martedì 11 dicembre 2018

Globalizzazione: una dolce mela Golden o la mela avvelenata della strega di Biancaneve?


Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24ore l'11.12.2018


I consumatori mondiali ringraziano per i dolci frutti della globalizzazione: ampia gamma di prodotti offerti a prezzi competitivi, spesso “stracciati” rispetto ai prezzi vigenti ante-globalizzazione; accesso a servizi una volta riservati ai ricchi, come viaggi turistici aerei verso località straniere. Settori una volta dominati da “player” nazionali e strutturati come mercati nazionali hanno assunto una dimensione ed una struttura sovra-nazionale e globalizzata. 

“The name of game” è globalizzazione. 

Ma ci sono una “buona” globalizzazione ed una “cattiva” globalizzazione?

Per i “buonisti” la globalizzazione dovrebbe rispondere ed assicurare criteri razionali e generali, quali:

(a)  Un insieme di regole condivise sulla buona produzione e sul buon commercio, tali da assicurare ai lavoratori, indipendentemente dai paesi dove lavorano e vivono, condizioni almeno equivalenti in termini di sicurezza ed accesso a servizi basilari (sanità, igiene, …); 

(b)  Un equilibrio fra chi sviluppa tecnologie e chi le utilizza; in termini macro-economici, si parlerebbe del principio di equivalenza fra ricavi marginali e costi marginali: il produttore avrà convenienza a produrre nel paese A, e non nel paese B, sino a quando i vantaggi saranno superiori agli svantaggi; superato tale rapporto, per il produttore sarà più conveniente andare a produrre nel paese B;

(c)  La globalizzazione si basa su una valutazione, e quindi decisione, dei vantaggi competitivi dei sistemi-paese: sviluppare nuove tecnologie è più efficiente ed efficace in paesi come USA od Israele, dove il fattore capitale ed il fattore intelligenza sono largamente disponibili e quindi utilizzati nel modo più adeguato; produrre in paesi asiatici dove il fattore lavoro è più economico diviene elemento discriminante per produzioni ad elevata intensità di lavoro, a minor costo comparato;

(d)  L’accesso dei consumatori ad una gamma ampia di prodotti e servizi, indipendentemente da chi li fornisce e dove questi sono forniti;

(e)  Il rispetto, in sintesi, del concetto di “level playing field”: le stesse regole valgono per tutti i giocatori.

Il consumatore italiano dovrebbe quindi essere assai felice di andare a fare la spesa e comprare il tablet o lo smartphone di ultima generazione ad un prezzo oggi molto più basso e non comparabile con il prezzo pagato 10 o 20 anni fa, e lo stesso vale per un bel giubbotto in goretex, un cappotto all’ultima moda, una paio di scarpe hi-tech; ma qualora il nostro consumatore fosse divenuto disoccupato a seguito della chiusura, per trasferimento della produzione in Asia, dello stabilimento dove lavorava cucendo il cappotto che ora viene cucito da un lavoratore asiatico, alla felicità si sostituisce repentinamente lo scoramento per la nuova condizione, e molte domande vengono a galla sulla bontà, o meno, di questa globalizzazione.

Fino a che punto i vantaggi della globalizzazione superano, a livello generale (più difficile valutare a livello individuale), gli svantaggi

Tale valutazione è oggettiva, o può risultare inficiata dalla posizione occupata lungo la piramide sociale di chi la effettua, divenendo così soggettiva?

Quello che abbiamo sotto gli occhi non è nuovo; è una situazione che già in passato si è presentata all’umanità; ci limitiamo qui ad un rapido riferimento alla storia di coltivazione, produzione, commercializzazione del cotone, mirabilmente delineata e descritta ne “L’impero del cotone” di Sven Beckert.
E restando nel settore del tessile e della moda, così cruciale per il nostro paese tanto da essere definito come il più tipico “made in Italy”, troviamo ampia materia di esame e valutazione dalla visione del recente servizio televisivo “Pulp Fashion” di “Report” su Rai3 https://www.raiplay.it/video/2018/11/Report-6d90e087-47b1-453c-af0c-4003cb119c13.html
Chi avesse la benevolenza di vedere il servizio scoprirebbe una realtà assai diversa da quella evocata dai “buonisti”; scoprirebbe infatti che nelle fabbriche cinesi che hanno sostituito le officine italiane ed europee le condizioni di lavoro, sanitarie, di sicurezza sono assai lontane dai proclami contenuti nelle brochure delle “grandi marche” che dispensano sostenibilità della produzione, rispetto per l’ambiente, lavoratori trattati coi guanti bianchi, utilizzo di materiali eco-sostenibili e sicuri per i lavoratori ed i consumatori; siamo distanti dagli standard imposti alle fabbriche italiane; ci si ritrova  scaraventati in un girone infernale che ricorda i lontani tempi dei tumulti dei Ciompi di fiorentina memoria medioevale. I grandi marchi della moda italiani, francesi, spagnoli, svedesi, statunitensi hanno delocalizzato le produzioni, ora non più “in-house” ma lasciate ad operatori terzi in paesi (opportunamente) distanti. La controprova arriva da quanto avviene alla fiera che si tiene stagionalmente a Paris le Bourget dove migliaia di espositori presentano i tessuti utilizzati per la realizzazione di capi che verranno venduti nelle maggiori piazze del mondo: su 2.000 espositori, i 2/3 sono asiatici tra cui mille cinesi e solo 2 italiani.

Che cosa resta, allora, del “made in Italy” (come del “prodotto francese”, spagnolo, svedese …) se tessuto e manifattura non vengono più dal nostro paese ma la loro filiera è tutta (o largamente) fatta all’estero? 
Il consumatore che cosa compra? Forse un “sotto il marchio nulla”. 

Scopriamo una “cattiva” globalizzazione che distrugge lavoro di qualità, od almeno a standard accettabili, in paesi avanzati e tradizionalmente produttivi e crea lavoro di bassa, spesso infima, qualità in paesi lontani, con ricadute negative, a breve termine sulle condizioni di lavoro, a medio e lungo termine sulla salute dei lavoratori e sulla qualità dell’ambiente.
Detto in altri termini, per un obiettivo di breve termine le imprese mettono a rischio la sopravvivenza e la sostenibilità a lungo termine. Col concorso, esplicito od implicito, dei governi, delle associazioni di categoria delle imprese e delle burocrazie dei paesi che perdono e dei paesi che acquistano produzioni. Un suicidio annunciato e realizzato, quello della manifattura europea ed italiana in particolare. 

Ci dobbiamo allora porre alcune domande, fra le tante che potrebbero emergere:

1)    Questa situazione è reversibile? È possibile mitigare gli effetti negativi sinora prodotti?

2)    Il “reshoring”, il ritorno in patria di lavorazioni oggi fatte in paesi lontani, è una risposta fattibile e perseguibile? Quanto sta perseguendo l’amministrazione USA è una strada ripetibile per l’Italia e l’Europa? (http://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/11/17/se-non-reindustrializza-europa-rischia-grosso/)

3)    È stato un errore accettare la Cina nel WTO? Siamo stati mal consigliati ed indotti ad accettare nel sistema del commercio mondiale un paese che non rispetta le “regole del gioco”? il danno fatto è rimediabile? In che modo? I governanti europei ed italiani ne sono consapevoli?

4)    Quanto rilevato nel settore tessile e della moda è presente anche in altri settori? Probabilmente la risposta è “sì”: ed allora occorre agire per mettere fine al suicidio della manifattura europea ed italiana; ricordando che l’alternativa non può essere, seppure evocata da truppe cammellate gialloverdi e “gilets jaunes”, il reddito di cittadinanza europeo.

lunedì 3 dicembre 2018

Se il futuro è tecnologico, l’Italia appartiene di diritto al passato.



Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24ore il  3.12.2018 


Nel recente rapporto “Who made the cut?” CB Insights indica 25 “metro area” dove sono presenti I più importanti “hub tecnologici”, fra questi solo 6 sono europei (Amsterdam, Barcellona, Berlino, Londra, Parigi, Stoccolma); come vedremo, gli “hub” più importanti hanno una “potenza di fuoco” senza paragoni con le “cartuccelle” italiche, disperse su 97 incubatori ed acceleratori, 40 parchi tecnologici, 65 spazi di “crowdfunding”: una dispersione di intelligenza, “focus”, risorse, energie e competenze che fotografa la situazione farraginosa, dispersiva, poco focalizzata e povera di risorse finanziarie del nostro paese. Il confronto è impari: i 200 siti italici assorbono meno di un quarto degli investimenti annui fatti nella sola Tel Aviv, una delle piazze più dinamiche ed avanzate nel settore dell’alta tecnologia. Ma più che piangere sulle domestiche debolezze, è meglio esaminare che cosa avviene nel mondo e quali dinamiche virtuose derivano dal lavoro e dalla intelligenza profusa negli “hub” in giro per il mondo.

Accanto ai 6 “hub” europei, tra i primi 25 mondiali troviamo 8 “hub” negli Stati Uniti (accanto alla “mitica” Silicon Valley, ecco Austin, Boston, Denver, Los Angeles, New York, Seattle, Vancouver), 1 in Israele (Tel Aviv), 1 in Brasile (San Paolo), 1 in Australia (Sydney), 1 in Canada (Toronto), 7 in Asia (Mumbai, New Delhi, Bangalore, Pechino, Seul, Shanghai, Tokio), un caleidoscopio della diffusione di innovazione e cultura tecnologica ed industriale. I “pesi massimi” restano Silicon Valley, Boston, Londra, Los Angeles, New York e Tel Aviv; gli “hub” a maggiore crescita includono Austin, Bangalore, Pechino, Berlino, New Delhi, Parigi, Seattle, Shanghai, Tokio, Toronto; a seguire, Amsterdam, Barcellona, Denver, Mumbai, San Paolo, Seul, Stoccolma, Sydney, Vancouver.

Alcuni dati sintetici possono aiutarci ad inquadrare il tema:

1. Dal 2012, nella Silicon Valley ci sono stati 12.000 operazioni che hanno coinvolto imprese tecnologiche, seguita da New York con 5.000; in termini di “funding”, nel periodo gennaio 2012 – maggio 2018, Silicon Valley ha visto una raccolta complessiva di 140 miliardi US$, seguita da Pechino con 75 miliardi US$ e poi New York (36 miliardi US$) e Shanghai (23 miliardi US$);

2. Silicon Valley ha avuto un numero di operazioni di “exit” (disinvestimento con quotazione o vendita a terzi), ciascuna di valore superiore a 100 milioni US$, 4 volte superiore, in numero, a quelle di New York, ed ancora maggiore di quanto fatto a Londra, Los Angeles, Pechino; parlando solo di “unicorn” (le start-up con una capitalizzazione superiore a 1 miliardo US$), Silicon Valley ha sinora “battezzato” 57 “unicorn”, Pechino 29, New York 13 e Shanghai 11;

3. Tel Aviv è l’“hub” più aperto ad investitori esteri, che hanno apportato oltre i 2/3 delle risorse a sostegno di start-up; 1 operazione di “exit” su 7 ha avuto un valore medio superiore a 100 milioni US$; in questa classifica Londra è seconda con il 44% di investitori esteri, seguono Silicon Valley (24%), New York (20%), Boston (16%); Tel Aviv è anche la preferita dagli investitori “corporate” (imprese e “venture capitalists”), con una quota del 25% sul totale raccolto (Silicon Valley è seconda con il 21%, seguita da Boston col 18%);

4. Fra i “pesi massimi”, nel periodo 2012-2017 ogni anno si sono realizzate in media 670 operazioni con un valore annuo totale medio di 38 miliardi US$ (controvalore dei prezzi di vendita e/o IPO); Silicon Valley, nel periodo 2012-2017, ha visto oltre 200 operazioni di “exit” con un valore superiore a 100 milioni US$;

5. Pechino e Shanghai stanno rapidamente scalando la classifica; nel periodo 2012-2017 Pechino ha visto perfezionarsi quasi 500 operazioni e Shanghai oltre 350; il futuro vedrà crescere il loro peso ed il loro ruolo, come quello degli altri “hub” asiatici, sia sui contenuti tecnologici che per i valori in ballo;

6. A Berlino quasi la metà del funding arriva da investitori esteri; Stoccolma ha visto crescere la sua importanza grazie all’IPO di Spotify (una delle più elevate del 2018) ed alla vendita di iZettle (a PayPal), che hanno portato a 648 le operazioni concluse dal 2012.

Il “fattore critico di successo” è la capacità di avere ritorni significativi sugli investimenti iniziali: l’“ecosistema” ha bisogno di vedere entrare il denaro, ma ancor più di vederlo uscire (sotto la forma di vendita, apertura del capitale a fondi ed investitori, quotazione/IPO); le più importanti operazioni di “exit” sono quelle che hanno interessato Facebook (IPO, 104 miliardi US$), Spotify (il più importante “unicorn” europeo, basato a Stoccolma; IPO, 29,4 miliardi US$), JD.Com (IPO cinese, 25,7 miliardi US$), Snap (IPO, 24,8 miliardi US$). In questa classifica, Silicon Valley svetta con 252 “exit” di valore unitario superiore a 100 milioni US$ fatte fra il 2012 ed il maggio 2018, largamente in vantaggio su New York (61), Londra (49), Los Angeles (43), Pechino (34), Boston (23), Tel Aviv (19). Se i primi investitori “guadagnano ed incassano”, maggiori saranno gli incentivi a ripetere operazioni di investimento nelle iniziative degli “hub”.

La tecnologia si “ciba” di finanza, intesa come investimenti da parte di imprese, privati investitori, fondi di private equity e venture capital; le buone idee nascono dove il “mix” fra competenze tecnologiche (le migliori e più dinamiche università, i campus, i “nerd,…) e mezzi finanziari trova il terreno fertile per sviluppare idee e renderle attuabili; la voglia di innovare, inventare, confrontarsi con il mercato è la “sana malattia” che fa crescere l’industria e, in un circolo virtuoso, attraverso le tecnologie rende possibile il “salto di conoscenze e competenze” che rendono possibile e credibile il successo di una nazione e dei suoi (migliori) cittadini, una categoria affatto diversa da quanti vengono ipnotizzati e lobotomizzati dal miraggio desertico del reddito di cittadinanza.


sabato 1 dicembre 2018

We don't need five different Facebooks.

From www.qz.com
Good morning, Quartz readers!
by  Allison Shrager

The specter of monopolies and the threat of concentrated market power are getting renewed attention in the age of Amazon and once-unthinkable massive corporate mergers. Market concentration is being blamed for almost everything that is wrong today, from stagnating wages to the rise of fascism.
There are now fewer firms in the US economy since the 1980s, and they are big. The Council of Economic Advisors estimates market concentration has increased in 75% of industries since the 1990s. The dominance of a few firms conjures images of robber barons from the gilded age, squeezing everyone from consumers to workers. But this is a new gilded age, powered by a more interconnected and global economy. As markets change, so might the ideal structure of companies. With that change comes a new understanding of monopoly power, and a reappraisal of its costs, and even possible benefits.
Traditionally, the problem with monopolies is they stick it to consumers. While market concentration has increased since the 1980s, prices on many goods have not. There are fewer airlines, but the prices of flights (after we adjust for inflation) have fallen. Prices on many consumer goods, like washing machines, food, TVs, and electronics (once you control for quality), have also become more affordable, even as there are fewer manufacturers.
Big firms can also limit competition. It’s true that there are now fewer startups and less entrepreneurship, a trend that started in the 1980s and accelerated after 2000. But if the economy were less competitive, you’d expect firms would become less productive, and the opposite is true. One study estimates that the most concentrated industries are the ones where productivity increased the most. It could be the rewards of success: The firms that innovated may have become more productive and taken a large share of the market.
Market concentration may cause new problems, however. We need the right regulations to solve these new problems, but old solutions could make them worse by undermining how firms innovate and compete in the global market. If the issue is a few big companies, the solution isn’t necessarily more smaller companies. After all, it is not clear the economy, or consumers, would be any better off with five different Facebooks.