Era quello il second'anno di raccolta scarsa.
Nell'antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito,
fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né
affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo
con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera
della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non
solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per
colpa degli uomini. Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella
guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello
stato più vicina ad essa, molti poderi più dell'ordinario rimanevano incolti e
abbandonati da' contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé
e per gli altri, eran costretti d'andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più
dell'ordinario; perché le insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e
con un'insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena
pace, delle truppe alloggiate ne' paesi, condotta che i dolorosi documenti di
que' tempi uguagliano a quella d'un nemico invasore, altre cagioni che non è qui
il luogo di mentovare, andavano già da qualche tempo operando lentamente quel
tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora
parliamo, erano come una repentina esacerbazione d'un mal cronico. E quella
qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per
l'esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal
vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso,
ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.
Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o
almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini,
pensate in quel tempo!), nasce un'opinione ne' molti, che non ne sia cagione la
scarsezza. Si dimentica d'averla temuta, predetta; si suppone tutt'a un tratto
che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza
per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che
lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl'incettatori di grano, reali o
immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i
fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai,
o che avessero il nome d'averne, a questi si dava la colpa della penuria e del
rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l'abbominio della
moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov'erano i magazzini, i
granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s'indicava il numero de' sacchi,
spropositato; si parlava con certezza dell'immensa quantità di granaglie che
veniva spedita segretamente in altri paesi; ne' quali probabilmente si gridava,
con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano
a Milano. S'imploravan da' magistrati que' provvedimenti, che alla moltitudine
paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici,
così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano,
e a far ritornar l'abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di
stabilire il prezzo massimo d'alcune derrate, d'intimar pene a chi ricusasse di
vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di
questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il
bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in
ispecie non avevan certamente quella d'attirarne da dove ce ne potesse essere di
soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un
tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de' rimedi, e ne sollecitava ad
alte grida de' più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l'uomo secondo
il suo cuore.
(A. Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. XII)
Nessun commento:
Posta un commento