giovedì 26 febbraio 2015

La forza dei distretti industriali italiani.



Secondo il rapporto sull’economia e finanza dei distretti (di IntesaSanPaolo), i distretti industriali italiani sono tornati a crescere nel biennio 2013-2014 con un +1% (mentre le imprese “non distrettuali” hanno fatto segnare il segno meno), e continueranno a crescere nel biennio 2015-2016 con un +3,2% atteso (superiore al +2,2% fatto segnare dalle imprese tedesche). Secondo il rapporto, le cause positive sono la maggiore capacità di fare innovazione nei distretti (evidenziato dal gap positivo del 6,3% nel presentare brevetti, rispetto alle imprese non distrettuali), di esportare e fare investimenti all’estero; nel 2014 le esportazione delle imprese presenti nei distretti industriali sono cresciute del 3,5%, contro una media dell’1,6% delle imprese nazionali. Le imprese presenti nei distretti si differenziano, secondo il rapporto, per 2 elementi positivi: la loro attrattività nei confronti del capitale estero (che cerca di acquisirle) ed il c.d. “reshoring”, il ritorno in Italia di produzioni industriali a suo tempo dirottare verso paesi a più basso costo industriale, ritorno sulle ali della maggiore qualità delle produzioni fatte in Italia, in settori che vanno dalla moda alla meccanica, dalle macchine agricole agli imballaggi. 
“Italians do it better”.

Ultimo miglio retroattivo.



L’Autorità delle Comunicazioni (AGCOM) ha deciso il taglio retroattivo per gli anni 2010-2012 delle tariffe “unbundling”, cioè del canone mensile che gli operatori telefonici concorrenti (OLO) pagano a Telecom Italia per accedere alla rete fissa (rame), quella che collega l’utente finale (il c.d. “ultimo miglio”); Telecom dovrà rimborsare agli OLO la differenza fra quanto gli OLO hanno pagato a Telecom sulla base delle tariffe a suo tempo adottate e quanto previsto dalle nuove tariffe, con un costo previsto di 30 milioni di euro. Un provvedimento che AGCOM ha preso ricalcando una sua delibera del 15 dicembre 2014 ed una comunicazione (non vincolante) della Commissione UE. Riduzioni di costo per il servizio ULL (5 centesimi in meno per ogni linea per il 2010, con un canone sceso a 8,65 centesimi per linea; 12 centesimi per il 2011 ed un canone a 8,90 centesimi; 23 centesimi per il 2012 con un canone a 9,05 centesimi, sempre per linea). Per i servizi bit-stream (all’ingrosso) e WLR (voce all’ingrosso) si dovrà attendere una nuova sentenza del Consiglio di Stato. La decisione AGCOM segue 3 sentenze del Consiglio di Stato (1837/13, 1645/12, 1856/13) che avevano accolto i ricorsi di Eutelia, Fastweb, Wind, rilevando una carente motivazione nelle precedenti decisioni AGCOM che avevano stabilito le tariffe per gli anni considerati. Telecom contesta la decisione asserendo che “”è difficile discutere di regolazione pro investimenti a fronte di un provvedimento che cambia ex post regole fissate non da un’altra Authority, ma dalla stessa Authority””, cambiando le regole dopo 4 anni.

Il “digital divide” italiano.




La Commissione UE ha pubblicato l’indice dell’economia e della società digitali (DESI), da cui emerge la posizione di retroguardia dell’Italia, quart’ultima in Europa (prima di Grecia, Bulgaria, Romania), con un indice sintetico di 0,36 (su una scala sino ad 1); il miglior indice è quello danese (0,68), seguito da Svezia (0,66), Olanda (0,63), Finlandia (0,62). L’indice è una sintesi di 33 indicatori che misurano il livello di sviluppo digitale. L’Italia presenta “”il livello di copertura più basso della UE”” per le connessioni internet veloci (il 21% del paese è coperto, contro il 62% medio europeo), e del 2% per la banda ultralarga (contro il 22% europeo); il problema non è limitato alla carenza di infrastrutture: in termini di utilizzo, solo il 59% della popolazione adulta (fra 16 e 75 anni) utilizza internet, contro una media europea del 75%, con un 3% che non avrebbe mai usato internet; in termini di fruizione internet, poca lettura di giornali on-line (60%, in terz’ultima posizione), uso di TV (0,5%, in ultima posizione), video-on-demand (20%), social network (58%), shopping on-line (52%), banking in-line (35%), rapporti con la P.A. (18%). 
Italia paese della cultura? Sicuramente non quella digitale, ed abbiamo dubbi anche su quella “analogica”, visti gli indici di lettura di libri e quotidiani e le visite ai musei.

Do You Trust Italian Law?



Istituto di diritto anglosassone recepito dalla legge italiana, il Trust arranca: la Cassazione (n. 3737/2015 e n. 3735/2015) ha stabilito che l’atto di dotazione di un trust paga l’imposta di donazione immediatamente, e quindi non se ne rimanda l’applicazione al momento in cui il “trustee” (il gestore del trust) distribuirà il patrimonio del trust ai beneficiari. In termini pratici, la creazione del trust e la destinazione del patrimonio al trust determinano il trasferimento della titolarità del patrimonio e quindi fanno scattare il momento impositivo, con l’applicazione dell’imposta all’aliquota dell’8% (aliquota massima, applicata quando fra donante e donatario, nel caso del trust disponente e beneficiario, non vi è rapporto di parentela). Nelle motivazioni, la Cassazione ricorda che il legislatore, all’art. 2, c. 47 del DL 262/2007, ha istituito l’imposta sulle successioni e le donazioni “”sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito e sulla costituzione di vincoli di destinazione”” e quindi il legislatore “”ha inequivocabilmente attratto nell’area applicativa della norma”” anche il trust. “No Trust, we are Italians”.

mercoledì 25 febbraio 2015

La bad bank aiuterà le banche?


Banca d’Italia e banche commerciali rilanciano l’idea di una bad bank in cui far confluire le sofferenze (prestiti verso soggetti in stato di insolvenza, anche se non ancora accertata giudizialmente). È una buona idea? Per capirlo, facciamo prima il punto della situazione.

Come stanno le banche italiane?

Guardiamo 5 dati, aggiornati al I semestre 2014 (ultimo dato disponibile):
  • 170 miliardi – è il valore dei prestiti in sofferenza, su un totale di 1.240 miliardi di euro di prestiti alla clientela;
  • 103 miliardi - sono gli incagli (situazioni di temporanea difficoltà, che comprendono prestiti scaduti da oltre 270 giorni, o che rappresentano oltre il 10% dell’importo affidato);
  • 16 miliardi – sono i debiti ristrutturati;
  • 16 miliardi – sono i debiti scaduti;
  • 305 miliardi – il totale delle sofferenze (dal 2015 cambiano le regole di classificazione dei crediti deteriorati, ma non il loro accertamento), pari al 24,6% dei prestiti alla clientela.
La Banca d’Italia ha rilevato come le “posizione deteriorate” siano il 18,7% del prestiti, 2 punti percentuali sopra la media UE, e che il tasso di copertura attraverso accantonamenti fatti (coverage ratio) sia il 32%, 10 punti in meno della media UE e complessivamente pari all’88,9% del patrimonio delle banche italiane (che in molti casi hanno realizzato aumenti di capitale per reintegrare il patrimonio di vigilanza, l’ultimo dopo il Comprehensive Assessment della BCE).
Si tratta di un fardello – cresciuto negli anni recenti in coincidenza (e a causa) della crisi economica nazionale – che limita la capacità di fare credito, poiché impone accantonamenti di bilancio e quindi allocazione di capitale su posizione non performing (da cui il nome NPL, acronimo di Non Performing Loans) a detrimento dei prestiti, performing verso la clientela. Una delle cause del credit crunch.
Il mercato del NPL consiste nella cessione a terzi di crediti non performing, a un prezzo di mercato che rappresenti il punto di incontro fra domanda degli investitori interessati al NPL e l’offerta da parte delle banche. Tale mercato vale circa 3 miliardi, meno dell’1,5% delle sofferenze. Lo smobilizzo dei crediti in sofferenza potrebbe ricostituire la capacità delle banche di erogare credito.

Che cosa impedisce lo sviluppo di un mercato NPL?

Fra gli ostacoli, sono indicate norme e procedure lente di recupero crediti, norme fiscali che limitano o rendono poco efficiente “portare a perdita” i crediti in sofferenza. Da qui, la richiesta di interventi legislativi che portino a uno snellimento normativo.

Che cosa pensano di fare Banca d’Italia e le banche italiane?

La soluzione avanzata è quella della bad bank: una struttura cui trasferire, in tutto o in parte rilevante, le sofferenze bancarie.
La proposta si incentra sulla costituzione di una società-veicolo, con un capitale relativamente modesto (si parla di un capitale iniziale di 3 miliardi) cui partecipi anche lo Stato (si presume, attraverso il Ministero dell’Economia e delle Finanza o tramite la CDP, la Cassa Depositi e Prestiti). Le banche conferenti sarebbero i maggiori azionisti, accanto a nuovi soci privati. La bad bank porterebbe in pancia i crediti deteriorati sino a 50 miliardi e si finanzierebbe sul mercato con bond garantiti dallo Stato.
Al momento, non sono ancora noti i criteri per la valorizzazione dei prestiti in sofferenza da trasferire: al loro valore netto attuale o al netto degli accantonamenti già effettuati? Ad un ipotetico valore di realizzo? Chi procederebbe alla valutazione del valore di realizzo? Tutti questi quesiti dovranno trovare confronto e soluzioni coerenti con l’obiettivo finale: rendere nuovamente “bancabile” l’attivo delle banche italiane.

I pro della bad bank

Con la bad bank, una percentuale significativa delle sofferenze bancarie (sino a 50 miliardi, su totali 170 miliardi) sarebbe “venduta” a un soggetto terzo, ripristinando la capacità di erogare credito per le banche.
Contemporaneamente, le banche potranno “portare a perdita” l’eventuale minore valore fra valore netto a bilancio (dopo gli accantonamenti già fatti) e valore di cessione dei crediti.
Secondo Banca d’Italia l’operazione non dovrebbe gravare sulle casse pubbliche e dovrebbe vedere il coinvolgimento delle banche alla copertura dei costi dell’operazione, che dovrebbe essere remunerativa del sostegno pubblico.

I contro della bad bank

Una soluzione di sistema non è una soluzione di mercato: il prezzo di un NPL fissato dall’incontro fra domanda e offerta rappresenta il punto di incontro “giusto” per consentire vantaggi a chi vende (incasso immediato) e chi compra (un prezzo che sconta la probabilità di recuperare il credito nominale).
Esistono operatori specializzati (tutti esteri, al momento, anche a causa dell’arretratezza del mercato italiano) che “sanno di che si tratta” e che sembrano quindi poter rappresentare il soggetto in grado di dare il giusto prezzo, in modo autonomo e indipendente a un NPL o a un pacchetto di NPL. Non si vede come una bad bank, di nuova costituzione, possa dotarsi di tali competenze in tempi rapidi, e in assenza di conflitti di interesse.
Non si comprende la logica di pubblicizzare le perdite, attraverso la concessione di garanzie statali a favore di soggetti partecipati da banche private. Una soluzione contro il mercato, con assunzione di un rischio a carico del pubblico si pone, potenzialmente, in contrasto con la normativa europea sul libero esercizio di impresa e sugli aiuti di Stato.
Inoltre, la presenza nell’azionariato delle banche, le stesse che hanno erogato a suo tempo i crediti ora trasferiti alla bad bank, potrebbe rappresentare un elemento di debolezza: chi non ha saputo erogare credito correttamente, come potrebbe recuperarlo correttamente?

In sintesi

Sono favorevole allo smobilizzo dei NPL, non a una bad bank con un intervento pubblico rilevante, come sarebbe nel caso di una garanzia pubblica. Sono contrario a un intervento di CDP, che non deve divenire una “nuova IRI”.



Articolo""#IlGraffio: la bad bank aiuterà le banche?"" pubblicato il 25 febbraio 2015 su AdviseOnlyBlog 

lunedì 23 febbraio 2015

Il gap dei mercati azionari.



Il gap tra le performance azionarie tra Stati Uniti (+35,7% Large Cap, sugli ultimi 12 mesi) ed Europa (+18,7% Large Cap, sullo stesso periodo) è il più ampio degli ultimi 20 anni: «gli investitori sono disposti a pagare un premio eccezionale per accedere agli asset americani che offrono rendimenti davvero interessanti, ma dovrebbero anche chiedersi come reagiranno queste aziende ai piani della FED sulla normalizzazione della politica monetaria e aumento dei tassi di interesse». 
Le imprese USA si sono dimostrate negli ultimi 10 anni più efficienti nella gestione dei bilanci e nelle ristrutturazioni nel nuovo mondo post-crisi finanziaria rispetto alle aziende europee: 
(1) Le imprese statunitensi riescono spesso a sfruttare meglio i bassi tassi d’interesse a livello globale, riducendo i titoli in circolazione attraverso buy-back e aumentando la leva finanziaria; 
(2) La ripresa relativamente rapida del sistema finanziario degli Stati Uniti ha aiutato le imprese USA nei loro sforzi di ristrutturazione, attraverso procedimenti per fallimento rapidi e un’efficiente gestione del capitale circolante; 
(3) Le migliori aziende statunitensi hanno incrementato l’esposizione globale più rapidamente, riuscendo a beneficiare del trend di deprezzamento del $USA; 
(4) Dopo la crisi finanziaria solo poche aziende europee sono state in grado di generare grandissimi profitti (solo 2 a fine 2014). Al contrario negli Stati Uniti le aziende che hanno generato maxi guadagni sono raddoppiate, una media di 13 ogni anno.