L’amministrazione USA persegue con determinazione una politica di “reshoring”: il ritorno della
manifattura industriale in America, per ridare vigore alle fabbriche
statunitensi, mantenendo la tecnologia nel paese e ricostruendo una base
industriale; i dati di GDP/PIL ed occupazione confermano la validità del
percorso avviato, che sarà lungo e non privo di tensioni con “partners” (ancora
per quanto “partners” e non “nemici”?), utilizzando strumenti vecchi ma sempre
efficaci: dazi, tariffe, interventi fiscali (come una riduzione, che potrebbe
divenire cancellazione, di misure come l’ Alternative Corporate Taxation che
consente la sostanziale esenzione fiscale degli utili trattenuti all’estero da
parte di multinazionali statunitensi: “Apple docet”).
La politica è chiara: contrastare la
Cina, accusata di varie colpe: concorrenza sleale, appropriazione di
segreti industriali americani, utilizzo di pratiche illegali, sostegno indebito
da parte dello stato alle imprese cinesi. L’obiettivo è ricostruire le filiere
industriali, oggi “smontate” con produzioni sparse in paesi lontani dove il più
importante vantaggio competitivo, spesso l’unico, è il più basso costo del
lavoro, riportando quanta più produzione possibile negli USA. Dobbiamo pensare ad uno tsunami sulla
struttura della competizione industriale, con risultati ancora poco
immaginabili ma sufficientemente delineati: avremo catene e filiere che
lavoreranno o per l’industria statunitense o per quella cinese, senza scambi reciproci
significativi, ma anzi in feroce competizione. Due poli che eserciteranno tutta
la loro capacità attrattiva nei confronti dei paesi terzi: e noi siamo fra
quelli.
Lo scontro è destinato a crescere di intensità, e “stare fermi nel mezzo”
non sarà possibile per gli altri “players”, che saranno chiamati ad abbracciare
la causa industriale dell’uno o dell’altro dei contendenti, col risultato che
non avremo probabilmente, in futuro, una globalizzazione mondiale ma una “globalizzazione bipolare” dove USA e Cina
saranno i poli di attrazione di paesi terzi in una posizione “ancillare” e
subalterna, dal punto di vista tecnologico ed industriale. Un cambio
epocale e cruento.
Che cosa farà
l’Europa? Si adeguerà alla manovra messa in campo dall’amministrazione USA,
così ridefinendo il suo modo di fare industria? O cercherà una improbabile
terza via? Ma l’Europa vuole (ancora) fare industria o si culla in un nirvana
di declino inesorabile?
Domande a cui l’Europa (nell’accezione di paesi-UE) non ha ancora dato risposta,
e chissà se sarà in grado di dare.
Il dibattito è assente; ma non possiamo dimenticare che alla fine del
decennio passato la re-industrializzazione dell’Europa era al centro
dell’attenzione del Consiglio europeo: far crescere la quota dell’attività
industriale dal 15% sul PIL attuale al 20% in pochi anni.
Il peso dell’industria industriale nei paesi UE è costantemente diminuito
dal 2000, quando pesava per il 26% sul PIL europeo; tale evoluzione è stata
variegata fra i principali paesi: la Germania è rimasta stabile (22,5% nel 2000, 23% nel 2013), mentre per
Italia (20% nel 2000, 15,5% nel 2013), Francia (15% nel 2010, sceso al 10%),
Spagna (18% nel 2000, sceso al 13%) e UK (16% nel 2000, sceso al 10%) il peso
dell’industria sul PIL è diminuito in modo significativo.
A livello mondiale, il quadro è chiaro: l’Europa aveva una quota
dell’attività manifatturiera mondiale del 31% nel 2000 ed è scesa al 22%; gli
USA, nello stesso periodo, sono passati dal 27% al 17% e la Cina è cresciuta
dal 10,5% al 22%.
Nella “Relazione sulla competitività
2013: senza l’industria non ci saranno né crescita né nuova occupazione” la
UE ha a suo tempo individuato le ragioni per mantenere una "dimensione
critica" delle attività manifatturiere nelle economie europee, i vantaggi
comparativi dell'UE che devono essere mantenuti e migliorati, le debolezze
strutturali a lungo termine che devono essere affrontate nel settore
manifatturiero (rinviamo al documento http://ilblogdisodocaustico.blogspot.com/2014/12/una-proposta-per-il-semestre-europeo.html
). A tali ottime ragioni si aggiunge ora la necessità di “prendere una
decisione” nel conflitto epocale fra USA e Cina, pena l’estinzione rapida e
dolorosa delle nostre economie industriali.
Nei decenni trascorsi l’Europa ha progressivamente ridotto la sua capacità
produttiva, e quindi visto ridursi, di conseguenza, la sua capacità di innovare
e creare nuove tecnologie (come semplice esempio, si osservi la sostanziale
assenza di “player” europei nel settore TLC).
Come primo passo, riteniamo essenziale “re-industrializzare”:
ri-costruire nuova impresa; in tale contesto, per consentirla, un primo tema
importante è il recupero di migliaia di terreni e siti prevalentemente
industriali non più utilizzati per l’attività manifatturiera.
Nella UE si stima che ci siano oltre 20.000 aree industriali dismesse che
presentano criticità per il livello di contaminazione ambientale; L’Agenzia
Europea per l’Ambiente (EEA) stima che in Europa vi siano complessivamente
250.000 siti contaminati e 3.000.000 di siti potenzialmente contaminati, per il
70% a causa di utilizzi a fini militari ed industriali (prevalentemente,
acciaierie, lavorazione di metalli ed impianti chimici).
La seconda “parola d’ordine” della UE è allora: “riqualificare”.
Programmi “sponsorizzati” dalla UE (FESR, TIMBRE, ..) sono stati avviati
per sostenere azioni innovative per lo sviluppo urbano sostenibile, con risorse
finanziarie limitate, se rapportate alla complessità e vastità del fenomeno. La
proposta formulata dalla Commissione UE in sede di presentazione del Quadro
Finanziario 2014-2020 indicava lo stanziamento di 336 miliardi di euro a favore delle regioni europee, destinatarie
del programma FESR. Dalle proposte alle azioni gli stanziamenti spesso
scompaiono e comunque vengono ridimensionati.
Molto resta da fare; in assenza di dati puntuali (causa l’assenza di
appropriati “database”), si possono fare delle stime assai grossolane;
limitatamente alla valutazione dei soli costi derivanti da inquinamento
atmosferico (una frazione dell’inquinamento complessivo), l’EEA stima un valore
compreso fra 102 e 169 miliardi di
euro; gli interventi sul suolo, prevedibilmente, potrebbero essere un multiplo
di tale valore.
Per iniziare, si tratta di somme enormi che oggi sono “fuori budget” della
UE.
Ma se non si agisce ora, il risultato sarà duplice: la perdita di posizione nella filiera industriale occidentale,
volendo ben immaginare che l’Europa vorrà adeguarsi al “nuovo corso” indicato
dall’amministrazione USA; ed un
progressivo inevitabile degrado del territorio europeo, con un “patrimonio”
destinato ad accumulare “deficit ambientale”, abbandonato, senza immediate
prospettive di utilizzo, che richiede costi (talora elevati) per la sua mera
“custodia”.
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