu la cosiddetta distorsione dei consumi.
Una crescita orientata all'esportazione determinò una spinta produttiva orientata sui beni di consumo privati, spesso su quelli di lusso, senza un corrispettivo sviluppo dei consumi pubblici. Scuole, ospedali, case, trasporti, tutti beni di prima necessità restarono infatti parecchio indietro rispetto alla rapida crescita della produzione di beni di consumo privati. Il modello di sviluppo sottinteso al «boom» implicò dunque una corsa al benessere tutta incentrata su scelte e strategie individuali e familiari, ignorando invece le necessarie risposte pubbliche ai bisogni collettivi quotidiani.
Consumismo
Gli anni della grande espansione furono anche teatro di straordinarie trasformazioni che riguardarono lo stile di vita, il linguaggio e i costumi degli italiani, accompagnati da un deciso aumento del tenore di vita delle famiglie italiane. Nelle case delle famiglie di quanti potevano contare su uno stipendio e un posto di lavoro stabile cominciavano a far ingresso numerosi beni di consumo durevoli, come le prime lavatrici e frigoriferi (la cui produzione era svolta soprattutto da imprese italiane di piccole e medie dimensioni). Anche le automobili cominciavano a diffondersi sulle strade italiane con le FIAT 600 e 500, in produzione rispettivamente dal 1955 e dal 1957 e progettate ex novo da Dante Giacosa, che diede grande impulso alla produzione della casa torinese.
Si costruirono anche le prime autostrade di moderna concezione, dopo quelle costruite già sotto il fascismo (come l'Autostrada dei Laghi e l'Autostrada Firenze-Mare) ed a partire dalla Milano-Napoli, l'Autostrada del Sole. Con le nuove vetture e lo sviluppo delle strade ed autostrade iniziarono inoltre le abitudini delle vacanze estive ed invernali, sulle spiagge e sulle montagne, con i primi relativi ingorghi e l'aumento vertiginoso di incidenti stradali. Tuttavia, nessuno strumento ebbe un ruolo così rilevante nel mutamento delle abitudine della società quanto la televisione, che entrò nelle case degli Italiani nel 1954 dopo circa vent'anni di sperimentazioni.
Progressivamente essa impose un uso passivo e familiare del tempo libero a scapito delle relazioni di carattere collettivo e socializzante che, alla lunga, avrebbe modificato profondamente i ruoli personali e gli stili di vita oltre che i modelli di comportamento, anche se sulle prime, a causa dello scarso numero di apparecchi presenti sul territorio nazionale, favorì tuttavia l'instaurazione di nuove occasioni d'incontro: celebri le folle che si radunavano nei bar ad ogni puntata del gioco a premi Lascia o raddoppia? condotto da Mike Bongiorno. Le trasmissioni ufficiali della Rai iniziarono il 3 gennaio 1954: i televisori, allora, erano appena 15 000, e un televisore “economico” costava circa 200 000 lire e il primo canone di abbonamento venne fissato a 12 550 lire, il più alto d'Europa.
In concomitanza con l'aumento dei beni di consumo, andavano crescendo i consumi d'energia elettrica per uso domestico; dopo l'integrazione dal 1958 nel gruppo Stet delle società concessionarie e l'avvio del servizio di teleselezione, la densità degli apparecchi risultava nelle principali città del Nord pressoché pari alla media di altri paesi occidentali. Fatto sta che tra il 1952 e il 1958, mentre i consumi privati in generi di sussistenza e di prima necessità aumentarono ogni anno del 4,4%, l'acquisto di mezzi di trasporto, di apparecchi televisivi e altri prodotti di carattere voluttuario crebbe rispettivamente dell'8,5% e dell'11,5%.
I notevoli progressi economici susseguitisi nella seconda metà degli anni cinquanta sorpresero gran parte della classe politica. Di fatto, non si erano valutati in tutta la loro portata gli effetti che avrebbero prodotto le innovazioni tecnologiche adottate man mano dai principali complessi industriali. Inoltre non si erano percepite, o valutate in pieno, le trasformazioni avvenute in alcune regioni centrali e nord-orientali del paese, dove si era andato formando un ceto di piccoli imprenditori e di artigiani specializzati. D'altra parte, grazie al recupero della stabilità monetaria, era affluito un crescente volume di depositi nelle banche e nelle casse di risparmio e perciò si erano ampliate le possibilità di ricorrere senza eccessivi problemi a quel tanto di prestiti in denaro contante che serviva a mettere su un'attività in proprio.
La commedia italiana
Una testimonianza per tanti aspetti pregnante su questa fase di transizione, segnata dall'intreccio ibrido fra la persistenza di consuetudini arcaiche e l'irruzione di mode e usanze orecchiate dall'estero, la si può ritrovare nella cosiddetta “commedia all'italiana”, che cominciò a imporsi dalla fine degli anni cinquanta. Il più celebre esempio di commedia all'italiana apparve nelle sale cinematografiche nel 1960 con un grande film girato da Federico Fellini, intitolato La dolce vita.
Si trattava infatti di un genere cinematografico che per tanti versi era l'espressione e lo specchio di una società ambivalente, in bilico fra il vecchio e il nuovo, di una società in parte ancora sparagnina e frugale, in parte proiettata verso il consumismo con l'appetito dell'adolescente; in parte, provinciale e codina, attardata su viete convenzioni, in parte alla rincorsa di tutto ciò che sapesse di moderno anche nei suoi aspetti più superficiali ed eclatanti. Era cominciata l'era dello spettacolo, dei cantautori e dei concerti rock.
Le condizioni di vita della popolazione
Lo sviluppo di quegli anni era accompagnato da un miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione sostenuto dalla crescita dei consumi privati che, tra il 1950 e il 1962, avevano registrato un tasso di sviluppo “di entità mai sperimentata in precedenza”, pari al 4,9% annuo (6,6% nell'ultimo triennio). Sebbene tale saggio di incremento fosse più basso di quello registrato dalle altre componenti della domanda finora passate in rassegna, il che chiama in gioco le complesse dinamiche connesse con la crescita e la distribuzione della ricchezza prodotta nonché le politiche che le regolano, i consumi continuavano a mantenere un peso notevole nell'ambito della destinazione delle risorse e di questo, naturalmente, le aziende non potevano non tenerne conto specie in relazione alla esigenza di una maggiore competitività derivante dalla progressiva apertura dei mercati internazionali.
Le dinamiche demografiche, con i connessi aspetti dell'inurbamento, ed il sostenuto aumento dei redditi pro capite, facevano sì che la crescita dei consumi fosse accompagnata da significative modifiche nel modello di spesa. Il confronto per tipologia di consumo tra l'inizio e la fine degli anni cinquanta metteva, infatti, in risalto una minore incidenza dei generi alimentari, tabacchi e abbigliamento (da 60,4 a 50,8%), a vantaggio della spesa per abitazioni (da 5,9% a 8,7%), mobili (da 7% a 8%), istruzione e spettacoli (da 7,3% a 8,2%) e, soprattutto, trasporti e comunicazioni (da 4,7 a 8,4%). Inoltre, la quota dei consumi durevoli era aumentata dal 3,8% all'8,3% e, in particolare, il numero delle autovetture in circolazione era passato, nel decennio 1951-1961, da poco più di 425 000 a 2,45 milioni di unità, un salto notevole - pur in presenza di notevoli divari tra una regione e l'altra - verso la motorizzazione di massa se si pensa che tra il 1931 e il 1951 l'aumento era stato di appena 240 000 unità.
Assumeva, quindi, ulteriore significato la centralità assunta, nell'ambito dello sviluppo di quegli anni, dal settore meccanico dal momento che “la diffusione dei beni di consumo durevole, automobili ed elettrodomestici, ha rappresentato non solo un elemento trainante per l'economia nel suo complesso ma anche un fattore di più profonde trasformazioni sociali e culturali”. L'incremento dei consumi era stato reso possibile dalla continua crescita dell'occupazione e, quindi, dei salari che dal 1950 al 1960 erano aumentati del 142%, così come era aumentata la loro quota sul reddito nazionale netto (dal 44,1 al 47,9%).
In particolare, i redditi da lavoro dipendente erano passati da 4.503 a 8.977 miliardi di lire tra il 1952 e il 1960; si trattava di “una massa imponente di risorse, la cui manovra e le cui modificazioni, derivate essenzialmente dalla politica dei sindacati, influisce piuttosto notevolmente, come del resto la realtà ha mostrato, sull'intero sistema economico”. Inoltre si è notato che gli italiani erano diventati più alti: fra il 1951 e il 1972 la statura media passo da 170 a 174 cm. Anche nel settore del tempo libero ci furono profonde trasformazioni. Dal 1956 al 1965 raddoppiarono le presenze negli alberghi e quelle nei campeggi aumentarono di quattro volte. Le vacanze divennero così uno dei simboli del boom, e chi ci andava poteva sperimentare le ultime novità in materia di sport, come lo sci nautico.
La psicologia collettiva
Ancora forte era tuttavia l'influenza, nei costumi e nella psicologia collettiva, di una cultura popolare tipica del mondo contadino e di certi valori e rituali tradizionali. I legami di parentela, le reti di solidarietà familiare, la raccomandazione del parroco o del notabile di turno, la proverbiale arte di arrangiarsi e la ruvida furbizia ereditata dalla gente di campagna, il controllo sociale esercitato dal vicino, continuavano a segnare un po' dovunque la vita e i modelli di comportamento individuali. Quella che stava avvenendo nella penisola in quegli anni era, in sostanza, una trasformazione per certi aspetti rivoluzionaria sul piano strutturale, ma assai più circoscritta sul piano culturale

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