La nascita
della Repubblica
Prima pagina del quotidiano il Corriere
della Sera, edizione dell'11 giugno 1946, che
dichiarava la vittoria del voto repubblicano a seguito dei risultati del
referendum istituzionale del 2 e 3 giugno.
La Repubblica
Italiana nacque il 2 giugno 1946, in seguito ai risultati del referendum
istituzionale indetto quel giorno per determinare la forma di stato dopo la fine della seconda
guerra mondiale. I risultati furono proclamati
dalla Corte di Cassazione il 10
giugno successivo: la repubblica ottenne il 54% dei consensi e i ricorsi concernenti
presunti brogli circa la legalità dello svolgimento della consultazione furono
respinti il giorno 18 giugno.
La notte fra il 12 ed 13 giugno 1946, nel corso della riunione del Consiglio dei ministri, il
presidente Alcide De Gasperi, preso atto del risultato referendario, assunse le
funzioni di Capo
provvisorio del nuovo Stato repubblicano. Messo di fronte al fatto compiuto, l'ex re Umberto II, rimasto in carica soltanto un mese e per questo
soprannominato il "re di maggio", lasciò polemicamente e
volontariamente il paese il 13 giugno 1946.
Oltre che per il referendum, si
votava per l'elezione di un'Assemblea Costituente che avesse
il compito di dare all'Italia una nuova Costituzione: primo
partito risultò la Democrazia
Cristiana, seguita dal Partito
Socialista Italiano e dal Partito
Comunista Italiano. Il Partito d'Azione, invece, a seguito del risultato deludente, si sarebbe sciolto nel 1947.
Fu la prima consultazione politica alla quale partecipavano anche le donne
italiane.
Alla sua prima seduta, il 28 giugno 1946, l'Assemblea Costituente, sotto la
presidenza di Giuseppe Saragat, elesse quindi Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio. De Nicola poi sarà il primo ad
assumere le piene funzioni di Presidente
della Repubblica Italiana il 1º gennaio
1948.
In quegli anni l'Italia operò le
scelte decisive che avrebbero determinato il proprio destino: guidata da De
Gasperi, che presiedeva un governo di unità nazionale composto dai tre partiti
antifascisti del Comitato di
Liberazione Nazionale, l'Italia
accettò di entrare a far parte della sfera di influenza atlantica, filoamericana e anticomunista, contrapposta al blocco sovietico. Questa
collocazione accese una competizione politica tra i due maggiori partiti, la DC e il PCI. Quest'ultimo rimarrà da allora confinato
all'opposizione per via dei legami ideologici e finanziari col regime
totalitario dell'Unione Sovietica,[1] legami che
avrebbero provocato, nel caso di una sua entrata al governo, una rottura
dell'alleanza internazionale con gli Stati Uniti e degli accordi di Yalta. Un tale assetto politico priverà inoltre l'Italia di una logica
dell'alternanza fino alla caduta del muro di Berlino,[2] generando
un'anomalia rispetto alle altre democrazie occidentali dove i partiti comunisti
godevano di una forza e un consenso assai minori che in Italia.[3][4] Questa
situazione degenererà in pratiche consociative più o meno occulte,[1] che
porteranno di fatto a un progressivo coinvolgimento dell'opposizione nelle
decisioni della maggioranza.[5]
Fu in particolare durante la
missione di De Gasperi del gennaio 1947 negli Stati Uniti, con i
quali si accordò per ricevere gli aiuti economici previsti dal Piano Marshall (un prestito Eximbank di 100 milioni di dollari), che si aprì un
dialogo costruttivo tra USA e Italia, in grado di dare a De Gasperi la
motivazione e il sostegno necessari ad attuare l'ambizioso disegno di un nuovo
governo senza le sinistre. Il Piano Marshall, con cui si chiedeva ai paesi
beneficiari di estromettere in cambio le forze filosovietiche, fu il primo atto
della guerra fredda. Il PSI e soprattutto il PCI interpretarono la
propria esclusione dall'esecutivo, avvenuta nel maggio 1947, alla stregua di un
"colpo di stato"; essi tuttavia decisero di non abbandonare i lavori
dell'assemblea costituente a cui stavano partecipando insieme alla DC. Questa
decisione consentirà in particolare al PCI di acquisire una legittimità
costituzionale che non poteva avere sul piano ideologico, e che lo porterà,
negli anni a venire, a richiamarsi spesso alla Costituzione come motivo di
auto-legittimazione democratica, e a difenderla da qualunque tentativo di
modificarla senza un suo previo consenso.[3]
Un'altra anomalia tipicamente italiana fu
l'atteggiamento del Partito Socialista (allora denominato PSIUP), che a differenza di quanto
avveniva negli altri paesi occidentali decise di schiacciarsi sempre più sulle
posizioni dei comunisti, per timore di vedersi sottrarre da costoro l'egemonia
sulle masse operaie, accettando così anche la dipendenza da Mosca.[3] Alcuni
esponenti del partito, guidati da Saragat, disapprovando la scelta di legarsi a
un regime totalitario come l'Unione Sovietica, operarono nel gennaio 1947 una
scissione, dando vita al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, che
in seguito diverrà Partito
Socialdemocratico Italiano.
Nel frattempo vennero firmati nel 1947 i Trattati di
Parigi con i quali formalmente e
definitivamente fu siglata la pace con le potenze alleate e vennero sancite le
conseguenze della sconfitta nella Seconda
guerra mondiale, con mutilazioni nazionali
territoriali: l'Istria e la Dalmazia cedute alla
nascente Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia, il Dodecaneso alla Grecia, Briga e Tenda alla Francia, l'Isola di
Saseno
all'Albania, il pagamento dei danni di guerra all'URSS e la perdita di tutti i possedimenti
coloniali italiani.
Nonostante si cercasse di tornare
alla normalità, nel paese si stavano diffondendo alcuni movimenti separatisti,
in particolare in Sicilia e in Alto Adige. Per farvi fronte Alcide De Gasperi creò, il 15
maggio 1946, la Regione a statuto speciale della Sicilia. Per il Sud Tirolo
trovò nel settembre 1946 una soluzione con il collega ministro degli esteri
austriaco Karl Gruber: fu costituita la Regione a statuto speciale del Trentino-Alto
Adige, dotata di ampie autonomie e dove
accanto all'italiano, a livello regionale, fu ufficializzato pure il tedesco.
In seguito, nel 1948, si avrà la creazione della Regione a statuto speciale
anche della Valle d'Aosta.
Tornò tuttavia alla ribalta in quel
periodo la mafia, sconfitta
durante il fascismo ma riemersa nel 1943 in occasione dello sbarco
Alleato in Sicilia.[6] Il 1º
maggio 1947 rimase
tristemente celebre l'eccidio di Portella
della Ginestra, quando il bandito Salvatore
Giuliano, presumibilmente assoldato da
alcuni latifondisti, sparò sulla folla che festeggiava la Festa dei
lavoratori chiedendo la distribuzione delle
terre: fu la prima strage in Italia di cui non si scopriranno i mandanti.
Giuliano venne poi ucciso dal suo braccio destro Gaspare Pisciotta, che a sua volta fu ritrovato morto in carcere in circostanze misteriose.
Negli ultimi giorni del 1947 venne
infine ultimata la stesura della Carta
Costituzionale, entrata ufficialmente in vigore il
1º gennaio 1948. Fu questo un periodo particolarmente felice per la letteratura italiana ed
ancor di più per il cinema, con l'affermazione del neorealismo.
Gli anni del
centrismo e della ricostruzione
Dopo che il
31 maggio 1947 era caduto il terzo
governo De Gasperi per la
fuoriuscita di socialisti e comunisti, si formò il IV governo
De Gasperi appoggiato soltanto dalla Democrazia
Cristiana, dal Partito
Liberale Italiano, dal Partito
Repubblicano Italiano, e dal
neonato partito socialdemocratico di Saragat. L'esecutivo si avvalse anche di
un gruppo di tecnici guidati dal liberale Luigi Einaudi, il quale
attraverso una politica deflazionistica, attenta alla spesa pubblica e ai salari, riuscì a
far diminuire fortemente l'inflazione. Fu
l'inizio di una lunga fase di governo detta del "centrismo",
perché dominata da partiti collocati esclusivamente nell'area di centro dello
schieramento politico. L'Italia diventò un grande cantiere, anche grazie agli
aiuti del Piano Marshall che contribuì a risanare il bilancio dello Stato. In
contemporanea si verificarono evoluzioni nella politica e nel costume.
Il Partito Socialista invece, dopo
la scissione di Saragat, si accostò sempre più al Partito Comunista fino a
formare con esso una federazione che avrebbe dovuto condurre l'Italia verso la
rivoluzione socialista; la somma di PSI e PCI sembrava infatti maggiore dei
voti della DC. L'effigie di Garibaldi fu il
simbolo con cui il nuovo partito, denominato Fronte
Democratico Popolare, si
presentò alle prime elezioni parlamentari dell'Italia repubblicana nel 1948.
Il timore di una vittoria della
sinistra crebbe tra i dirigenti della Democrazia Cristiana, anche in
considerazione dell'avanzata del partito dell'Uomo Qualunque che avrebbe potuto sottrarle una parte consistente di elettorato. Si
trattava di un movimento sorto attorno all'omonimo giornale fondato a Roma nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo
Giannini, che ripudiava le ideologie e che
per il proprio atteggiamento di generica sfiducia nella classe politica diede
vita a quella tendenza definita appunto qualunquismo. Continuarono inoltre in quegli anni gli episodi di rappresaglia contro
ex-fascisti ma anche contro gente comune, da parte di apparati del
PCI, come l'eccidio di Porzûs in Friuli ai danni di
formazioni resistenziali "bianche",[7] o le stragi
del triangolo
della morte in Emilia. Si trattò di vendette
che si protrassero oltre la fine della guerra e che colpirono anche inermi
cittadini, sacerdoti, e chiunque non fosse esplicitamente affiliato
all'ideologia comunista, accusato di fascismo perché ritenuto "nemico di
classe".[8] Il 28
novembre 1947 l'esponente del PCI Giancarlo Pajetta con l'aiuto di bande armate arrivò ad occupare la prefettura di Milano a seguito
della rimozione di Ettore Troilo, ultimo tra i prefetti politici della Resistenza
ancora in carica; seguirono due giorni di insurrezione in cui sembrò
approssimarsi un colpo di stato, finché il leader nazionale del PCI Togliatti, su
pressioni di Stalin, ordinò ai ribelli di ritirarsi.[9]
La campagna elettorale del 1948, tra
le più aspre e combattute dell'Italia repubblicana, si risolse infine con la
vittoria della Democrazia Cristiana (che ottenne il 48,51% alla Camera dei
Deputati e il 48,14% al Senato della Repubblica) e la bruciante, inaspettata,
sconfitta del Fronte Popolare: questo non era andato al di là della somma dei
voti del PSI e del PCI ottenuti nel 1946. Tra le cause della sconfitta, oltre
ai vari episodi di intimidazione che lasciavano trapelare l'esistenza di un
volto armato e minaccioso accanto a quello più rassicurante di Togliatti, vi
era la proposta di un modello di vita, di tipo sovietico, piuttosto ignoto
allora agli italiani, contrapposto a quello ben più accattivante e
filo-americano offerto dalla DC. Il partito dell'Uomo Qualunque invece per il
suo scarso successo non fu tale da scalfire i voti per la DC, e si sciolse
entro pochi mesi. Alcide De Gasperi poté formare così il suo quinto
governo, appoggiato, oltre che dal suo
partito, anche dai socialdemocratici di Saragat, dal Partito
Repubblicano Italiano e dal Partito
Liberale Italiano, il cui
principale esponente, Luigi Einaudi, divenne il secondo presidente della
Repubblica.
La sconfitta in casa comunista
tuttavia fu mal digerita; il malcontento che covava esplose all'improvviso in
occasione di un attentato a Togliatti il 14 luglio 1948. Alla notizia della sua
presunta morte ci furono sollevazioni in tutte le città italiane che
reclamavano la destituzione del governo De Gasperi democraticamente eletto. La
situazione cominciò a precipitare, si contarono diversi morti e quasi un
migliaio di feriti,[10][11] ma
Togliatti non morì, venendo salvato dai medici; fu provvidenziale un suo stesso
annuncio alla radio in cui invitava i "compagni" a deporre le armi.[12] Nello
stesso giorno giunse la notizia di una grande impresa compiuta dal ciclista Gino Bartali, le cui
gesta dividevano gli italiani tra suoi fan e sostenitori di Fausto Coppi.
Nel 1949, su richiesta degli Stati Uniti,
l'Italia aderì alla NATO, un'alleanza fra tutti i paesi dell'Europa
Occidentale contrapposta al regime sovietico, il quale stava mostrando
pericolose mire espansioniste della propria influenza come nella guerra
civile greca. Il Patto prevedeva, nel caso di un
attacco nemico nei confronti di uno Stato alleato, che tutti i paesi
intervenissero militarmente in sua difesa. La decisione di aderire alla NATO
scatenò nuovamente le proteste e le agitazioni delle sinistre nelle piazze
italiane; Nenni, leader del PSI, insieme a Togliatti accusarono De Gasperi di
mettere in pericolo la democrazia e l'indipendenza politica dell'Italia. La
contrapposizione rifletteva quella a livello mondiale tra USA e URSS che si
tradusse di lì a poco con lo scoppio della guerra di Corea, scatenata dall'invasione comunista del Sud del paese, e che fu
una delle fasi più "calde" della guerra fredda, durante la
quale il mondo temette lo scoppio di un nuovo conflitto mondiale.
Accanto alle agitazioni politiche
l'Italia si stava comunque ricostruendo. La forte prevalenza democristiana nei
governi che si succedettero, tutti a guida De Gasperi, permise di varare
importanti riforme come quella del piano Casa, detta anche piano Fanfani, con cui lo Stato agevolò la costruzione di 75 000 abitazioni per i
lavoratori, stanziando circa 15 miliardi di lire all'anno in cambio di una
trattenuta sul loro stipendio.[13] Venne poi
varata nel 1950, con una
misura del ministro dell'Agricoltura Antonio Segni, la riforma agraria, ritenuta tra le più importanti del secondo dopoguerra,[14] che attuava,
tramite l'esproprio coatto ai grandi latifondisti, la
distribuzione delle terre incolte ai braccianti agricoli rendendoli così piccoli
imprenditori; se da un lato la riforma andava
incontro alle rivendicazioni dei contadini del Sud, sfociate in episodi come la
strage di Melissa, per altri versi ridusse in maniera notevole la
dimensione delle aziende agricole, togliendo di fatto la possibilità di
trasformarle in veicoli imprenditoriali avanzati.[14] Sul
versante estero, nel 1951 l'Italia aderì al Trattato di
Parigi che istituiva la CECA (Comunità europea del carbone e
dell'acciaio), il primo embrione di un'organizzazione europea. Nel 1955 venne ammessa invece alle Nazioni Unite. Il 1958 vedrà infine la nascita della Comunità
Economica Europea, il primo
passo verso la realizzazione dell'Unione europea.
Tra gli altri atti di rilievo della
stagione centrista ci fu l'attuazione di un riassetto fiscale operato dal ministro delle Finanze Ezio Vanoni, e
l'istituzione della Cassa del
Mezzogiorno per finanziare iniziative
industriali tese allo sviluppo economico del meridione
d'Italia e colmarne il divario con le regioni
settentrionali. Furono così poste le premesse per
quello che alla fine degli anni cinquanta diventerà un vero e proprio boom
economico. La produzione industriale accelerò
e comparvero i primi segnali del consumismo; iniziò la
produzione su larga scala dei primi motorini come Vespa e Lambretta. Nel 1954 cominceranno le prime trasmissioni
televisive della RAI, che
portarono a un incremento vertiginoso della vendita di televisori. I primi
programmi televisivi più seguiti furono il festival di
Sanremo e il gioco a quiz Lascia o
raddoppia?, che «nasceva in un Paese che
nasceva: c'era lo stesso carico di sogni, di speranze, di buone intenzioni».[15] In campo
cinematografico, ai film del neorealismo si succedono quelli surreali di Federico Fellini, mentre grande successo riscossero i primi colossal girati a Cinecittà a cui
contribuì l'emergente regista Sergio Leone. In campo
artistico si affermarono talenti come Alberto Burri.
Se da un lato stava nascendo una
nuova borghesia benestante,
nel paese permanevano ancora delle sacche di povertà, dovute al fatto che i
salari dei lavoratori crescevano più lentamente rispetto ai ritmi della
produzione industriale. Le proteste sociali e sindacali, come quelle alle
Fonderie Riunite di Modena nel 1950, vennero fermamente represse dal
ministro dell'Interno Mario Scelba, dipinto
dai comunisti con tinte fosche. Nel novembre 1951 ci fu poi una terribile alluvione
nel Polesine che causò 84 morti e rivelò la
penuria di mezzi adeguati di contrasto delle catastrofi naturali. La crescita
economica peraltro non fu senza sacrifici: il disastro di
Marcinelle in una miniera del Belgio nel 1956 mise in luce che l'Italia aveva
ceduto ai belgi 50 000 minatori in cambio del carbone di cui
aveva bisogno.
La DC intanto stava guardando con
crescente preoccupazione all'avanzata sulla propria destra del Movimento
Sociale Italiano, nato dalle
ceneri della Repubblica
Sociale Italiana, e del Partito
Nazionale Monarchico dell'armatore
Achille Lauro. Alle amministrative del 1951, dove si
votava anche per eleggere il sindaco di Roma, l'invito agli elettori fu di non
disperdere i voti. Alcuni componenti del clero cattolico, tuttavia, compreso papa Pio XII, intimoriti
dal clima da guerra fredda e dalla minaccia sovietica, auspicarono un'alleanza
con le destre ritenendo fosse opportuno unire adesso le forze in funzione anticomunista, così come
durante la lotta per la Liberazione vi era stata un'unione di tutte le forze
antifasciste: fu pertanto incaricato lo storico leader don Luigi Sturzo di trovare una mediazione tra DC, MSI e monarchici. Ampi settori della DC,
tuttavia, tra cui lo stesso De Gasperi, opposero resistenza al progetto,
rivendicando un'autonomia politica dalle volontà curiali, e sancendo il
fallimento dell'operazione Sturzo nella maggior parte dei casi, in particolare
a Roma dove venne comunque eletto un sindaco democristiano (mentre in altre
realtà locali l'alleanza con le destre giunse in porto).
L'atteggiamento della DC nei
confronti delle destre fu molto duro e aperto anche negli anni successivi. Per
contrastare la loro avanzata fu varata nel 1953 la legge Scelba che vietava la
ricostituzione del disciolto Partito
Fascista. Anche se rivolta esplicitamente al
Movimento Sociale, la legge di fatto rimase inapplicata, né i comunisti si
batterono per una sua effettiva messa in pratica vedendo tacitamente nel MSI un
partito capace di erodere consensi al suo principale avversario, la DC.[16] Un altro
provvedimento fu una nuova legge elettorale, ribattezzata dagli oppositori
"legge truffa", che prevedeva un premio di maggioranza al
partito (la DC nelle intenzioni) che avesse superato la soglia del 50% dei
voti. Questa legge non avrebbe danneggiato tanto le sinistre che mantenevano
ampi consensi elettorali nel paese, ma proprio le destre che avrebbero visto
esclusi o ridotti i propri rappresentanti al Parlamento. Nella campagna
elettorale del 1953, che vide un ampio ricorso alla satira, i
democristiani vennero dipinti dai comunisti come un pericolo per la democrazia
e come gente corrotta; i comunisti invece come trinariciuti e mangiatori di
bambini. La contrapposizione tra DC e PCI si rifletterà nei film su Don Camillo e Peppone. Alle elezioni, per un soffio la DC non ottenne la maggioranza
assoluta dei voti, e il meccanismo della "legge truffa" non scattò;
ci furono peraltro accuse di brogli e irregolarità rivolte agli scrutatori di
fede comunista. Si trattò comunque di una sconfitta per la DC che determinò la
fine dell'esperienza politica di De Gasperi.
Gli scompigli in casa democristiana
portarono a un succedersi di diversi governi (Pella,
Fanfani, Scelba), mentre
emergeva l'esigenza di un superamento del centrismo, ora che la DC faticava a
governare da sola con i suoi minori alleati di centro. Tra i successori più in
voga di De Gasperi vi era il democristiano Attilio Piccioni, la cui carriera fu però stroncata da uno scandalo, rivelatosi poi una
montatura, in cui rimase coinvolto il figlio Piero,
riguardante il caso Montesi.[17]
A nuovi scenari che consentissero ad
esempio un'apertura ai socialisti guarderà sempre più con favore il nuovo
presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, esponente della sinistra democristiana, e amico dell'imprenditore Enrico Mattei, presidente
dell'Agip, una delle
personalità più rilevanti e potenti del panorama post-bellico italiano, di cui
appoggiava le iniziative spregiudicate. Fra i primi a intuire l'importanza del petrolio per lo
sviluppo dell'Italia, Mattei osteggiò il predominio delle cosiddette sette
sorelle in campo petrolifero, e portò
avanti una visione neoatlantista che coinvolgesse il Mediterraneo nelle
politiche di cooperazione tra Europa e Stati Uniti. Avviò la
costruzione di una rete di gasdotti per lo
sfruttamento del metano, aprì all'energia nucleare, e negoziò rilevanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e con
l'Unione Sovietica.
Notevoli sconvolgimenti si stavano
producendo anche in casa comunista, dove si era accesa una rivalità fra Pietro Secchia e Togliatti, dopo che quest'ultimo aveva rifiutato l'invito di Stalin a
trasferirsi in URSS per occuparsi della propaganda sovietica. Nel 1953 avvenne poi la morte di Stalin: circondato
allora da un'aura di mito, la sua figura venne pesantemente ridimensionata
pochi anni dopo quando ne fu svelato il volto spietato dal suo successore Krusciov, che ne denunciò i crimini e le nefandezze, come le purghe e le
deportazioni nei gulag.[18] La notizia
della denuncia fu un trauma per il mondo comunista, non solo del PCI ma anche
del PCUS, che cercarono di negare i crimini, ma ebbe conseguenze in Ungheria che nel 1956 si ribellò al regime sovietico
uscendo dal Patto di Varsavia. La rivolta
ungherese venne però repressa nel sangue
dalle armate sovietiche, una repressione che suscitò ondate di sdegno e di avversione
al comunismo nei paesi occidentali. Nel PCI emerse per la prima volta il
dissenso, da parte di intellettuali come Delio Cantimori, Carlo Muscetta, Natalino Sapegno, firmatari del Manifesto dei 101: costoro furono espulsi dal partito, che decise
invece di difendere la repressione sovietica e di continuare a schierarsi con
l'URSS.
Nel 1954 intanto fu firmato il Memorandum
di Londra con il quale il Territorio
libero di Trieste veniva
suddiviso in due zone, una assegnata all'Italia con il ritorno di Trieste alla
madrepatria, ed una alla Jugoslavia (la parte
settentrionale dell'Istria).
Verso la
fine del centrismo
L’uscita di scena di De Gasperi, il
vuoto lasciato nella dirigenza della DC fu progressivamente riempito da due
nuove personalità, Amintore Fanfani e Aldo Moro. Già nel 1956 Fanfani, uomo dal piglio risoluto,
ritenne maturi i tempi per un'alleanza col PSI, ora che questo partito sotto la spinta degli autonomisti si era deciso a rompere i legami col PCI,
contestandone la sottomissione al regime comunista sovietico,
soprattutto in occasione della repressione della rivoluzione
ungherese del 1956. Pur
avviandosi così verso una nuova fase, nel PSI restavano tuttavia forti le
resistenze nei confronti di una possibile alleanza con la DC.
Le elezioni del 1958 segnarono un importante successo
dei partiti componenti il centro-sinistra vagheggiato da Fanfani. Quest'ultimo,
divenuto intanto segretario della DC, si decise perciò a compiere un ulteriore
passo, formando un governo che comprendeva anche il PSDI di Saragat, come
premessa per una futura alleanza coi socialisti di Nenni. Tra gli atti di rilievo del nuovo
governo, orientato su tematiche care alla sinistra, come una politica estera
filo-araba o l'appoggio all'ENI fondato da Enrico Mattei, ci fu
l'abolizione delle case chiuse con la legge Merlin, seppure
tra le contestazioni di alcuni parlamentari o del giornalista Indro Montanelli. Venne anche varato il nuovo codice della
strada per far fronte al grave incremento
degli incidenti automobilistici, dovuto alla motorizzazione di massa nell'epoca
in cui stava esplodendo il cosiddetto boom
economico.
Il miracolo
economico
Durante il
cosiddetto "miracolo economico" il Prodotto
interno lordo,
che fino al 1958 era cresciuto in media del 5.5%, crebbe nei sei anni
successivi del 6.3%. Tale crescita rappresentò un record nella storia del
paese. Il reddito
pro-capite
passò da 350.000 a 571.000 lire. Tra il 1958 e il 1959 gli investimenti lordi
crebbero del 10%, mentre tra il 1961 e il 1962 l'incremento fu del 13%. Questi
numeri ridussero sensibilmente il divario storico con i grandi Paesi europei: Inghilterra, Germania e Francia.La crescita del reddito pro capite produsse l'aumento dei consumi individuali che registrarono una crescita media di cinque punti percentuali l'anno. La domanda di beni durevoli (automobili, elettrodomestici, ecc.) raggiunse una crescita annua pari al 10.4%.
La produzione industriale registrò una crescita pari all'84% tra il 1953 e il 1961, grazie sia alle nuove tecnologie di produzione che arrivavano in gran parte dagli Stati Uniti, sia ad una manodopera con bassi salari.
Con l'aumento dell'industrializzazione diminuì il peso delle attività agricole nel bilancio globale dell'economia del paese. Tra il 1954 e il 1964 in tutta Italia vi fu una diminuzione di 3 milioni di posti di lavoro nel settore agricolo. Il peso dell'agricoltura si ridusse del 10.8% del Prodotto interno lordo.
Tra il 1958 e il 1963, infatti, l'economia italiana, ma anche la società e le famiglie, subirono una radicale trasformazione:
da paese prevalentemente agricolo l'Italia diventò una delle sette grandi
potenze industriali del mondo.
Allora l'Italia primeggiava soprattutto
in due grandi settori ad alta tecnologia, quali la microelettronica e la chimica, grazie a
gruppi industriali come la Olivetti e la Montecatini, ma anche nella farmaceutica, nel nucleare, nell'aeronautica, nelle telecomunicazioni, settori che in seguito sarebbero scomparsi o finiti in mani straniere.[19]
Importanti cambiamenti ci furono
nell'alimentazione e nella vita delle donne, grazie alla diffusione degli
elettrodomestici, in particolare del frigorifero e della lavatrice. Anche le
automobili e le motociclette divennero beni accessibili per un gran numero di
italiani. Si affermarono marchi come Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Autobianchi, Gilera, Piaggio.
Contribuì alla rapida crescita
dell'Italia l'elevata disponibilità di manodopera, dovuta ad un forte flusso di
migrazione dalle campagne alle città, e dal Sud verso il Nord. Questo fenomeno
provocò per certi versi un aumento del divario economico tra il Settentrione e
il Meridione. Il tentativo di ridurre tale squilibrio con l'istituzione della Cassa per il
Mezzogiorno, o la formazione di poli siderurgici Italsider, non darà
risultati soddisfacenti. Ma contribuì alla crescita anche un fattore esterno,
cioè la creazione del Mercato
comune europeo (MEC), preceduta
dalla creazione nel 1951 della Comunità europea del carbone e dell'acciaio e la creazione della CEE nel 1957, a cui l'Italia aderì
immediatamente. Con la creazione del MEC vi fu l'apertura delle frontiere
europee ai commerci, col conseguente aumento delle esportazioni e degli scambi
commerciali europei.
Se il paese uscì dall'arretratezza
in cui versava, non mancarono però gli aspetti negativi legati al
"miracolo economico", come una crescita tumultuosa dei centri urbani. Questo notevole sviluppo si dovette tra l'altro anche
all'intervento dello Stato nell'economia attraverso politiche di tipo Keynesiano, rese possibili soprattutto dall'aumento della spesa
pubblica e dalla creazione di società a
partecipazione statale.
Fondamentale in tal senso fu la realizzazione di alcune infrastrutture
necessarie per lo sviluppo del mercato: un importante ruolo fu ricoperto dall'IRI, ente pubblico di origine fascista
fondato nel 1933, che
intervenne sostanzialmente nella costruzione della rete autostradale (con la
costituzione della Società
Autostrade) e nel potenziamento del settore
dei trasporti, non solo automobilistico, ma anche metropolitano, navale e
aereo (fondazione dell'Alitalia).
Il varo del
centro-sinistra
Nel marzo 1959, intanto, all'interno della DC era
emersa la corrente dei Dorotei, che contestava il decisionismo di Fanfani, e il
fatto che egli concentrasse nelle sue mani tre poteri: quello di presidente
della DC, di presidente del Consiglio, e di ministro degli Esteri. I Dorotei
giunsero ad appoggiare in Sicilia la giunta del democristiano Silvio Milazzo, sostenuta da una convergenza di missini e comunisti, contro il candidato
di Fanfani Barbaro Lo
Giudice. Trovandosi isolato, e senza più
appoggi nel partito al suo difficile tentativo di trovare un'intesa col PSI,
Fanfani rassegnò le dimissioni da tutte e tre le cariche.
Dopo che Aldo Moro fu eletto
segretario della DC col sostegno dei Dorotei, nel 1960 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi affidò a Fernando Tambroni, ex-ministro degli Interni distintosi per il suo
carattere deciso e autorevole, il governo che avrebbe dovuto finalmente varare
il nuovo corso di centro-sinistra. Di fronte a un ennesimo temporeggiamento di
Nenni e della base socialista, tuttavia, Tambroni decise di cercare altrove i
voti di cui aveva bisogno, e li trovò nel Movimento
Sociale Italiano, a cui
concedeva in cambio il suo "sdoganamento".[20] Il governo
Tambroni in tal modo ricevette dall'opposizione diverse accuse di neofascismo,
ma fu soltanto alcuni mesi dopo, in occasione di un congresso del MSI da tenere
a Genova, città
ritenuta "antifascista" in quanto medaglia
d'oro della Resistenza, che
scoppiarono delle pesanti proteste di piazza, sobillate dal PCI,[21] con scontri
e morti ammazzati anche nelle altre città italiane.
In seguito ai gravi fatti di Genova
Tambroni rassegnò le dimissioni; al suo posto tornò Fanfani che stavolta trovò
i socialisti più disponibili ad un'alleanza con la DC, memori dell'esperienza
appena trascorsa, a partire dalla quale il MSI subirà un isolamento dal
cosiddetto arco
costituzionale che durerà almeno fino alla metà
degli anni ottanta.[22] Venne così
varato un governo che si reggeva su un appoggio esterno del PSI, e definito da
Moro delle «convergenze
parallele», perché basato sulla convergenza
di disegni e linee politiche assai distanti tra loro, ma che nonostante tutto
durerà quasi tre anni. Tra i suoi atti di rilievo vi fu la nazionalizzazione
dell'energia elettrica (che nel 1964 porterà alla nascita dell'Enel) voluta dalle forze di sinistra ma
osteggiata dal PLI e dalle società private Edison e SADE, allora sostenute dal Corriere
della Sera, le quali paventavano il rischio di
creare in tal modo inefficienze e aumenti di spesa per lo Stato e le famiglie.
Vi fu poi l'estensione della scuola dell'obbligo fino ai 14 anni con la
creazione della scuola media unificata, per impedire l'abbandono scolastico dei
ragazzi avviati precocemente al lavoro.
Nell'agosto del 1960 si erano svolte
intanto le Olimpiadi di Roma. Benché l'unità nazionale italiana si stesse ormai
consolidando, grazie anche alla diffusione della lingua comune veicolata dalla
televisione, persistevano episodi di separatismo, tra i quali la Notte dei fuochi del 1961 in Alto Adige; un'altra strage avverrà il 25 giugno 1967 in Cima Vallona, ad opera del Comitato per la liberazione del
Sudtirolo (Befreiungsausschuss Südtirol-BAS),
in cui rimasero uccisi quattro militari.
Nel 1961 avvennero le celebrazioni del centenario dell'unificazione italiana: il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy disse:
Molti dei presenti non sono italiani né per sangue, né per nascita, ma ritengo che tutti noi abbiamo un grande interesse per questo anniversario.
Tutti noi, nel senso più vasto, dobbiamo qualcosa all’esperienza italiana.
E’ un fatto storico straordinario: ciò che siamo e in cui crediamo ha avuto origine in questa striscia di terra che si protende nel Mediterraneo. Tutto quello per la cui salvaguardia combattiamo oggi ha avuto origine in Italia, e prima ancora in Grecia. Perciò per me come Presidente degli Stati Uniti è un onore partecipare a questa occasione importantissima nella vita di un Paese amico, la Repubblica Italiana.
Aggiungo, ed è un altro fatto storico strano, che il nostro Paese, così importante per la civiltà occidentale, venne scoperto dall’ardita e difficile navigazione di un italiano, Cristoforo Colombo. Il nostro Paese aveva meno di un secolo quando furono poste le basi dell’Italia moderna.
L’Italia e gli Stati Uniti hanno un legame antico e uno nuovo, intrecciati inestricabilmente, nel passato, nel presente e, crediamo, nel futuro.
Il Risorgimento, da cui è nata l’Italia moderna, come la Rivoluzione americana che ha dato le origini al nostro Paese, è stato il risveglio degli ideali più radicati della civiltà occidentale: il desiderio di libertà e di difesa dei diritti individuali.
Lo Stato esiste per proteggere questi diritti, che non ci vengono grazie alla generosità dello Stato. Questo concetto, le cui origini risalgono alla Grecia e all’Italia, è stato, secondo me, uno dei fattori più importanti nello sviluppo del nostro Paese.
E’ fonte di soddisfazione per noi sapere che coloro che hanno costruito l’Italia moderna siano stati in parte ispirati dalla nostra esperienza, così come noi prima eravamo stati in parte ispirati dalla vecchia Italia. Per quanto l’Italia moderna abbia solo un secolo di vita, la cultura e la storia della penisola italiana vanno indietro di oltre duemila anni. La civiltà occidentale come la conosciamo oggi, le cui tradizioni e valori spirituali hanno dato grande significato alla vita occidentale in Europa dell’Ovest e nella comunità Atlantica, è nata sulle rive del Tevere.
A questo ruolo storico della civiltà italiana dobbiamo aggiungere il contributo di milioni di italiani che sono venuti nel nostro Paese ha rafforzarlo, a farne la loro casa e diventarne cittadini di valore.
Questi legami antichi tra il popolo dell’Italia e degli Usa non sono mai stati più forti di quanto lo sono oggi, né sono mai stati in maggiore pericolo. La storia dell’Italia post-bellica è una storia di determinazione e coraggio nell’affrontare una missione grande e difficile. Il popolo italiano ha ricostruito un’economia e una nazione distrutti dalla guerra, e ha svolto un ruolo vitale nello sviluppo dell’integrazione economica dell’Europa Occidentale.
E’ certamente l’esperienza più incoraggiante del dopoguerra: l’Italia ha migliorato il benessere del suo popolo, portandogli la speranza per una vita migliore e giocando un ruolo significativo nella difesa dell’Occidente.
Nel grande anniversario del 1961 vediamo che ancora una volta forze nuove e potenti tornano a sfidare le idee su cui si fondano sia l’Italia che gli Stati Uniti. Se dobbiamo affrontare questa nuova sfida, dobbiamo mostrare ai nostri popoli e al mondo che ci guarda, che chi è disposto ad agire nella tradizione di Mazzini, Cavour e Garibaldi, come di Lincoln e Washington, può portare agli uomini una vita più ricca e più piena.
Questo è l’obiettivo del nuovo Risorgimento, un nuovo risveglio delle aspirazioni più antiche dell’essere umano per la libertà e il progresso, e la fiaccola accesa nell’antica Torino un secolo fa guida la lotta degli uomini dovunque: in Italia, negli Stati Uniti, in tutto il mondo intorno a noi.
Nel 1961 avvennero le celebrazioni del centenario dell'unificazione italiana: il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy disse:
Molti dei presenti non sono italiani né per sangue, né per nascita, ma ritengo che tutti noi abbiamo un grande interesse per questo anniversario.
Tutti noi, nel senso più vasto, dobbiamo qualcosa all’esperienza italiana.
E’ un fatto storico straordinario: ciò che siamo e in cui crediamo ha avuto origine in questa striscia di terra che si protende nel Mediterraneo. Tutto quello per la cui salvaguardia combattiamo oggi ha avuto origine in Italia, e prima ancora in Grecia. Perciò per me come Presidente degli Stati Uniti è un onore partecipare a questa occasione importantissima nella vita di un Paese amico, la Repubblica Italiana.
Aggiungo, ed è un altro fatto storico strano, che il nostro Paese, così importante per la civiltà occidentale, venne scoperto dall’ardita e difficile navigazione di un italiano, Cristoforo Colombo. Il nostro Paese aveva meno di un secolo quando furono poste le basi dell’Italia moderna.
L’Italia e gli Stati Uniti hanno un legame antico e uno nuovo, intrecciati inestricabilmente, nel passato, nel presente e, crediamo, nel futuro.
Il Risorgimento, da cui è nata l’Italia moderna, come la Rivoluzione americana che ha dato le origini al nostro Paese, è stato il risveglio degli ideali più radicati della civiltà occidentale: il desiderio di libertà e di difesa dei diritti individuali.
Lo Stato esiste per proteggere questi diritti, che non ci vengono grazie alla generosità dello Stato. Questo concetto, le cui origini risalgono alla Grecia e all’Italia, è stato, secondo me, uno dei fattori più importanti nello sviluppo del nostro Paese.
E’ fonte di soddisfazione per noi sapere che coloro che hanno costruito l’Italia moderna siano stati in parte ispirati dalla nostra esperienza, così come noi prima eravamo stati in parte ispirati dalla vecchia Italia. Per quanto l’Italia moderna abbia solo un secolo di vita, la cultura e la storia della penisola italiana vanno indietro di oltre duemila anni. La civiltà occidentale come la conosciamo oggi, le cui tradizioni e valori spirituali hanno dato grande significato alla vita occidentale in Europa dell’Ovest e nella comunità Atlantica, è nata sulle rive del Tevere.
A questo ruolo storico della civiltà italiana dobbiamo aggiungere il contributo di milioni di italiani che sono venuti nel nostro Paese ha rafforzarlo, a farne la loro casa e diventarne cittadini di valore.
Questi legami antichi tra il popolo dell’Italia e degli Usa non sono mai stati più forti di quanto lo sono oggi, né sono mai stati in maggiore pericolo. La storia dell’Italia post-bellica è una storia di determinazione e coraggio nell’affrontare una missione grande e difficile. Il popolo italiano ha ricostruito un’economia e una nazione distrutti dalla guerra, e ha svolto un ruolo vitale nello sviluppo dell’integrazione economica dell’Europa Occidentale.
E’ certamente l’esperienza più incoraggiante del dopoguerra: l’Italia ha migliorato il benessere del suo popolo, portandogli la speranza per una vita migliore e giocando un ruolo significativo nella difesa dell’Occidente.
Nel grande anniversario del 1961 vediamo che ancora una volta forze nuove e potenti tornano a sfidare le idee su cui si fondano sia l’Italia che gli Stati Uniti. Se dobbiamo affrontare questa nuova sfida, dobbiamo mostrare ai nostri popoli e al mondo che ci guarda, che chi è disposto ad agire nella tradizione di Mazzini, Cavour e Garibaldi, come di Lincoln e Washington, può portare agli uomini una vita più ricca e più piena.
Questo è l’obiettivo del nuovo Risorgimento, un nuovo risveglio delle aspirazioni più antiche dell’essere umano per la libertà e il progresso, e la fiaccola accesa nell’antica Torino un secolo fa guida la lotta degli uomini dovunque: in Italia, negli Stati Uniti, in tutto il mondo intorno a noi.
In questo periodo anche la Chiesa cattolica andava incontro a un grande cambiamento con il Concilio
Vaticano II, avviato nel 1962 da papa
Giovanni XXIII con l'intenzione di "aprire la
Chiesa alla lettura dei segni dei tempi". Si conobbero anche le prime
risposte dello Stato alla mafia, dopo che nell'ambito della prima guerra
di mafia il 30 giugno 1963 un'autobomba vicino alla
casa di un boss a Ciaculli uccise sette carabinieri giunti sul
posto in seguito ad una telefonata anonima. Il fatto, noto come strage di
Ciaculli, fu alla base dei primi
provvedimenti antimafia del dopoguerra. Nello stesso anno l'Italia, unendo la
regione del Friuli con la parte dell'ex-territorio libero di Trieste, costituì
la Regione a Statuto speciale del Friuli-Venezia
Giulia.
Dal punto di vista letterario questo
fu il periodo della neoavanguardia. Nel frattempo, le seguenti elezioni del 1963 videro un indebolimento della DC e
del PSI, e un contemporaneo rafforzamento da un lato del PCI, che aveva
duramente contestato la loro alleanza, e dall'altro del PLI, che aveva accusato
il governo di causare l'aumento dei prezzi e di gonfiare la spesa pubblica.
Fanfani è costretto a ritirarsi dalla scena politica; il presidente della
Repubblica Antonio Segni formò per l'estate un governo "balneare" in
attesa di nuovi sviluppi. Fu nell'autunno di quell'anno che si verificò il terribile
cedimento della diga del Vajont, nel fondovalle veneto, che
provocò la morte di circa 2000 persone.[24]
Nel dicembre del 1963 fu incaricato Aldo Moro
di formare il primo vero governo di centro-sinistra "organico", cioè
con l'entrata effettiva dei socialisti al governo. Fu un varo a cui sia la DC
che il PSI giunsero stremati da anni di trattative, congressi, ed esitazioni.
Anche in quest'occasione non mancarono i malumori all'interno di entrambi i
partiti, che esplosero pochi mesi dopo, nel maggio 1964, quando il governo Moro cadde per
una questione riguardante il finanziamento pubblico alle scuole cattoliche. Ma
già il ministro del Bilancio, il democristiano Emilio Colombo, aveva criticato Moro per un'eccessiva arrendevolezza nei confronti di alcune
riforme auspicate dai socialisti, come quella sulle Regioni e sull'urbanistica,
e su cui Nenni si rifiutava di cedere, sebbene il PSI avesse messo in minoranza
il suo esponente più radicale, Riccardo
Lombardi.
Di fronte allo stallo venutosi a
creare, il presidente della Repubblica Segni convocò il comandante dell'arma dei
Carabinieri Giovanni De
Lorenzo, il quale partecipò in seguito ad
una riunione con Moro e alcuni dirigenti della DC. Qualche anno più tardi si
parlerà del tentativo, o piuttosto della minaccia, di attuare un piano
eversivo, noto come il "Piano Solo", per
far rientrare nei ranghi la sinistra, e convincerla ad ammorbidire le proprie
posizioni. Nenni, probabilmente messo al corrente di questa possibilità, decise
di far rientrare il PSI al governo; Lombardi lasciò la direzione del PSI, e il
suo uomo di fiducia Giolitti non venne più confermato come ministro nel nuovo
governo, il cui cui corso sarà negli anni a venire molto più moderato del
precedente, e dalla cui agenda politica verranno tolte le riforme volute dai
socialisti. Ci fu anche una scissione nel PSI da parte della componente più
estremista del partito, che diede vita al PSIUP.
Nel 1966 invece il PSI, la cui direzione era
passata da Nenni a Francesco De
Martino, dopo aver contribuito ad eleggere
Saragat presidente della Repubblica, si fonderà con il PSDI, rimarginando la
scissione dello stesso Saragat avvenuta nel 1947, andando così a formare il Partito
Socialista Unificato. La fusione
si rivelerà però fallimentare alle elezioni del 1968, dopo le quali i due partiti
torneranno a dividersi.
Il miracolo economico italiano
(anche detto boom economico) è un periodo della storia d'Italia di forte crescita
economica e sviluppo
tecnologico, compreso tra gli anni cinquanta e anni settanta del XX secolo.
Il contesto
storico
La fine della seconda
guerra mondiale vedeva un'Italia sconfitta ed
occupata da eserciti stranieri al pari della Germania e delle
altre potenze dell'Asse, condizione che aggravava la cronica distanza nei
confronti dei paesi dell'Europa più sviluppata di cui soffriva sin dall'epoca del Risorgimento ed a cui
sfuggivano solo poche isole felici. Le nuove logiche geopolitiche della Guerra Fredda
contribuirono, tuttavia, a far sì che l'Italia, paese
cerniera fra l'Europa Occidentale, la Penisola
Balcanica, l'Europa Centrale e l'Africa
Settentrionale, vedesse del tutto dimenticato il suo antico ruolo di potenza
nemica e potesse così godere, a partire dal 1947, di consistenti aiuti da parte del Piano Marshall, valutabili in circa 1.2 miliardi di dollari dell'epoca.[senza fonte]
La fine di tale piano (1951)
coincise inoltre coll'acme della Guerra di Corea (1950-1953), il cui fabbisogno di metallo ed altre materie lavorate fu un
ulteriore stimolo alla crescita dell'industria pesante italiana. Si erano poste
così le basi d'una crescita economica spettacolare, il cui culmine si raggiunge
nel 1960, destinata a durare sino alla crisi
petrolifera del 1973 ed a
trasformare il Belpaese da Paese sottosviluppato dall'economia eminentemente
agricola ad una delle nazioni più sviluppate dell'intero pianeta. Per esempio,
nei tre anni che intercorsero tra il 1959 ed il 1962, i tassi di incremento del
reddito raggiunsero valori da primato: il 6,4%, il 5,8%, il 6,8% e il 6,1% per
ciascun anno analizzato. Valori tali da ricevere il plauso dello stesso
presidente statunitense John F. Kennedy in una celebre cena col presidente Antonio Segni.
Questa grande espansione economica
fu determinata in primo luogo dallo sfruttamento delle opportunità che venivano
dalla favorevole congiuntura internazionale. Più che l'intraprendenza e la
lungimirante abilità degli imprenditori italiani [senza fonte], ebbero
effetto l'incremento vertiginoso del commercio internazionale e il conseguente
scambio di manufatti che lo accompagnò [senza fonte]. Anche la
fine del tradizionale protezionismo dell'Italia
giocò un grande ruolo in quella fase [senza fonte]. In
conseguenza di quell'apertura, il sistema produttivo italiano ne risultò
rivitalizzato, fu costretto ad ammodernarsi e ricompensò quei settori che erano
già in movimento. La disponibilità di nuove fonti di energia e la trasformazione dell'industria dell'acciaio furono gli
altri fattori decisivi. La scoperta del metano e degli idrocarburi in Val Padana, la
realizzazione di una moderna industria
siderurgica sotto l'egida dell'IRI, permise di fornire alla rinata
industria italiana acciaio a prezzi sempre più bassi.
Il maggiore impulso a questa
espansione venne proprio da quei settori che avevano raggiunto un livello di
sviluppo tecnologico e una diversificazione produttiva tali da consentir loro
di reggere l'ingresso dell'Italia nel Mercato comune. Il settore industriale,
nel solo triennio 1957-1960, registrò un incremento medio della produzione del
31,4%. Assai rilevante fu l'aumento produttivo nei settori in cui prevalevano i
grandi gruppi: autovetture 89%; meccanica di precisione 83%; fibre tessili
artificiali 66,8%.[senza fonte] Ma, va
osservato che il «miracolo
economico» non avrebbe avuto luogo senza il
basso costo del lavoro. Gli alti livelli di disoccupazione negli anni cinquanta furono la condizione perché la domanda di lavoro
eccedesse abbondantemente l'offerta, con le prevedibili conseguenze in termini
di andamento dei salari.
Il potere dei sindacati era
effettivamente fiacco nel dopoguerra e ciò aprì la strada verso un ulteriore
aumento della produttività. A partire dalla fine degli anni cinquanta, infatti, la situazione occupazionale mutò drasticamente: la crescita
divenne notevole soprattutto nei settori dell'industria e del terziario. Il
tutto avvenne, però, a scapito del settore agricolo. Anche la politica agricola
comunitaria assecondò questa tendenza, prevedendo essa stessa benefici e
incentivi destinati prevalentemente ai prodotti agricoli del Nord Europa:
tendenza del resto inevitabile, visto il peso specifico ormai raggiunto da
aziende quali Olivetti e Fiat dentro e fuori dall'Italia, e la potenza di capitani
d'industria come Gianni Agnelli rispetto ai deboli governi della Prima
Repubblica.
Il sistema
economico dopo la fine della guerra
Il sistema economico marciava a pieno regime, il reddito nazionale stava crescendo e la gente
era rinfrancata dall'incremento dell'occupazione e dei
consumi. Si erano infine dimenticati gli anni bui del dopoguerra, quando il
paese era ridotto in brandelli. È pur vero che tanti erano ancora i problemi da
affrontare, fra cui la carenza di servizi pubblici, di scuole, di ospedali e di
altre infrastrutture civili. Ma in complesso prevaleva un clima di ottimismo.
D'altra parte, all'inizio del 1960 l'Italia si era fregiata di un
importante riconoscimento in campo finanziario. Dopo che un giornale inglese
aveva definito col termine “miracolo economico” il processo di sviluppo allora
in atto, dalla Gran Bretagna era giunto un altro attestato prestigioso per le
credenziali e l'immagine dell'Italia. Una giuria internazionale interpellata
dal “Financial Times” aveva infatti attribuito alla lira l'”Oscar”
della moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Un premio che aveva
coronato una lunga e affannosa rincorsa, iniziata nell'immediato dopoguerra,
per scongiurare la bancarotta e non naufragare nell'inflazione più totale.
Di conseguenza, si era infine potuto
concretare il cambio fra la lira e il dollaro, fissato a
quota 625, e la rivalutazione delle riserve auree della Banca d'Italia era servita a ridurre l'indebitamento del Tesoro. Da qui anche l'euforia
diffusasi in Borsa con i listini in forte rialzo. Sino a qualche tempo prima,
ben pochi avrebbero immaginato che l'Italia potesse conseguire un successo
economico dopo l'altro. È vero che, grazie agli aiuti americani del Piano Marshall, l'opera di ricostruzione post-bellica era avvenuta più rapidamente del
previsto, ma l'Italia era rimasta pur sempre un paese prevalentemente agricolo,
con una gran massa di braccianti e coloni.
Le cause e i
fattori che hanno permesso lo sviluppo economico
Tra i fattori che hanno concorso
allo sviluppo un ruolo importante viene attribuito all'ampia disponibilità di
manodopera che aveva evitato al nostro paese quelle strozzature che si erano,
invece, verificate altrove dando luogo a forti correnti immigratorie. Come si è
visto, essa rappresenta il fattore centrale cui l'economista Kindleberger spiega l'intenso
sviluppo di quegli anni. Lo schema seguito dall'economista americano è noto:
quando in un sistema economico coesistono settori caratterizzati da differenti
livelli di produttività e di salari, possono verificarsi trasferimenti di
lavoratori in eccesso dal settore tradizionale, con produttività marginale
quasi nulla, verso il settore più dinamico senza far lievitare
significativamente i salari unitari e consentendo, invece, un incremento dei
profitti che, attraverso l'impulso agli investimenti, alla
produzione e, quindi, all'occupazione alimentano una sorta di circolo virtuoso
della crescita.
Per l'Italia, i settori in questione
coincidono, rispettivamente, con l'agricoltura e l'industria. Si
spiegherebbe così anche la crisi che si è registrata in Italia nella prima metà
degli anni sessanta, attribuita
proprio all'esaurirsi della forza lavoro in eccesso.
Fino agli inizi degli anni sessanta l'incremento medio dei salari era stato,
infatti, inferiore a quello della produttività, anche se la quota di partecipazione
dei redditi da lavoro al prodotto nazionale netto era aumentata tra il 1950 e
il 1960 dal 50,8% al 55,1%.[senza fonte]
Negli anni sessanta, l'architetto Robert Stern applicò, invece, allo sviluppo economico italiano un
modello del tipo «export led» prendendo in considerazione il periodo successivo
al 1950 perché
riteneva che gli anni precedenti fossero stati eccessivamente influenzati da
fattori eccezionali, Piano Marshall compreso. Le conclusioni cui Stern era pervenuto si basavano innanzitutto
sul fatto che le esportazioni italiane si fossero sviluppate nel periodo
1950-1962 ad un ritmo nettamente superiore a quello registrato dalle esportazioni mondiali.
Le prime si erano, infatti, più che triplicate (+307%) mentre a livello
mondiale si era registrato un incremento del 95%; e volendo circoscrivere il
raffronto alle sole esportazioni industriali le conclusioni non cambiavano di
molto (388% contro 123%).
Inoltre, disaggregando i dati
relativi all'industria italiana Stern operò una netta distinzione tra settori
“dinamici” (metallurgico, macchinari e prodotti metallici, mezzi di trasporto,
prodotti chimici e fibre sintetiche, derivati del petrolio e del carbone),
contraddistinti da un maggior incremento delle esportazioni (dal 47,6 al 60%
sulle esportazioni industriali nel periodo compreso tra il 1951 e il 1963) e
della produzione (+302,5%), e settori “tradizionali” (alimentari, bevande,
tabacco, tessili, abbigliamento, calzature e cuoio) la cui quota sulle
esportazioni industriali era diminuita dal 44,4% al 32,4% mentre lo sviluppo
della produzione era stato solo del 97,7%.[senza fonte]
In sostanza, le esportazioni furono un
importante stimolo all'investimento e quindi allo sviluppo di queste industrie nel periodo
considerato. Inoltre, siccome si trattava delle industrie che contribuirono in
modo significativo all'aumento della quota dei manufatti nel prodotto
interno lordo italiano durante il periodo
postbellico, sembra che si possa dire in base a tutto ciò che si è affermato,
che il ruolo delle esportazioni nello sviluppo dell'economia italiana fu
veramente notevole. Tale interpretazione è stata, successivamente, adottata con
alcune modifiche anche dall'economista Augusto Graziani. Secondo Graziani, infatti, lo sviluppo degli anni cinquanta, che aveva tratto impulso dalla crescente liberalizzazione del commercio
estero, aveva determinato il consolidamento di un dualismo industriale tra
settori orientati verso i mercati esteri, e settori volti, invece, a soddisfare
prevalentemente la domanda interna, finendo con l'accentuare le forme di
dualismo territoriale, data la maggiore concentrazione dei primi nelle regioni
centro-settentrionali.
In pratica, “i settori che producono
per il mercato di esportazione hanno necessità di presentare prodotti
competitivi sui mercati esteri (o, che è lo stesso, divengono settori
esportatori solo se realizzano una sufficiente competitività). I settori
esportatori devono quindi realizzare i livelli di produttività e di efficienza
necessari per affrontare la concorrenza sui mercati esteri. Non così accade per
i settori che lavorano per il mercato interno, i quali, al riparo della
concorrenza estera, non sono vincolati ad alcun particolare livello di
efficienza e di produttività”. Il modello interpretativo di Graziani è stato
sottoposto a critiche per l'eccessivo peso che in esso assume la concorrenza estera.
Le
esportazioni
Le esportazioni a più alto valore
aggiunto erano, poi, cresciute a ritmi ancora più sostenuti: di 4,5 volte
quelle meccaniche, quasi quadruplicate le chimiche. Era diminuito, invece, da
circa un terzo a un quinto il peso delle esportazioni alimentari. Pertanto, le
esportazioni di prodotti meccanici e chimici, che all'inizio del periodo erano
pari all'84,5% delle esportazioni tessili e al 28,7% di quelle totali,
assumevano a fine periodo valori pari, rispettivamente, al 161% e al 33,3%.[senza fonte] Nell'ambito
del settore meccanico i maggiori incrementi riguardavano i prodotti finiti
e, in particolare, le macchine da
scrivere e da calcolo. Per il tessile la
situazione era andata invece peggiorando nei primi anni cinquanta con
l'accentuarsi della concorrenza internazionale e la perdita di alcuni mercati
tradizionali come quelli dell'America del Sud.
Nel corso del 1954 la bilancia
commerciale tessile si era volta al passivo ma, in compenso, tale andamento
aveva prodotto l'effetto di accelerare il processo di rinnovamento degli
impianti e di riorganizzazione del lavoro anche se continuavano a convivere,
dando sovente vita ad un «reticolo interno» di rapporti economici, “da una
parte, i colossi da 1000 e più dipendenti; dall'altra, le piccole aziende
industriali e artigiane, spesso con meno di dieci dipendenti, e una schiera di
lavoranti a domicilio”.[senza fonte]
Circa la destinazione delle nostre
esportazioni, durante il decennio cinquanta si era consolidata l'importanza dei
paesi europei verso cui era diretto il 62,3%, mentre il continente americano ne
assorbiva il 20%. Al loro sviluppo continuo aveva certamente contribuito il
positivo andamento dell'economia internazionale che favorì sia l'esportazione
dei beni di consumo sia quella di beni strumentali, sorrette entrambe da una
forte competitività e da una crescente specializzazione che avevano concorso a
modificare la struttura delle correnti di esportazione, a vantaggio dei
prodotti finiti industriali.
Le
importazioni
Nello stesso periodo l'incidenza
delle importazioni era cresciuta dal 10,6% al 16,6% sul complesso delle
risorse disponibili e dal 9,2% al 16,5% rispetto alla domanda globale. Il loro
valore complessivo era aumentato da 926 a 2.951 miliardi di lire, con un incremento annuo regolare,
interrotto solo dal breve ciclo coreano e dalla flessione registrata tra il
1957-1958 in corrispondenza alla sfavorevole congiuntura registrata negli Stati Uniti e in altri
paesi europei. Le importazioni di generi alimentari erano diminuite dal 20,4%
al 16,7%, in relazione al crescente peso delle attività industriali e al
generale miglioramento del tenore di vita della popolazione che erano, anche,
alla base dell'incremento, dal 60,3% a 67,3%, delle importazioni di prodotti
non agricoli e di materie prime industriali.
Inoltre, in relazione ai differenti
ritmi di sviluppo che caratterizzavano i vari settori di attività, la
composizione merceologica delle materie prime metteva in evidenza il
progressivo ridimensionamento di quelle tessili ed un maggior peso di quelle
impiegate nei settori meccanico e petrolchimico. Anche per
le importazioni si era registrata una maggiore intensità degli scambi con gli
altri paesi europei; in particolare, la percentuale di acquisti dagli altri
paesi della comunità era cresciuta dal 17% al 27%, mentre erano
progressivamente diminuite le importazioni dagli Stati Uniti.[senza fonte]
Il punto
debole dell'economia italiana durante il boom
Il punto più debole dell'economia
italiana era quello rappresentato dall'agricoltura. Le aziende
caratterizzate da una scarsa produttività o ai margini di un'economia di
sussistenza erano quasi il 60% del totale e le piccole imprese familiari
avevano continuato ad ampliare la loro presenza senza dar luogo ad adeguate
forme associative nella produzione e nel collegamento con i mercati. In
pratica, circa l'80% della superficie coltivata era distribuita fra 2 milioni e
mezzo di unità aziendali, di cui 2 milioni con dimensioni inferiori ai 5
ettari.
A rendere quanto mai precaria la
situazione della nostra agricoltura stava poi il fatto che le terre più fertili
riguardavano poco più di un terzo della superficie coltivata ed erano
prevalentemente concentrate in Val Padana, mentre
quelle povere o mediocri rappresentavano un carico variabile tra il 60% e il
65% della popolazione agricola attiva e si dividevano un reddito equivalente
a non più del 33% della popolazione nazionale.
Fatto sta che soltanto tra il 1960 e
il 1962 si cominciò a affermare, in sede politica, l'esigenza
di introdurre dei correttivi, di attuare alcuni provvedimenti che evitassero un
peggioramento del divario fra Nord e Sud, assecondassero l'ammodernamento
dell'agricoltura per sanare il deficit della
bilancia agro-alimentare e ponessero un freno alle speculazioni immobiliari
cresciute a dismisura nelle principali aree urbane in seguito
alla forte domanda di alloggi da parte degli immigrati; e, non da
ultimo, rimuovessero posizioni ormai intollerabili di dominanza oligopolistica
nel settore elettrico e in vari servizi di interesse collettivo.
Il divario
fra Nord e Sud
La prevalente concentrazione
industriale e delle condizioni di maggiore produttività agricola e terziaria
nel Nord del paese continuava, però, ad alimentare situazioni di forte divario
territoriale, cariche di implicazioni sociali oltre che economiche. Durante il
decennio cinquanta il tasso annuo di crescita dei redditi pro capite era stato
pari al 5,3% nell'Italia centrosettentrionale e al 3,2% nel Mezzogiorno. In
presenza di un basso livello di industrializzazione, lo sviluppo del settore terziario in Meridione discendeva dall'eccesso di forza lavoro,
generalmente senza alcuna qualificazione, che dava luogo ad un moltiplicarsi di
attività precarie e scarsamente produttive e determinava una lievitazione delle
cifre relative al prodotto delle attività terziarie, cui non corrispondeva però
un effettivo stabile sviluppo dei servizi necessari al funzionamento di una
società industrialmente avanzata.
Anche l'integrazione sui mercati
internazionali aveva finito col rafforzare i caratteri del divario territoriale
perché gli sforzi volti ad acquisire una maggiore competitività avevano
interessato soprattutto le aziende proiettate sui mercati internazionali e
concentrate prevalentemente nel Nord del paese. Inoltre, le particolari
dinamiche occupazionali avevano comportato che i redditi da lavoro crescessero
nell'industria più che
negli altri settori di attività e che la loro distribuzione geografica presentasse
caratteristiche di forte concentrazione solo in parte giustificate dalla
diversa consistenza demografica.
Quattro regioni settentrionali (Piemonte, Valle d'Aosta, Liguria e Lombardia), infatti,
assorbivano nel 1960 un volume di redditi da lavoro (4.099 miliardi) praticamente
doppio rispetto a quello (2.088 miliardi) riferibile a sette regioni
centro-meridionali (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna). Le cose,
peraltro, non sarebbero cambiate di molto neanche dieci anni più tardi e il
carattere dualistico del nostro sistema economico trova una puntuale conferma,
ovviamente anche facendo riferimento a questo fenomeno. Il divario
territoriale, che investiva i vari aspetti della vita economica, si manifestava
anche in quelli più propriamente demografici.
Negli anni cinquanta la popolazione italiana aveva registrato un incremento medio annuo del 6
per mille, con un andamento decrescente della natalità e della mortalità che
evidenziava un allineamento con i valori già da tempo registrati in altri paesi
europei. Tuttavia, i diversi tassi di natalità e di mortalità, dovuti anche
alla differente struttura per età della popolazione, configuravano una sorta di
«dualismo demografico». Tra il censimento del 1951 e quello del 1961,
l'incremento demografico era stato pari a circa 3 milioni, ma esso era stato
Stato più sostenuto nelle regioni centro-settentrionali che non in quelle
meridionali, nonostante queste ultime avessero registrato un più elevato tasso
di natalità ed un più basso tasso di mortalità. Gli effetti dei flussi migratori, interni e verso l'estero, erano stati infatti superiori a quelli del
movimento naturale, influenzando in modo decisivo la distribuzione geografica
della popolazione, in stretta connessione con l'evoluzione delle vicende
economiche.
Gli spostamenti interni avevano
accentuato il livello di concentrazione demografica nelle città capoluogo di provincia
la cui quota di popolazione era aumentata dal 28,2 al 31,9%, e il fenomeno era
ancor più evidente al Nord dove la percentuale era aumentata dal 33,2 al 41,6%.
In sostanza si era consolidato, tra il 1951 e il 1961, quel processo di intensa
urbanizzazione che aveva interessato il paese fin dalla sua
unificazione ed a cui si contrapponeva, invece, il progressivo spopolamento
delle zone montane. Nel decennio in esame, infatti, il tasso medio annuo di
crescita della popolazione residente registrato nei tredici centri urbani più
popolosi era pari al 21,7 per mille, più che triplo rispetto a quello generale (6,4
per mille). A conferma della inadeguatezza delle riforme attuate fin
dall'inizio degli anni cinquanta, la crescita del fenomeno migratorio era
divenuto un inarrestabile richiamo per masse diseredate e che erano appena
approdate a godere delle opportunità loro offerte dalla riforma agraria e dalle opere infrastrutturali promosse dalla Cassa per il
Mezzogiorno.
Ma quegli orizzonti, un tempo
soddisfacenti se confrontati all'endemica miseria precedente, ora non erano più
senza alternative: l'occupazione al Nord rappresentava quindi un'attrattiva
fortissima, tanto da superare gli ostacoli frapposti da una cultura secolare
ostile a quelle migrazioni. Di fatto, i due milioni di ettari che,
attraverso la riforma agraria e i vari incentivi fiscali e creditizi, erano
stati acquisiti dalla piccola proprietà coltivatrice, a metà degli anni
sessanta, tra abbandoni e successivi passaggi di proprietà, si sarebbero
ridotti a circa 600 000 ettari, con un assottigliamento progressivo del
numero di aziende condotte dagli assegnatari originari. Dunque, nonostante la
piccola proprietà coltivatrice avesse raddoppiato tra il 1919 e il 1961 la
propria estensione, raggiungendo i 10 milioni di ettari, tale sviluppo ha significato
spesso un'ulteriore espansione delle basi di insediamento di quelle vere e
proprie «centrali di smistamento del lavoro» che sono state le famiglie contadine.
Le
migrazioni
Un'importante conseguenza di questo
processo fu l'imponente movimento migratorio avutosi negli anni sessanta e anni settanta. È stato
calcolato che nel periodo tra il 1955 e il 1971, quasi 9.150.000 persone siano
state coinvolte in migrazioni interregionali; nel quadriennio 1960-1963, il flusso
migratorio dal Sud al Nord raggiunse il totale di 800.000 persone all'anno.
Gli anni sessanta furono,
dunque, teatro di un rimescolamento formidabile della popolazione italiana. I
motivi strutturali che indussero prevalentemente la popolazione rurale ad
abbandonare il loro luogo d'origine furono molteplici e tutti avevano a che
fare con l'assetto fondiario del Sud, con la scarsa fertilità delle terre e con
la polverizzazione della proprietà
fondiaria, causata dalla riforma agraria del dopoguerra che aveva espropriato i latifondisti e che aveva
suddiviso la proprietà terriera in lotti troppo piccoli. Ai fattori strutturali
si accompagnarono quei fattori nelle Regioni del triangolo
industriale.
Le
ripercussioni sociali
Il 18 gennaio 1954, nelle battute
iniziali del miracolo economico, il ministro dell'economia Ezio Vanoni predispose
un piano per lo sviluppo economico controllato che, negli intenti del Governo,
avrebbe dovuto programmare il superamento dei maggiori squilibri sociali e
geografici (il crollo dell'agricoltura, la profonda differenza di sviluppo tra
Nord e Sud); ma questo piano non portò ad alcun risultato. Le indicazioni che
vi erano contenute in materia di sviluppo e di incremento del reddito e dell'occupazione, si
basavano su una previsione fortemente sottostimata sul ruolo che avrebbe dovuto
giocare il progresso tecnologico e l'incremento della produttività del lavoro
che ne sarebbe derivato.
Quelle previsioni furono, quindi,
travolte da un processo d'espansione, ben lungi da quel ristagno che il piano
Vanoni metteva nel conto delle previsioni. Proprio perché non previsto, e per
mancanza di un incanalamento regolato della crescita, il processo di espansione
portò con sé gravi squilibri sul piano sociale. Il risultato finale fu quello
di portare il «boom economico» a realizzarsi secondo una logica tutta sua, a
rispondere direttamente al libero gioco delle forze del mercato e a dar luogo a
profondi scompensi. Il primo di questi fu la cosiddetta distorsione dei consumi.
Una crescita orientata
all'esportazione determinò una spinta produttiva orientata sui beni di consumo
privati, spesso su quelli di lusso, senza un corrispettivo sviluppo dei consumi
pubblici. Scuole, ospedali, case, trasporti, tutti beni di prima necessità
restarono infatti parecchio indietro rispetto alla rapida crescita della
produzione di beni di consumo privati. Il modello di sviluppo sottinteso al
«boom» implicò dunque una corsa al benessere tutta incentrata su scelte e
strategie individuali e familiari, ignorando invece le necessarie risposte
pubbliche ai bisogni collettivi quotidiani.
Consumismo
Gli anni della grande espansione
furono anche teatro di straordinarie trasformazioni che riguardarono lo stile
di vita, il linguaggio e i costumi degli italiani, accompagnati da un deciso
aumento del tenore di vita delle famiglie italiane. Nelle case delle famiglie
di quanti potevano contare su uno stipendio e un posto
di lavoro stabile cominciavano a far ingresso numerosi beni di consumo durevoli, come le prime lavatrici e frigoriferi (la cui
produzione era svolta soprattutto da imprese italiane di piccole e medie dimensioni).
Anche le automobili cominciavano a diffondersi sulle strade italiane con
le FIAT 600 e 500, in
produzione rispettivamente dal 1955 e dal 1957 e progettate ex novo da Dante Giacosa, che diede
grande impulso alla produzione della casa torinese.
Si costruirono anche le prime
autostrade di moderna concezione, dopo quelle costruite già sotto il fascismo (come l'Autostrada
dei Laghi e l'Autostrada
Firenze-Mare) ed a partire dalla Milano-Napoli, l'Autostrada
del Sole. Con le nuove vetture e lo sviluppo
delle strade ed autostrade iniziarono inoltre le abitudini delle vacanze estive ed
invernali, sulle spiagge e sulle montagne, con i primi relativi ingorghi e
l'aumento vertiginoso di incidenti stradali. Tuttavia, nessuno strumento ebbe
un ruolo così rilevante nel mutamento delle abitudine della società quanto la televisione, che entrò
nelle case degli Italiani nel 1954 dopo circa vent'anni di sperimentazioni.
Progressivamente essa impose un uso
passivo e familiare del tempo libero a scapito delle relazioni di carattere
collettivo e socializzante che, alla lunga, avrebbe modificato profondamente i
ruoli personali e gli stili di vita oltre che i modelli di comportamento, anche
se sulle prime, a causa dello scarso numero di apparecchi presenti sul
territorio nazionale, favorì tuttavia l'instaurazione di nuove occasioni
d'incontro: celebri le folle che si radunavano nei bar ad ogni puntata del
gioco a premi Lascia o
raddoppia? condotto da Mike Bongiorno. Le trasmissioni ufficiali della Rai iniziarono il 3 gennaio 1954: i
televisori, allora, erano appena 15 000, e un televisore “economico”
costava circa 200 000 lire e il primo canone di abbonamento venne fissato
a 12 550 lire, il più alto d'Europa.
In concomitanza con l'aumento dei
beni di consumo, andavano crescendo i consumi d'energia elettrica per uso domestico; dopo l'integrazione dal 1958 nel gruppo Stet delle
società concessionarie e l'avvio del servizio di teleselezione, la densità
degli apparecchi risultava nelle principali città del Nord pressoché pari alla
media di altri paesi occidentali. Fatto sta che tra il 1952 e il 1958, mentre i
consumi privati in generi di sussistenza e di prima necessità aumentarono ogni
anno del 4,4%, l'acquisto di mezzi di trasporto, di apparecchi televisivi e
altri prodotti di carattere voluttuario crebbe rispettivamente dell'8,5% e
dell'11,5%.
I notevoli progressi economici
susseguitisi nella seconda metà degli anni cinquanta sorpresero gran parte della classe politica. Di fatto, non si erano
valutati in tutta la loro portata gli effetti che avrebbero prodotto le
innovazioni tecnologiche adottate man mano dai principali complessi
industriali. Inoltre non si erano percepite, o valutate in pieno, le
trasformazioni avvenute in alcune regioni centrali e nord-orientali del paese,
dove si era andato formando un ceto di piccoli imprenditori e di artigiani
specializzati. D'altra parte, grazie al recupero della stabilità monetaria, era
affluito un crescente volume di depositi nelle banche e nelle casse di
risparmio e perciò si erano ampliate le possibilità di ricorrere senza
eccessivi problemi a quel tanto di prestiti in denaro contante che serviva a
mettere su un'attività in proprio.
La commedia
italiana
Una testimonianza per tanti aspetti
pregnante su questa fase di transizione, segnata dall'intreccio ibrido fra la persistenza
di consuetudini arcaiche e l'irruzione di mode e usanze orecchiate dall'estero,
la si può ritrovare nella cosiddetta “commedia
all'italiana”, che cominciò a imporsi dalla fine
degli anni cinquanta. Il più celebre esempio di commedia all'italiana apparve
nelle sale cinematografiche nel 1960 con un grande film girato da Federico Fellini, intitolato La dolce vita.
Si trattava infatti di un genere cinematografico che per tanti versi era l'espressione e lo specchio di una società
ambivalente, in bilico fra il vecchio e il nuovo, di una società in parte
ancora sparagnina e frugale, in parte proiettata verso il consumismo con
l'appetito dell'adolescente; in parte, provinciale e codina, attardata su viete
convenzioni, in parte alla rincorsa di tutto ciò che sapesse di moderno anche
nei suoi aspetti più superficiali ed eclatanti. Era cominciata l'era dello spettacolo,
dei cantautori e dei concerti rock.
Le
condizioni di vita della popolazione
Lo sviluppo di quegli anni era
accompagnato da un miglioramento generale delle condizioni di vita della
popolazione sostenuto dalla crescita dei consumi privati che, tra il 1950 e il
1962, avevano registrato un tasso di sviluppo “di entità mai sperimentata in
precedenza”, pari al 4,9% annuo (6,6% nell'ultimo triennio). Sebbene tale
saggio di incremento fosse più basso di quello registrato dalle altre
componenti della domanda finora passate in rassegna, il che chiama in gioco le
complesse dinamiche connesse con la crescita e la distribuzione della ricchezza
prodotta nonché le politiche che le regolano, i consumi continuavano a
mantenere un peso notevole nell'ambito della destinazione delle risorse e di
questo, naturalmente, le aziende non potevano non tenerne conto specie in
relazione alla esigenza di una maggiore competitività derivante dalla
progressiva apertura dei mercati internazionali.
Le dinamiche demografiche, con i connessi
aspetti dell'inurbamento, ed il sostenuto aumento dei redditi pro capite,
facevano sì che la crescita dei consumi fosse accompagnata da significative
modifiche nel modello di spesa. Il confronto per tipologia di consumo tra
l'inizio e la fine degli anni cinquanta metteva, infatti, in risalto una minore
incidenza dei generi alimentari, tabacchi e abbigliamento (da 60,4 a
50,8%), a vantaggio della spesa per abitazioni (da 5,9% a 8,7%), mobili (da 7%
a 8%), istruzione e spettacoli (da 7,3% a 8,2%) e, soprattutto, trasporti e comunicazioni (da 4,7 a
8,4%). Inoltre, la quota dei consumi durevoli era aumentata dal 3,8% all'8,3%
e, in particolare, il numero delle autovetture in circolazione era passato, nel
decennio 1951-1961, da poco più di 425 000 a 2,45 milioni di unità, un
salto notevole - pur in presenza di notevoli divari tra una regione e l'altra -
verso la motorizzazione di massa se si pensa che tra il 1931 e il 1951
l'aumento era stato di appena 240 000 unità.
Assumeva, quindi, ulteriore significato
la centralità assunta, nell'ambito dello sviluppo di quegli anni, dal settore
meccanico dal momento che “la diffusione dei beni di consumo durevole, automobili
ed elettrodomestici, ha rappresentato non solo un elemento trainante per
l'economia nel suo complesso ma anche un fattore di più profonde trasformazioni
sociali e culturali”. L'incremento dei consumi era stato reso possibile dalla
continua crescita dell'occupazione e, quindi,
dei salari che dal 1950 al 1960 erano aumentati del 142%, così come era
aumentata la loro quota sul reddito nazionale netto (dal 44,1 al 47,9%).
In particolare, i redditi da lavoro
dipendente erano passati da 4.503 a 8.977 miliardi di lire tra il 1952 e il
1960; si trattava di “una massa imponente di risorse, la cui manovra e le cui
modificazioni, derivate essenzialmente dalla politica dei sindacati, influisce
piuttosto notevolmente, come del resto la realtà ha mostrato, sull'intero
sistema economico”. Inoltre si è notato che gli italiani erano diventati più
alti: fra il 1951 e il 1972 la statura media passo da 170 a 174 cm. Anche
nel settore del tempo libero ci furono profonde trasformazioni. Dal 1956 al 1965
raddoppiarono le presenze negli alberghi e quelle
nei campeggi aumentarono
di quattro volte. Le vacanze divennero così uno dei simboli del boom, e chi ci
andava poteva sperimentare le ultime novità in materia di sport, come lo sci nautico.
La psicologia
collettiva
Ancora
forte era tuttavia l'influenza, nei costumi e nella psicologia collettiva, di una cultura
popolare tipica del mondo contadino e di certi valori e rituali tradizionali. I
legami di parentela, le reti di solidarietà
familiare, la raccomandazione del parroco o del
notabile di turno, la proverbiale arte di arrangiarsi e la ruvida furbizia
ereditata dalla gente di campagna, il controllo sociale esercitato dal vicino,
continuavano a segnare un po' dovunque la vita e i modelli di comportamento
individuali. Quella che stava avvenendo nella penisola in quegli anni era, in
sostanza, una trasformazione per certi aspetti rivoluzionaria sul piano
strutturale, ma assai più circoscritta sul piano culturale
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