sabato 31 gennaio 2015

Saggezza batte Sapere.

"" L'esperienza che si può ricavare dai libri, benchè spesso utile, non è se non della natura del sapere, mentre l'esperienza tratta dalla vita reale è della natura della saggezza; e una piccola dose della seconda vale infinitamente di più che tutta una scorta della prima."" 

(Samuel Smith, Self-Help, 1859, cap. XI, pp. 359-60).

La difficile storia recente della Grecia moderna.



Nell’aprile 2010, al momento della richiesta di un prestito di 30 miliardi di euro al FMI per 3 anni e di un prestito di 80 miliardi di euro alla UE, per totali 110 miliardi di euro pari alla metà del PIL greco, la Grecia presentava alcune debolezze strutturali: alto rapporto deficit/PIL pari al 13,6% nel 2009; rapida crescita del debito pubblico passato dal 100% sul PIL nel 2005 al 148% nel 2010; invecchiamento della popolazione con relative previsioni di aumento delle spese per pensioni e sanità; bassa competitività; capacità di offerta di beni e servizi limitata; istituzioni non favorevoli agli investimenti (IMF Council Report no. 10/110, maggio 2010, p. 1: “Thus, Greece needs a strong and sustained adjustment program to lower the fiscal deficit substantially and create the basis for a declining debt ratio, bring domestic demand in line with domestic supplì capacity, and improve competitiveness so that the economy can step onto a higher growth path””). Date tali debolezze, il FMI sollecitava un programma di aggiustamento fiscale per ridurre il deficit, per invertire la crescita del rapporto debito/PIL, per riallineare la domanda interna alla effettiva capacità di offerta per migliorare la competitività del paese.
Il programma di aggiustamento concordato con il FMI si fondava su 3 punti: 
(a) ripristino della fiducia e garanzia della sostenibilità fiscale, attraverso azioni rivolte a riprendere credibilità sui mercati internazionali permettendo così la ripresa degli investimenti esteri; (b) ripristino della competitività interna attraverso la riduzione dei salari nominali, adottando riforme strutturali che consentissero all’economia greca di attrarre investimenti esteri; 
(c) salvaguardia della stabilità del settore bancario-finanziario dal rischio di disinflazione che avrebbe indebolito i bilanci bancari.
Il primo obiettivo avrebbe comportato un consolidamento fiscale agendo sia sul fronte delle entrate (tasse e lotta alla evasione fiscale) che su quello delle spese (tagli a pensioni).
Il secondo obiettivo avrebbe dovuto focalizzarsi sulla riforma del lavoro attraverso flessibilità e creazione di condizioni favorevoli all’impresa ed agli investimenti, quali liberalizzazioni di servizi pubblici in un mercato interno protetto ed interventi volti all’efficienza del settore pubblico, in particolare la sanità.
In termini concreti, il programma intendeva ristrutturare l’offerta, cercando di attenuare gli effetti depressivi di breve termine derivanti dal consolidamento fiscale e proponendosi di creare condizioni favorevoli alla crescita nel medio termine.
Tra dicembre 2011 e febbraio 2012 venne preparato un “programma di aggiustamento” per gli anni sino al 2014. Nel complesso, la comunità internazionale ha erogato prestiti per 237,5 miliardi pari al 107% del Pil della Grecia sul fondamento che i risultati e gli effetti previsti dalle riforme attese sarebbero state sufficiente garanzia per la concessione di crediti.
Già nel giugno 2011 il parlamento greco aveva approvato un ampio programma di misure per stabilizzare i conti pubblici prevedendo un inasprimento fiscale ed una serie di privatizzazioni che avrebbero consentito un miglioramento della posizione finanziaria di 50 miliardi di euro; seguì, nel febbraio 2012, un ulteriore programma di interventi con la previsione di:
(a) tagli nell’organico dei dipendenti pubblici per 150.000 unità entro il 2015; 
(b) tagli alla sanità ed alla difesa; 
(c) possibilità di revisione dei salari da parte delle imprese compresa una più lasca disciplina sul licenziamento, che faceva seguito al precedente innalzamento dell’età pensionistica da 61 a 65 anni per i dipendenti pubblici. 
Nel corso del 2012 vennero presi ulteriori provvedimenti per assicurarsi il sostegno della comunità internazionale e dimostrare lo sforzo di risanamento, incluso un ulteriore innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni.
La Commissione Europea (“European Commission – Commission Staff Working Document, “Assessment of the 2013 national reform programme for Greece”) se da un lato ha confermato importanti progressi nell’opera di risanamento, dall’altro ha lamentato lentezza ed inadeguatezza delle azioni intraprese “”nella riforma della pubblica amministrazione, nella riforma del sistema fiscale e nelle privatizzazioni””, poiché persistono nodi preoccupanti nel bilancio pubblico che potrebbero richiedere ulteriori provvedimenti per riallineare il programma agli obiettivi attesi.
Siamo a febbraio 2015, ed al pettine viene quanto accaduto dopo l'haircut “volontario” del 53% di tutti i bond sovrani in mano ai privati,  deciso a dicembre 2011.
Oggi, il debito pubblico greco è pari al 175% del PIL (Irlanda 123%, Italia 128%, Portogallo 128%, Spagna 92%), il PIL ha perso oltre il 25% dalla pre-crisi, la disoccupazione colpisce 4 greci su 10, decine di migliaia di dipendenti pubblici sono stati licenziati in questi brevi anni, le pensioni non hanno copertura, gli stipendi medi di insegnanti ed impiegati sono inferiori a 500 euro mensili.
Su iniziali 322 miliardi di euro di debito greco, enti e soggetti dell’area euro vantano crediti per circa 195 miliardi. Gran parte del debito greco, dopo la ristrutturazione, ha una scadenza sino a 25 anni e il tasso di interesse medio pagato è dell’1,5% (al di sotto del tasso sui BTP Italiani).
Le alternative sul tavolo (e forse sotto il tavolo) sono quattro: sconto sul debito, salvataggio, default, uscita dall’euro.
Euro, UE, singoli governi europei ci hanno abituato ad incertezza, inazione, continuo rinvio delle decisioni, assenza di trasparenza; come i nodi aggrovigliatisi nel tempo e lungamente rinviati, il “bubbone” – alimentato da tassi di interesse molto bassi, pari all’1,5%, tipici per prenditori “investment grade” e non per debitori “cattivi” come il paese ellenico -- va ora affrontato.
La Grecia è una “prima volta” e la soluzione che sarà adottata “farà scuola” per gli altri PIIGS (Portogallo, Irlanda, Spagna, Italia) che --  in caso di sconto sul debito e salvataggio – saranno tentati di ripercorrere la stessa strada: una alternativa che sancirebbe la fine prematura, ed ingloriosa, dell’euro e dell’Europa come si è sognata nel secondo dopoguerra. Comprensibile la ritrosia degli altri paesi UE a muoversi in tal senso.
La “Grexit” (uscita unilaterale o concordata dall’euro) non sarebbe fatale per la UE, ma sarebbe assai gravosa, nel breve e nel lungo termine, per la Grecia ed i suoi cittadini: corsa (ancor più frettolosa) agli sportelli per ritirare euro prima della adozione di una valuta nazionale, blocco dei finanziamenti bancari alle imprese, prevedibile esplosione dell’inflazione, caduta verticale della produzione, perdita significativa del potere di acquisto dei cittadini e del valore della moneta nazionale.
Se la UE vuole sopravvivere, occorrerà una iniezione di mercato e di coraggio.

Default? sembra lontano lontano, ma a guardare meglio ...



Storicamente, gli elementi e le condizioni che possono condurre ad un default di uno stato sono: 
(a) un debito pubblico elevato, che diventa critico laddove superi il 90% del PIL, limitando la capacità di crescita; il rapporto debito/PIL dell’Italia è oggi vicino al 130%; 
(b) prolungati periodi di crescita economica negativa, o nulla; in Italia, il PIL ha avuto una dinamica negativa negli ultimi anni: -2,5% nel 2012 e -1,8% nel 2013 (fonte Eurostat) ed ancora negativo nel 2014, con previsioni "anemiche" per il 2015; 
(c) una percentuale elevata di debito pubblico posseduto da investitori stranieri, più influenzabili da dinamiche avverse e quindi propensi ad un rapido disinvestimento da titoli pubblici del paese sotto osservazione; si ricorda come la percentuale di debito pubblico italiano detenuta da investitori esteri fosse del 52% prima della crisi del novembre 2011 per scendere al 30% circa oggi; 
(d) flussi di capitale estero legati a fasi pro-cicliche (alti in fasi espansive, bassi o negativi in fasi recessive) e “speculativi”, rispetto ad investimenti strutturali e stabili;
(e) una struttura del debito pubblico più assata sul breve periodo, con duration (durata media del debito residuo) brevi, e quindi più sensibile ad aumenti improvvisi e/o duraturi dei tassi nominali; 
(f) deficit di bilancio pubblico significativi e ripetuti nel tempo; 
(g) inflazione elevata; 
(h) deprezzamento significativo della valuta nazionale. 
La contemporanea presenza di più elementi accresce la vulnerabilità del paese al default, che viene accelerato da un “evento-shock” come la svalutazione improvvisa della moneta o l’abbandono di forme di “aggancio” a monete più forti.

Sine qua non.

martedì 27 gennaio 2015

Pronto il “fondo-salva-imprese”: l’IRI rinasce?

Il governo italiano sta approntando un “fondo” (con struttura giuridica ancora da definire) per interventi in imprese con squilibri patrimoniali e finanziari temporanei, ma ancora con prospettive industriali positive. L’ipotesi dovrebbe far parte del c.d. “investment compact” o del decreto-Ilva.
Il pacchetto è attualmente allo studio di un gruppo di esperti del MEF e del MISE. Il fondo potrebbe essere inizialmente dotato di un capitale di 4 miliardi di euro, con la partecipazione di banche, fondi di private equity, investitori istituzionali, CDP (che potrebbe intervenire solo come “anchor investor”, per evitare di configurare il tutto come “intervento di Stato” che violerebbe i trattati UE).
Ci sarebbero due categorie di azionisti: da un lato banche, fondi, privati che avrebbero la governance del fondo; dall’altro, CDP, fondi pensione, Poste Vita, Inail con garanzia statale sul capitale e rendimento minimo.
Certamente è un omaggio postumo (forse dovuto) ad Alberto Beneduce ed alla “sua” IRI.
Il fondo dovrà trovare una sua collocazione fra il Fondo Strategico e il Fondo Italiano di Investimento, che hanno obiettivi diversi ma precisi: ci riuscirà? Le risorse saranno adeguate? È questo che la situazione richiede? Che impatti potrà avere sul sistema industriale italiano? Aumenterà, o diminuirà, la concorrenza sul mercato? È una misura contraria alla libera concorrenza?
Vediamone i principali pro e contro.

 

PRO

Fra gli aspetti che giocano a favore, si deve sottolineare l’intenzione del governo di vedere il fondo come agente della sopravvivenza, tramite interventi prevalentemente finanziari, di società in (temporanea) crisi di impresa, in una fase congiunturale negativa e prospettive generali incerte.
La scelta delle imprese in cui investire è lasciata al “governo del fondo” che quindi opererà come agente di pianificazione industriale, scegliendo settori e imprese. Se la scelta si rivelasse corretta, una stagione di interventi statali virtuosi segnerà il futuro di interi settori industriali. La dimensione degli interventi, per settore e singola impresa, e la diversificazione degli investimenti saranno elemento critico per il successo dell’iniziativa.
Il cherry picking, la capacità di scegliere le imprese su cui puntare, lascerà fuori dal paniere molte società: difficile immaginare che siano tutte da evitare, in particolare in assenza di chiare competenze industriali spendibili da parte del fondo.

 

CONTRO

Fra gli aspetti negativi, il fondo si scontra con il fatto che nell’ordinamento italiano le crisi di impresa trovano già soluzione nelle norme sulle “crisi” (Risanamento ex. Art 67 L. Fall.,  Ristrutturazione del debito ex. Art 182-bis L. Fall., Concordato Preventivo) e sulle “grandi crisi” (legge Marzano).
Un ulteriore livello sembra da un lato un “intervento per un caso singolo” (Ilva: tema che meriterebbe un approfondito esame sulle incongruenze del sistema-Italia), dall’altro un intervento ad hoc per consentire al sistema bancario di dismettere crediti in sofferenza nella peggiore tradizione della pubblicizzazione delle perdite.

Le imprese o stanno sul mercato con le loro forze, o chiedono la protezione della legge fallimentare con le garanzie e i limiti in essa previsti; un intervento come quello immaginato appare, a nostro avviso, per quello che è: una potenziale alterazione della concorrenza e del mercato che consentirà ad alcuni fortunati di essere messi sotto il protettivo ombrello della mano pubblica, che spesso cambia d’abito, ma non cambia di natura.


Pubblicato il 27.1.2015 su AdviseOnlyBlog    #IlGraffio di Corrado Griffa

domenica 25 gennaio 2015

Le uscite prossime venture dei bancari italiani.



Negli ultimi 15 anni ci sono stati 68.000 bancari “in uscita” e nuove uscite sono attese dalla prossima puntata del “risiko” che potrà derivare dalla “manovra sulle popolari” e dalle fusioni fra istituti. In Italia, il costo del lavoro pesa per il 55-60% dei costi delle banche; la riduzione del personale è oggi limitata dalla indisponibilità di un numero sufficiente di dipendenti vicini alla pensione, da “accompagnare all’uscita”, avendo le banche dato fondo agli “scivoli”, negli ultimi anni; una riduzione sembrerebbe attivabile attraverso ulteriori più generosi) incentivi al prepensionamento, che si scontrerà con la riforma delle pensioni del 2011. I dati relativi sino al 2013 sul rapporto costi/ricavi sono chiari: un costo medio del lavoro per dipendente di 70.600 euro (erano 74.100 nel 2012: -4,6%), con le BCC a 68.000 euro e le popolari a 69.900 euro. I valori attesi per il 2014 del rapporto costi/ricavi vede Carige ad un rapporto 99,3%, il più alto fra quelli stimati, Credem a 65,6%, MPS a 64,0%, Banco Popolare a 63,4%, BPM a 62,9%, Unicredit a 62,2%, Intesa a 49,2%. Le differenze sono ampie, gli spazi di riduzione dei costi anche.

venerdì 23 gennaio 2015

Tempi duri per la crescita.



In un recente studio, McKinsey evidenzia che negli ultimo 50 anni la crescita mondiale è stata eccezionale, aumentando di 6 volte, con un reddito pro-capite triplicato; una crescita media annua del 3,8% sul periodo 1950-2014, significativamente superiore a quella storica: 1,1% nel periodo 1700-1900, 1,3% nel periodo 1900-1950; le prospettive per il prossimo futuro sono per un 2,1% annuo nei prossimi 50 anni. Quali le ragioni di tale rallentamento? Ridotta crescita della popolazione ed aspettative di una vita più lunga limiteranno l’aumento degli occupati ad un modesto 0,3% annuo nel prossimo mezzo secolo. La crescita futura potrà derivare da un aumento della produttività che dovrà crescere ad un +3,3% annuo se si vorrà raggiungere la crescita attesa del reddito al 2,1%: un miglioramento significativo, l’80% in più di quanto fatto negli ultimi 50 anni. Il potenziale di tecnologia disponibile per la crescita resterà intatto, ma imprese, managers, lavoratori dovranno trovare nuovi modi per adattarsi alla mutata realtà: lo studio rileva che i ¾ della crescita potenziale di produttività vengono dalla adozione efficace delle migliori pratiche attuali (“best practices”) e per ¼ dalle innovazioni tecnologiche, di prodotto. Lo sforzo maggiore per migliorare la produttività è atteso nel settore governativo e sanitario. “Hard times in front of us”.

L’irresponsabilità per legge.



L’emendamento 13.500 all’articolo 13 della Legge-Delega chiede al governo di rafforzare “”il principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione anche attraverso l’esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale””. In nome dell’autonomia dei dirigenti, i politici non saranno chiamati a rispondere di danno erariale, e quindi a rifondere al bilancio pubblico i soldi persi a causa del danno inferto. La irresponsabilità, già costantemente evocata dalla giurisprudenza della Corte dei Conti nell’applicazione della “esimente politica” per politici ed amministratori pubblici per scelte che sono effetto diretto delle loro decisioni, diviene ora legge. La strada per l’inferno è costellata di leggi sempre più rassicuranti per chi colà ci mena.