giovedì 31 dicembre 2015

Festa a Piazza Affari



La capitalizzazione di borsa italiana segna 567,7 miliardi di euro a fine 2015, pari al 34,8% del PIL italiano;  sono 356 le società quotate: 282 al MTA e 74 all’AIM; le prime 5 società quotate (2 banche: Intesa San Paolo con 51,6 miliardi di capitalizzazione ed Unicredit con 30,7 miliardi; 2 partecipate pubbliche: Eni con 50,4 miliardi ed Enel con 36,6 miliardi; 1 società a controllo familiare: Luxottica con 29,2 miliardi) capitalizzano insieme 198,2 miliardi, il 34,9% dell’intera capitalizzazione della borsa italiana. 
Nel 2015 ci sono state 27 IPO (nuove quotazioni), 1 in più del 2014 (furono 18 nel 2013 e 6 nel 2012), che hanno raccolto complessivamente 5,7 miliardi di euro, di cui 3 miliardi con l’IPO di Poste Italiane; il controvalore degli aumenti di capitale di società già quotate è stato d 4,1 miliardi. 
Guardando ai risultati, il FTSE MIB ha fatto segnare un +12,7% da inizio 2015, risultando il migliore risultato europeo (CAC 40 +9,8%, DAX +9,6%). 
In dettaglio, il settore che ha avuto il miglior risultato è stato quello della Salute (+68,4%), seguito da Costruzioni e Materiali (+60,0%, che ha visto nel 2015 il realizzarsi di una operazione M&A su Italcementi, che ha fatto segnare un +107,5% nella sua quotazione), Retail (+60,0%), Food & Beverage (+36,2%), Auto e Componentistica (+33,0%, in linea con la performance di FCA, +34,6%, che ha trasferito sede e listino principale all’estero, ed ha beneficiato dello scorporo-Ferrari). 
I settori che hanno “performato” meglio in Europa sono stati invece Viaggi e Tempo Libero (+20,6%), Beni per Casa e Persona, c.d. Consumers (+19,6%), Servizi Finanziari (+19,1%), Food & Beverage (+18,2%, contro il +36,2% italiano, sopra riportato), Costruzioni e Materiali (+16,9% vs/ 60,0% italiano). 
Ogni giorno, in Italia si sono scambiati 3,2 miliardi di euro come controvalore delle compravendite, che sono state mediamente 282.000 al giorno.

La legge dei CapEx.


Gli investimenti (Capital Expenditures, o CapEx) fatti oggi sono la principale strada per innovare, domani. Secondo Goldman Sachs, meno del 20% degli investimenti negli USA sono state fatte da 5 società (Exxon, Chevron e ConocoPhillips nel settore energia; AT&T e Verizon nella teconologia); il 20% di tutti i CapEx nell’Europa da 5 gruppi (l’italiana Eni, VW, BP, Statoil e Total); oltre il 25% dei CapEx in Giappone sono venuti da 5 società (NTT DoCoMo, Hitachi, Toyota, Sofbank, Nippon Relecom); quasi il 60% nell’area Taiwan/Corea del Sud da 5 società (POSCO, TSMC, Korea Electric Power, Samsung); il 45% nella Grande Cina (Cina ed HK) da 5 gruppi (China Unicom, China Telecom, CNOOC, ChinaMobile, Petrochina). Nel Resto del Mondo oltre il 20% da 5 gruppi (le russe Rosneft, Lukoil, Gazprom, la brasiliana Petroleo Brasileiro, la messicana America Movil). 
Pochi grandi gruppi, con una prevalenza nel settore energia e telecomunicazioni, guidano la corsa per un futuro energicamente tecnologico.


mercoledì 30 dicembre 2015

L'attacco alla città pestilenziale era stato deciso.



“” Nel 1884, nella classifica delle città pestilenziali europee Napoli si piazzava sicuramente ai primi posti. (…) Napoli può essere considerata come un grande anfiteatro che dalle colline degrada verso la baia e ha come palcoscenico il mare. Una conformazione geografica “pittoresca” che non favorisce l’espansione edilizia. Se a questo si aggiunge la completa e secolare assenza di regole e di pianificazione, non è difficile spiegare l’incredibile affollamento che si manifestava soprattutto nella parte più popolare: la città bassa. Già verso la metà dell’Ottocento non c’era più traccia di parchi, grandi piazze e giardini, e la mancanza di spazio spingeva a costruire quegli altissimi edifici lungo strettissimi vicoli. (…) L’abisso del degrado, l’ultimo girone infernale, erano i cosiddetti  “fondaci”, specie di “grotte urbane” dove vivevano dai 30000 ai 90000 uomini, donne e bambini in uno stato di miseria e di abiezione al di là dell’immaginabile. Ma tutta la città bassa, quella dove si accalcava la parte più povera della popolazione, circa 300000 persone, era in condizioni disastrose. In certi vicoli lo spazio disponibile a persona era di mezzo metro quadrato. Per farsi un’idea di cosa ciò significhi basta pensare che i galeotti, sulle galere medievali veneziane, potevano contare su un metro quadrato a testa, cioè sul doppio dello spazio. E ogni tanto i galeotti scendevano a terra. (…) Come c’era da aspettarsi, le condizioni delle reti idriche, acquedotti e fogne, e dei sistemi si smaltimento dei rifiuti erano,a dir poco, precarie. (…) L’acqua finiva in circa 2000 cisterne sulla cui tenuta stagna non si poteva contare. Impossibile calcolare le infiltrazioni che da un suolo contaminato da escrementi passavano in questi depositi d’acqua. Dalle cisterne l’acqua veniva poi attinta con secchi adibiti a molteplici usi, che quindi contribuivano a un ulteriore inquinamento. Tuttavia chi si serviva di queste cisterne poteva considerarsi fortunato. L’acqua tirata su dai circa 4500 pozzi artesiani era imbevibile e pesantemente contaminata dai liquami fognari dispersi al suolo. La popolazione ricca e benestante, che viveva sulle colline, se la cavava meglio, raccogliendo l’acqua piovana in cisterne private. La condizione delle fogne era, se possibile, ancora peggiore. In teoria esistevano 180 chilometri di fogne, realizzate però per il drenaggio dell’acqua piovana, ma lo stato di abbandono, di negligenza, di assenza secolare di manutenzione rendeva questa rete praticamente inutile. Quel poco che le fogne riuscivano a trasportare finiva nella Baia, inquinando il mare, dal quale venivano pescati i molluschi, un cibo molto popolare, e veniva ricavato clandestinamente il sale, per evitare di pagare la tassa che gravava su questo alimento. C’erano poi 4000 pozzi neri, il cui svuotamento era a carico dei proprietari privati, non sempre solerti e pronti a intervenire quando il liquame superava il livello di guardia. La gran parte delle abitazioni, soprattutto nella città bassa, non aveva alcun tipo di sistema fognario. I “bisogni” finivano nelle scale, nei cortili o per strada. (…) Non meno disastrosa era la situazione della pulizia urbana. (…) I rifiuti ammucchiati e messi da una parte dagli spazzini la mattina venivano, in teoria, portati via il pomeriggio da imprese private, che usavano strumenti rudimentali. Li possiamo immaginare: un carro sgangherato, trainato da un vecchio asino barcollante e caricato da uno o due ragazzini, pagati meno di un adulto, che non arrivavano nemmeno alla sponda. Questa operazione di carico delle immondizie ammucchiate si risolveva spesso in un nuovo spargimento. Quello che non era sparso subito dai ragazzini, troppo piccoli per riuscire a caricare i rifiuti, veniva perso per strada a causa delle buche, dei sobbalzi e della copertura approssimativa del carretto. La mattina dopo gli spazzini ricominciavano ad aprire un varco nell’immondizia. (…) 
Gli indici di mortalità della città bassa nella Napoli di fine Ottocento erano molto vicini al limite dell’insostenibilità demografica. (…)
Secondo gli storici, la grande espansione demografica di Napoli dal Seicento in poi era stata stimolata, più che dal fiorire di nuove produzioni agricole o manifatturiere, dal suo ruolo di capitale del Regno delle Due Sicilie. Una città quindi dove affluivano, da tutto il Sud, i prodotti, soprattutto agricoli, destinati all’esportazione e dove arrivavano i manufatti di importazione. Una specie di enorme emporio (..). La società napoletana dell’Ottocento (…) offre l’immagine di una povertà che non solo non veniva combattuta, ma era, in un certo senso, sfruttata e aggravata. (…) 
Come il colera fosse arrivato a Napoli fra il luglio e l’agosto del 1884 non è chiaro. (…) Alla fine di agosto, dopo vari casi sporadici e diagnosi sospette per la loro reticenza, l’epidemia esplose con una violenza micidiale. Il 31 agosto morirono di colera 82 persone e il bollettino andò aggravandosi rapidamente fino a raggiungere, il 10 e 11 settembre, la cifra di 550 morti. 
Alla gravità della situazione sanitaria si aggiunse quella sociale. 
Il panico travolse la città e l’improvviso attivismo dell’amministrazione locale seminò il terribile sospetto che il colera fosse in realtà un complotto per ridurre di numero la popolazione più povera, con un vero e proprio genocidio. (…) 
Le terapie anticolera erano quasi tutte più letali dello stesso colera. Cioè, lasciato al suo corso, il colera uccideva circa il 50 per cento dei contagiati, con le “cure” si arrivava a una mortalità anche dell’80 o del 90 per cento. Nei primi giorni del settembre 1884, il quadro che si presentò ai napoletani meno fortunati era terribile. I circa 150000 cittadini più ricchi erano fuggiti; il colera si abbatté sugli strati più poveri che vivevano in condizioni igieniche precarie (per ragioni che oggi ci sembrano ovvie ma che allora non lo erano); la mortalità colpiva soprattutto i giovani adulti più poveri (mentre i medici e i “ricchi” venivano risparmiati); le squadre sanitarie comunali, ma viste in tempi normali in certi quartieri, intervenivano con la forza. La situazione sfuggì al controllo delle autorità. Vi furono rivolte, attacchi ai medici e ai loro aiutanti, processioni di flagellanti che estorcevano l’elemosina ai pochi passanti, scene di isteria religiosa di massa. (…) 
Nel caos della città in preda al colera arrivarono a Napoli il re d’Italia Umberto I e il primo ministro Agostino Depretis. Non fu una visita formale né, come accadeva in situazioni “pericolose”, rapida. Il re e il primo ministro si trattennero diversi giorni, proprio mentre l’epidemia era la massimo, visitarono gli ospedali dove erano ricoverati i colerosi, incontrarono gli ammalati, si accorsero dell’insufficienza delle misure prese dal comune e dettero ordine di trasformare in ospedale le caserme militari di Piedigrotta e di Maddalena, e, accompagnati dai volontari della Croce Rossa, si recarono nei quartieri della città bassa dove si resero conto di persona delle condizioni di vita della maggior parte dei napoletani. (…) I due protagonisti della visita rimasero sconvolti da quanto avevano visto e decisero che una situazione del genere non era tollerabile non solo per solidarietà umana (…) ma anche perché Napoli, in quelle condizioni, rappresentava un focolare di infezione per tutta la nazione, perché i danni commerciali, turistici, finanziari erano incalcolabili, e perché, come avevano dimostrato altre città europee, la bonifica urbana, la costruzione di reti idriche adeguate, l’organizzazione di servizi di nettezza urbana efficienti potevano ridurre e addirittura eliminare (era il caso di Londra) il pericolo del colera. 
L’attacco alla città pestilenziale era stato deciso. In tempi rapidissimi, forse per il timore di un ritorno del colera l’anno successivo, il 15 gennaio 1885 il Parlamento italiano approvò la legge per il risanamento della città di Napoli (ad appena due mesi dalla fine dell’epidemia, ufficialmente conclusasi con l’ultimo caso a metà novembre del 1884) e stanziò un fondo di 100 milioni di lire per la grandi opere necessarie. Secondo le statistiche ufficiali, le vittime del colera del 1884 erano state a Napoli, in appena due mesi e mezzo, 7200 e questa doveva essere l’ultima epidemia .””



Lorenzo Pinna, Autoritratto dell’immondizia, pagg. 149-169. 2011.

Dall'Arsenale al Carnevale.



“” L’Italia è per certi aspetti un caso unico nel panorama europeo. Nel Medioevo, fra il XII e il XIV secolo, fu all’avanguardia del progresso non solo politico, sociale ed economico, ma anche tecnologico. (…) una fucina di invenzioni, di applicazioni e di trasferimenti di know-how (diremmo oggi) senza uguali in quell’epoca. Fra le più importanti innovazioni vi furono la gualchiera, cioè il mulino ad acqua per la follatura della lana, il filatoio a ruota, il telaio orizzontale, il filatoio idraulico per la seta. Nella navigazione gli italiani delle Repubbliche marinare furono fra i primi ad utilizzare la bussola, il timone di poppa (…), mentre Leonardo da Vinci progettava le “chiuse” per creare reti più estese di canali interni, superando i dislivelli del terreno. Per non parlare del contributo decisivo che, più tardi, italiani come Galileo Galilei dettero alla nascita della scienza in senso moderno, cioè del metodo scientifico basato sull’osservazione, la sperimentazione e la misura. (…) 
Eppure proprio mentre in Gran Bretagna, nel XVIII secolo, la rivoluzione industriale stava muovendo i primi passi, l’Italia aveva cominciato la sua “carriera di paese sottosviluppato d’Europa”. Cos’era successo? Perché l’Italia era passata, nel volgere di pochi secoli, da paese economicamente e tecnologicamente avanzato a paese sottosviluppato? Perché invece di lanciarsi nell’industrializzazione sulla scia di altri paesi europei, a cominciare dalla fine del Cinquecento, andò incontro a un’involuzione che alcuni studiosi hanno addirittura definito, in certe regioni, come un processo di “rifeudalizzazione” e di ruralizzazione di ritorno? (…) Per spiegare il declino dell’Italia a partire dal Cinquecento si è sottolineata l’importanza epocale della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo nel 1492 e quindi lo spostarsi del baricentro politico ed economico dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico. 
Ma l’apparente semplicità della spiegazione “americana” si rivela una trappola: infatti, dopo la scoperta di Colombo, il baricentro rimase per secoli l’Europa, ed è qui che l’Italia perse la sua posizione di avanguardia. 
Sono state proposte altre ipotesi più convincenti, tra cui una è particolarmente suggestiva: il successo catastrofico. Sarebbero stati proprio lo straordinario successo e la forza innovativa delle istituzioni italiane del Medioevo (…) a trasformarsi, nei secoli, in una zavorra sempre più pesante e insostenibile. In altre parole, il successo portò alla cristallizzazione  di istituzioni e comportamenti all’inizio vincenti, alla difesa di una tradizione un tempo funzionale, all’incapacità di adattarsi alle nuove epoche, alle nuove domande, ai nuovi gusti e all’emergere di nuove sfide. 
Quella che era stata una vera rivoluzione si trasformò  in conservazione e alla fine in sclerosi. La ricetta del successo in un’epoca divenne la ricetta del fallimento in un’altra. A tutto vantaggio dei concorrenti olandesi e inglesi che seppero interpretare i tempi cambiati e organizzare nuove reti commerciali e nuovi tipi di manifatture (soprattutto tessili), forse meno raffinate ma a costi più contenuto e che rispondevano a una domanda di strati sempre più vasti. 
Persino le città, eredi dei comuni medievali (…), finirono per diventare un ostacolo a ulteriori sviluppi. (…) Con un territorio limitato e una popolazione ristretta, le tradizioni cittadine frammentarono il potenziale mercato e quindi non si ebbe una domanda abbastanza potente da stimolare l’ulteriore sviluppo economico. (…) 
Un’altra ipotesi riguarda la concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta minoranza, con una larghissima maggioranza in miseria. (…) 
Vi sono altre ipotesi che individuano in un’agricoltura arretrata, poco elastica e incapace di rispondere – con un aumento adeguato della produzione – a una domanda crescente, la causa del mancato sviluppo. (…) 
Forse nessuna vicenda storica riesce a esemplificare meglio di quella della Repubblica marinara di Venezia il temibile meccanismo del successo catastrofico e del declino. (…) Uno dei principali segreti della stupefacente ascesa di Venezia, una repubblica di mercati e marinai, e del suo dominio secolare sui traffici commerciali del Mediterraneo, fu un’imbarcazione, sia da guerra che commerciale (…), ispirata all’antica trireme greca e chiamata galea o galera. Una nave lunga circa 40-45 metri e larga 5 o 6, dove trovavano posto quasi 150 rematori (i galeotti) che riuscivano a spingerla fino ad una velocità di 7 nodi, con la possibilità di mantenere una media, per diverse ore, sui 4 nodi. Velocità uniche nel mondo della marineria medievale. (…) Questa micidiale arma militare era anche un efficace mezzo commerciale. Le stive della galea non erano capienti, ma le merci trasportate, le famose spezie (…) e la seta grezza (poi tessuta nelle manifatture veneziane), pur pesando poco e occupando uno spazio ridotto, avevano un valore enorme. A partire dal XIII secolo, e con successivi ingrandimenti, l’Arsenale veneziano divenne il più grande complesso “industriale” dell’epoca, con i suoi circa 3000 artigiani e capimastri (gli arsenalotti) in grado di sfornare centinaia d galee ogni anni. Difeso da mura alte dieci metri che proteggevano il segreto delle tecniche di costruzione, fu il cuore della potenza militare e commerciale della Serenissima. Una potenza che venne impiegata, senza scrupoli, per distruggere i concorrenti nei traffici del Mediterraneo, come Costantinopoli. (…) 
Poi lentamente le cose cambiarono. 
Nell’agosto del 1485 un convoglio di galee veneziane in navigazione nell’Atlantico, lungo le coste della Bretagna, fu attaccato da una flotta francese. Dopo una cruenta battaglia, nella quale persero la vita circa 100 veneziani, il convoglio e le sue mercanzie vennero catturati. Fu il segnale che il mondo stava cambiando. 
La navigazione oceanica, la scoperta dell’America, ma soprattutto la circumnavigazione dell’Africa e di Capo di Buona Speranza aprirono ai portoghesi (oltre che alle potenze dell’Europa del Nord come olandesi e inglesi) la via delle spezie, un tempo monopolio dei veneziani. A queste nuove sfide Venezia non riuscirà a rispondere neppure nel Mediterraneo, dove presto a spadroneggiare saranno le nuove navi delle emergenti potenze europee. L’introduzione della polvere da sparo e di armi inedite, fra le quali il cannone, dettero il colpo di grazia alla galea veneziana. (…) L’Arsenale, il complesso “militare-industriale” della Serenissima, non riuscirà a impadronirsi delle tecniche e delle innovazioni messe a punto dalle emergenti potenze del mare (…) e a riconvertirsi. Costruire un tipo di imbarcazione radicalmente nuovo, “tradendo”, in un certo senso, la formula che per secoli aveva avuto tanto successo, cioè la galea, si rivelò impossibile per i veneziani. Il declino come potenza marinara, a partire dal XVI secolo, portò Venezia a trasformarsi in un parco di divertimenti e in un’attrazione turistica. (…) 
Il successo catastrofico: dall’Arsenale al Carnevale. 
Come attrazione turistica Venezia presentava tuttavia diversi inconvenienti, comuni a molte altre zone del nostro paese. 
La sporcizia della città è “una delle cose d’Italia che più disturba lo straniero”: così si esprimeva, nel Viaggio in Italia,  il grande poeta e drammaturgo tedesco Johann Wolfgang Goethe alla fine del Settecento. (…) 
Come altri paesi europei, l’Italia venne colpita dal colera, che con le sue ondate più devastanti del 1835-37, 1854-55, 1865-67 e con altre minori, fece centinaia di migliaia di vittime. Ma nessuna risposta urbanistica paragonabile a quelle che abbiamo visto a Parigi o a Londra venne realizzata.””



Lorenzo Pinna, Autoritratto dell’immondizia, pagg. 139-147. 2011.

2016, anno di medaglie olimpiche.



Il Brasile ospiterà le Olimpiadi estive 2016 e si candida a vincitore di molte medaglie; secondo uno studio (Olymponics Calculator) che ha preso in considerazione dimensione della popolazione, reddito nazionale e personale, capacità di gestire il fenomeno del “doping”, ed il costo di un paio di scarpe Nike (una sorta di “Mac Index”: se vuoi correre e vincere, devi aver un buon paio di scarpe da corsa, e le Nike si vendono in quasi tutti i paesi del mondo) i risultati indicano che il Brasile si potrebbe posizionare al quinto posto, preceduto da Stati Uniti che vincerebbero il maggior numero di medaglie, Russia, Cina e Giappone; e prima di Francia, Gran Bretagna, Ucraina, Italia (accreditata quindi del posto #9), Spagna, Corea del Sud, Giamaica, Kazahkistan, Ungheria, Olanda, Cuba, Bielorussia ed Australia.