martedì 19 luglio 2016

Le bellicose patate.



“” In seguito al contatto con gli europei la guerre di tipo tradizionale aumentarono, diminuirono o rimasero invariate? (…) Un esempio ormai consolidato di inasprimento delle ostilità a breve termine in seguito al contatto con gli europei è quello dei maori polinesiani, stabilitisi in Nuova Zelanda intorno al 1200 d.C. Gli scavi archeologici in corrispondenza dei fori locali confermano le inclinazioni guerresche dei maori ben prima dell’arrivo dei bianchi, e dalle cronache dei primi esploratori europei, a partire dal 1642, nonché dei primi coloni, a partire dagli anni 1790, scopriamo che essi combattevano non solo fra loro, anche contro gli europei stessi. Dal 1818 al 1835 circa, due prodotti importati da questi ultimi condussero a un transitorio picco di fatalità in quelle che nella storia neozelandese sono diventate note con il nome di Musket Wars (Guerre dei Moschetti). Nel caso del primo prodotto si trattava ovviamente dei moschetti, con cui i maori poterono uccidersi in modo molto più efficiente che non con le mazze usate sino a quel momento. Il secondo fattore è invece più sorprendente: stiamo parlando delle patate, non proprio sinonimo di causa di guerra. Ma la durata e la portata delle spedizioni maori contro altri gruppi maori era sempre stata condizionata dalla quantità di cibo trasportabile: l’alimento base di questo popolo erano le patate dolci, ma quelle originarie del Sud America introdotte dagli europei fornivano raccolti molto più ricchi ed eccedenze più grosse, e permettevano dunque di affrontare spedizioni belliche più consistenti e di durata più lunga di quelle consentite dalle patate dolci. Dopo l’arrivo delle patate sudamericane, le spedizioni maori in piroga finalizzate all’uccisione o alla riduzione in schiavitù di altri maori segnarono così nuovi record di distanza, arrivando a coprire anche mille miglia.””

(Jared Diamond, Il mondo fino a ieri, pagg. 148-149)

domenica 17 luglio 2016

Gli italiani ottenevano tutto quello che avevano richiesto.



Da “Le guerre del Barbarossa. I comuni contro l’imperatore”, Paolo Grillo, pgg. 219-221:


“Il rappresentante della Lega rimarcava dunque che le città non avevano intenzione di sbarazzarsi dell’Impero, né desideravano una indipendenza totale, ma che, d’altro canto, non avrebbero accettato alcuna diminuzione delle loro prerogative di governo e delle loro autonomie (l’”onore” e la “libertà”). I sei anni di tregua concordati tra Federico e le città della Lega non portarono ad alcun cambiamento significativo. (…) Il testo stesso della tregua poneva chiari limiti alla possibilità di azione dell’Impero in Italia:

“ Per tutti i sei anni della tregua, l’imperatore non potrà imporre a nessun chierico o laico della predetta Lega Lombarda di giurargli fedeltà, né pronuncerà sentenza, né si farà dare alcuna multa, nell’ambito della predetta Lega, per punire una fedeltà non mantenuta o dei servizi non eseguiti per tutto il tempo della tregua e non porterà in giudizio alcuna località o persona della suddetta Lega”.

Allo scadere dei sei anni, dunque, i comuni della Lega erano ancora in una posizione di forza. Ma, nel corso della tregua, ci fu davvero il pericolo di una ripresa del conflitto. Le trattative aperte a Piacenza nel marzo del 1183 non potevano che prendere atto di tale situazione: l’imperatore poteva cercare di ottenere soddisfazioni parziali o di mascherare la portata della sconfitta, ma non negare nella sostanza quanto chiedevano le città, sue nemiche o sue alleate che fossero. (…) 
Il 23 giugno 1183, a Costanza, nella Svevia meridionale, la pace fra i comuni e l’imperatore venne conclusa. Formalmente, la cosiddetta Pace di Costanza non era un trattato bilaterale ma un privilegio, concesso da Federico alle città. In tal modo, l’imperatore salvava le apparenze, facendo sembrare una benevola concessione ciò che in realtà gli era stato strappato con le armi. 
Gli italiani ottenevano però tutto quello che avevano richiesto, in particolare l’esercizio dei diritti pubblici, le famose regalie individuate e minuziosamente elencate a Roncaglia, che vennero attribuite ai comuni quali “antiche consuetudini”. I cittadini potevano eleggere liberamente i propri governanti, anche se costoro avrebbero dovuto giurare fedeltà all’imperatore (ma quest’uso venne abbandonato nel giro di pochi anni). Alle norme vigenti nei centri urbani veniva di fatto riconosciuta l’autorità di leggi. Le città potevano liberamente costruire palazzi pubblici e fortificazioni, anche nel contado. Infine la Lega veniva riconosciuta come alleanza legale e, anzi, riceveva il compito di tutelare la tranquillità e la concordia dei suoi aderenti. 
L’imperatore veniva ridotto a un ruolo poco più che simbolico. (…). 
Insomma, l’Impero non veniva espulso dall’Italia, ma ridotto, almeno teoricamente, alla sfera di competenze che per le città era più congeniale. Un arbitro super partes, dotato di limitati poteri di intervento che, comunque, doveva convivere con la Lega Lombarda, ora ufficialmente riconosciuta come parte della compagine istituzionale del Regno. “”

giovedì 14 luglio 2016

Le tasse erano gravose, non destinate a difesa amministrazione e benessere delle città.



“” Più che la distruzione di Milano in sé, dunque, fu lo spietato e avido regime imposto dai rettori imperiali nei cinque anni successivi a segnare definitivamente una svolta nel rapporto fra gli italiani e il Barbarossa. (…) Dopo la grande vittoria su Milano, infatti, Federico diede un ulteriore giro di vite al controllo imperiale sulle città italiane (…). Il governatore imperiale inventò innumerevoli modi per opprimerli e prese ad estorcere pecunia in un’incredibile varietà di maniere (…) estorceva privatamente denaro ai rustici e ai cittadini, si impadroniva dei beni di chi moriva senza figli. Quell’estate (del 1162) prese miglio e vino ai contadini e ai cavalieri secondo il suo arbitrio, e estorse molto denaro ai rustici a San Martino per la macellazione dei maiali; e così in occasione dei tributi e degli agnelli da consegnare per Pasqua al palazzo di Monza, fece esazione di moltissimo denaro. (…) Insomma, i lombardi erano oppressi duramente,(…) dato che essi erano stati abituati a vivere e restare liberi, bene e largamente, senza ricadere sotto la giurisdizione di nessuno, ed erano soliti disporre liberamente secondo la loro volontà dei loro beni, né erano stai nei tempi passati in forma  così stretta sotto il comando e gli ordini di altri. Essi si trovavano dunque in grande disonore e grandissimo obbrobrio e subirono cose peggiori di quante si potessero dire o pensare: dicevano fra loro che era quasi meglio morire che subire tale oltraggio e tale disonore. (…) A peggiorare la situazione, vi era la constatazione che l’amministrazione imperiale operava profonde discriminazioni fra i centri soggetti. (…) Nel complesso, l’apparato di governo imperiale operò in maniera fallimentare, a causa delle malversazioni e della rapacità dei funzionari che generarono pressoché ovunque scontento e rivolte. Si trattava, di fatto, di un governo che oggi definiremmo “coloniale”. I governatori tedeschi rispondevano a Rainaldo di Dassel nella sua veste di plenipotenziario per l’Italia e in seconda istanza a Federico, mentre non paiono aver avuto alcun rapporto con le altre istituzioni cittadine. Il loro dialogo con la società urbana si limitava a una ristretta cerchia di collaboratori che cercavano a loro volta di approfittare quanto più possibile della situazione. Ai cittadini risultava infatti particolarmente gravoso non soltanto il fatto di dover pagare pesante imposte, ma anche che queste non erano destinate alla difesa, all’amministrazione o al benessere delle città stesse, quanto versate a fondo perduto e destinate a finanziare le ambizioni dell’imperatore o, non di rado, ad arricchire personalmente i nobili tedeschi che le rastrellavano.””

(Paolo Grillo, Le guerre del Barbarossa. I comuni contro l’imperatore. Pagg. 108-113)

lunedì 11 luglio 2016

Gli italiani del XII secolo, liberi, potenti, con una grande mobilità sociale.



(..) Nell’Italia del XII secolo stava prepotentemente affermandosi il ruolo delle città. La parte centro-settentrionale della penisola costituiva il cosiddetto Regno d’Italia, che assieme al Regno di Germania e a quello di Borgogna formava l’Impero. (…) Può valere la pena (…) di dare la parola a un attento osservatore contemporaneo, Ottone di Frisinga. Monaco cistercense e zio di Federico Barbarossa, Ottone lasciò il monastero di Morimondo per assumere il ruolo di consigliere e biografo del regale nipote. Il queste righe molto note, presenta il mondo delle città al pubblico degli aristocratici tedeschi, a esso completamente estraneo: il testo può dunque essere altrettanto utile a noi, che allo stesso modo guardiamo i comuni medievali da una notevole distanza, sebbene cronologica e non geografica.

“” I latini imitano ancor oggi la saggezza degli antichi romani nell’ordinamento delle città e nella gestione della cosa pubblica. Essi amano infatti la libertà a tal punto che, per sfuggire alla prepotenza del potere, si reggono secondo l’arbitrio di consoli, anziché di potenti che comandino. Siccome fra loro vi sono tre ordini, cioè quello dei feudatari maggiori (capitani), dei valvassori e della plebe, per limitarne la superbia eleggono non da uno solo di questi gruppi, ma da tutti i predetti consoli. Perché non si lascino prendere dalla libidine di comandare, li cambiano quasi ogni anno. Da ciò deriva che, essendo tutta quella regione fermamente suddivisa fra le città, ciascuna di esse costringe coloro che abitano nella sua diocesi ad obbedire e a stento in una terra così grande si trova un qualche nobile o qualche uomo di rilievo che non sia soggetto agli ordini della sua città. Hanno anche l’uso di chiamare questi territori su cui comandano i loro “comitati”. Inoltre, perché non manchino le risorse con cui affrontare i loro vicini, non si fanno problemi ad elevare alla condizione di cavaliere e alla dignità di governo i giovani di umili condizioni e addirittura gli artigiani che si occupano di spregevoli arti meccaniche, che le altre genti tengono lontano come la peste dagli uffici più onorevoli e liberali. Da ciò consegue che esse sono di gran lunga superiori a tutte le città del mondo per ricchezza e potenza. A tal fine si avvantaggiano non solo, come si è detto, per la saggezza delle loro istituzioni, ma anche per l’assenza dei sovrani, che abitualmente rimangono al di là delle Alpi.””

Liberi, militarmente potenti, caratterizzati da una grande mobilità sociale, in grado di proiettare la loro autorità sulle campagne, marginalizzando i grandi signori dell’aristocrazia regia: così ottone presenta i comuni italiani. A questa descrizione manca solo un elemento, la ricchezza. Le città della penisola erano infatti le principali protagoniste del rapido sviluppo economico dell’Europa del XII secolo. Genova, Venezia e Pisa, in particolare, avevano lanciato le proprie flotte e i propri mercanti alla conquista del Mediterraneo e ormai monopolizzato quasi completamente i traffici fra l’Occidente latino, l’Oriente greco e il mondo islamico. Le città dell’entroterra padano a loro volta si stavano sviluppando come centri commerciali e manifatturieri, in particolare nel settore della produzione tessile, seguito da quella metallurgica e dall’edilizia. Non bisogna neppure sottovalutare gli importanti investimenti condotti nel settore agricolo, con il dissodamento di vaste superfici di bosco o di incolto, la costruzione di mulini e altre infrastrutture e lo scavo di canali per l’irrigazione e il trasporto di merci. 
Sebbene accomunati nella medesima entità politica, Italia e Germania rappresentavano insomma due mondi assai diversi, dal punto di vista ideologico, sociale ed economico.””

(Paolo Grillo, Le guerre del Barbarossa. I comuni contro l’imperatore, pp. XIII-XIV)

La questione armena.



La questione armena. Da “La Grande Guerra nel Medio Oriente. La caduta degli Ottomani 1914/1920” di Eugene Rogan, pagg. 590-593:

“In quel mese di novembre (1918) nel parlamento ottomano, così come sulla stampa, si svolse un aperto dibattito sui massacri degli armeni (durante il periodo bellico 1914-1918 ed anni precedenti, ndr). Allora, come oggi, non era possibile fare un calcolo certo sul numero degli armeni uccisi. Nelle loro deliberazioni, i membri del parlamento ottomano parlavano di cifre oscillanti fra 800.000 e un milione e mezzo di armeni civili. Si propenda per la stima alta o per quella bassa, resta il fatto che il genocidio avrebbe gettato una lunga ombra sui negoziati di pace con le potenze vincitrici. L’Intesa pubblicamente condannava il governo ottomano per i massacri degli armeni. Stati Uniti e Gran Bretagna furono particolarmente espliciti nell’invocare un’azione di giustizia punitiva per crimini contro l’umanità. Allo scopo di evitare una risoluzione di pace di tipo draconiano, il nuovo governo ottomano decise di costituire dei tribunali militari per processare coloro che avevano delle responsabilità nell’eccidio degli armeni. Con ciò si sperava di indirizzare la condanna internazionale verso la leadership  dei Giovani turchi, lasciando fuori il popolo turco. 
Fra gennaio e marzo del 1919, le autorità ottomane procedettero all’arresto di trecento funzionari turchi. Fra di loro c’erano alcuni governatori delle province e anche alcuni membri unionisti del parlamento, oltre a funzionari locali di livello inferiore. Benché la polizia avesse agito senza preavviso, effettuando gli arresti nel mezzo della notte, molti – come i membri del triumvirato e i loro consiglieri, che erano già in esilio – furono processati in contumacia. Il principale tribunale militare era quello insediato a Istanbul. I processi erano aperti al pubblico. Le testimonianze a carico degli accusati e le sentenze della corte venivano pubblicate sulla gazzetta ufficiale, la Takvim-i Vekàyi
Le incriminazioni pubblicate assegnarono la totale responsabilità dell’omicidio di massa alla leadership dei Giovani turchi. I pubblici ministeri dichiararono: “I massacri sono stati condotti per espressi ordini e alla conoscenza di Talat, Enver e Cemal.” Citavano le parole di un funzionario di Aleppo che affermava di aver “ricevuto l’ordine di sterminio” da “Talat stesso” e di essere stato convinto che “il benessere del paese” dipendesse dalla eliminazione della popolazione armena. In un telegramma presentato come prova, il dottor Bahaeddin Sakir, presunto architetto del genocidio, chiedeva al governatore di Mamuretulaziz di mandargli uno “schietto rapporto” circa la “liquidazione” degli armeni della sua provincia: “I sobillatori di cui lei mi aveva riferito sono stati dunque respinti e banditi, cioè eliminati, oppure sono stati semplicemente scacciati via?”. (fonte: Dadrian e Akcam, Judgment at Istanbul, pp. 250-280). 
Le deposizioni rivelarono come era stato organizzato l’omicidio di massa: il funzionario metteva nero su bianco l’ordine che chiedeva la deportazione, e a ciò seguivano delle istruzioni orali per il massacro dei deportati. Furono presentate testimonianze di condannati per omicidio che erano stati rilasciati dalle prigioni per formare delle squadre di “macellai di uomini”. I pubblici ministeri raccolsero una convincente documentazione attraverso la quale si vedeva il legame tra il servizio segreto di Enver, il Teskiliat-i Mahsusa, e la formazione delle squadre della morte. E misero insieme una notevole quantità di prove di uccisioni di massa, testimonianze di individui che si prendevano la responsabilità di migliaia di morti, documenti che riportavano deportazioni nell’ordine della centinaia di migliaia. 
Dopo mesi di considerazioni, i tribunali sentenziarono la pena di morte per diciotto imputati, per il loro ruolo nei massacri degli arimeni. Talat, Enver e Cemal ebbero la pena capitale, insieme ad alcuni membri importanti del CUP, come il dottor Bahaeddin Sakir e il dottor Mehmed Nazum, che erano andati con loro in esilio. Poiché quindici delle condanne erano state pronunciate in absentia degli imputati, solo tre funzionari di basso profilo furono effettivamente mandati al patibolo. Mehmed Kemal, luogotenente governatore di Yozgat, al quale Grigoris Balakian attribuiva la responsabilità del massacro di 42.000 armeni, fu impiccato il 10 aprile 1919. Il comandante della gendarmeria di Erzincan, Hafiz Abdullah Avni, fu giustiziato il 22 luglio 1920, quando andò alla forca anche il capo distretto di Bayburt, Behramzade Nusnet. Nell’agosto 1920, fu chiaro che il tribunale militare non sarebbe stato in grado di assicurare alla giustizia i principali colpevoli del massacro degli armeni. Divenne ugualmente chiaro che quei processi non avrebbero risparmiato l’Impero ottomano da una risoluzione di pace draconiana. Non essendo più di alcuna utilità, i tribunali militari scivolarono nell’inattività. Ma i verbali di questi processi forniscono la più ampia testimonianza mai compilata dalle autorità turche sulla organizzazione e l’attuazione dei massacri armeni. Questi verbali, pubblicati in turco ottomano, sono di pubblico dominio dal 1919, e si fanno beffa di ogni tentativo di negare il ruolo avuto dal governo dei Giovani turchi nell’ordinare e organizzare lo sterminio della comunità armena ottomana.””