domenica 24 aprile 2016

Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che fanno di tutto per ispinger le cose al peggio.



“” Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promuovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura. Ma per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adopran per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti,  l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e mora, sono le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la si può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene; sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere. Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendono gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per lìuna o per l’altra parte.””   

(A. Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. XIII)

La Bundesbank non è uno Stato nello Stato.



Da “Die Zeit” di Helmut Schmidt, sotto il titolo “La Bundesbank non è uno Stato nello Stato” (8 novembre 1996); lettera aperta al presidente della banca centrale tedesca Hans Tietmeyer:


“”La saluto, signor presidente della Bundesbank, con la massima considerazione ora come prima: ma ciò vale solo per la sua persona, non per la sua politica””. “”Il carattere e la diffusione dei suoi discorsi la rendono non solo poco amato – cosa sopportabile – ma rendono anche la Germania poco amata – cosa che non ci siamo meritati e che non possiamo sopportare. A molti dei nostri Paesi vicini la Germania, che lei rappresenta, appare dispotica e troppo prepotente … la Bundesbank al cui direttorio lei appartiene dagli inizi del 1990, ha pesantemente influenzato la stesura dei criteri di Maastricht. Ma né la Bundesbank né il ministro delle Finanze hanno mai pubblicamente spiegato il motivo per cui il debito totale di uno Stato partecipante non debba essere superiore al 60% del suo prodotto interno lordo … Allo stesso modo, non è motivato economicamente l’altro criterio fondante che il deficit annuale di uno Stato membro non possa essere superiore al 3% del suo prodotto interno””. “”Se lei, onorato signor Tietmeyer, insiste esclusivamente sulla “sicurezza della valuta”, come dice il testo dell’articolo 1 della Legge bancaria federale, allora lei non può avere in mente esclusivamente la valuta interna .. Se ne rende conto? La linea della Banca centrale negli anni dal 1930 al 1932, a causa di un’ideologia deflazionistica monomaniacale, ci ha condotto alla rovina, a perdite immense di posti di lavoro, con conseguenze politiche gravi … Mi auguro che la banca centrale europea, diversamente da lei, gentile signor Tietmeyer, prenda sul serio la stabilità esterna dell’euro, come la sua stabilità interna .. l’unico presupposto è che la politica monetaria si trovi in mani esperte, scevre dal ideologie, libere dalla pressione di gruppi di interessi e di inclinazioni partitiche … Il vantaggio più importante è il seguente: l’euro è il progresso tanto atteso che noi abbiamo percorso dal 1950 con il piano Schuman .. allora si verificheranno i presupposti per una politica estera e per la sicurezza dell’Unione europea .. il cancelliere Kohl ha detto a proposito: “Gioco qui la mia esistenza politica”.””

sabato 23 aprile 2016

E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore.



“” Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell’antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino ad un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (…), in parte per colpa degli uomini.  (…) E quella qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per l’esercito, e lo sciupinio che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro. 
Ma quando questo arriva ad un certo segno, nasce sempre (…), nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d’averla temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. (…) S’imploravan da’ magistrati que’ provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornare l’abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d’alcune derrate, di intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venir derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d’attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore. “”

(A. Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. XII)

domenica 17 aprile 2016

La roba c’è; ma la nascondono gli incettatori...



«La roba c’è; ma la nascondono gli incettatori e perciò aumenti di prezzo»: ecco una affermazione che si sente ripetere comunemente a spiegazione degli alti prezzi. La spiegazione spiega pochissimo e può trascinare ad errori irreparabili.
La vista di botteghe ricolme di ogni ben di Dio, la constatazione di grosse partite di merci depositate in qualche magazzino possono facilmente indurre in errore. Se quelle grosse cifre si ripartono tra gli abitanti di una città, si vede subito che esse si risolvono in quozienti piccolissimi, quasi evanescenti per ogni abitante. Le riserve compiono una funzione essenziale nell’alimentazione e nell’approvvigionamento di un paese. Se non ci fossero riserve, saremmo ad ogni tratto in pericolo di fame. Anche in tempi normali, in cui i trasporti funzionano perfettamente, occorre che ci siano ammassi disponibili di merci, perché mentre la produzione avviene a periodi irregolari, il consumo è continuo. Prendasi il frumento, prendasi il vino. La mietitura e la vendemmia si fanno in luglio ed in ottobre, una volta sola all’anno. È necessario che ci siano granai e cantine pieni e che questi si vuotino solo a poco a poco, se si vuole che i consumatori possano mangiare e bere per tutto l’anno. L’esistenza di ammassi anche colossali di grano o di cantine ben fornite non vuol dire che ci sia abbondanza. Può anzi essere perfettamente compatibile con una grande scarsità. Per quanti giorni debbono ancora servire quegli ammassi? Per quanti uomini? Può darsi che, fatta la divisione, il quoziente risulti scarso ed occorra fare molta economia se si vuole arrivare sino alla fine dell’anno, sino al nuovo raccolto.
Quegli ammassi non possono rimanere tutti presso il produttore. Spesso, sarebbero troppo lontani dal consumatore. Il frumento occorre sia a poco a poco versato ai mugnai e di qui ai negozianti di farina e ai fornai. A mano a mano che questi ultimi vuotano da una parte i loro magazzini colla vendita del pane, occorre che entri altrettanta farina dall’altra parte. Il fornaio non può essere sicuro di servire bene, correntemente la clientela, se non ha una scorta di farina per almeno due o tre giorni, meglio per una settimana, a sua disposizione. A loro volta i magazzini di rifornimento, i negozianti di farine della città debbono avere una scorta bastevole per una settimana, per quindici giorni. Altrimenti, se i mulini si arrestassero, se ci fossero difficoltà nei trasporti, come essi potrebbero rifornire i fornai? I mulini debbono avere scorte ancor più grosse: sia perché i contadini e i proprietari spesso vogliono vendere il loro raccolto prima dell’inverno, sia perché , potendo diventare, per nevi o piogge, le strade di campagna impraticabili, i mulini dovrebbero interrompere il lavoro se non avessero bastevoli scorte disponibili.
Così è per le farine e così per il vino, per l’olio, per i formaggi, per qualunque merce non deperibile. Per i formaggi è noto come le scorte dovrebbero talvolta uguagliare il raccolto di parecchi anni. Certe qualità di formaggio diventano buone solo dopo un anno o due. Quindi è evidente che dovrebbero sempre conservarsi scorte imponenti; e queste non vorrebbero affatto dire che ci sia straordinaria abbondanza, potendosi immettere nel consumo solo la parte più vecchia delle scorte.
Talvolta, le scorte sono impossibili, come per le derrate deperibili: verdura e frutta. In tal caso occorre che i trasporti dagli orti e dai frutteti della campagna funzionino in modo rapidissimo; fa d’uopo che ogni mattina migliaia e migliaia di carri e carretti partano dalla campagna e si rechino in città, ciascuno al suo posto stabilito, ciascuno dal negoziante con cui è in rapporti di affari, se si vuole che l’alimentazione della città proceda spedita. Il meccanismo del commercio delle derrate alimentari non si improvvisa. Fu creato attraverso anni e decenni di esperienze accumulate, di rapporti ininterrotti di affari. Si è formata una categoria di persone pratiche del mestiere, le quali sanno a quanto debbano giungere gli ammassi dei grossisti, dei fabbricanti, dei dettaglianti, come essi si debbano svuotare, come si possano colmare quelli deficienti, a chi si debba ricorrere per rifornirsi. Costoro intuiscono le prospettive di abbondanza e di scarsità e vuotano o riforniscono per tempo in corrispondenza i depositi. Tutti sono mossi dal desiderio del guadagno, è vero, ma intanto agiscono assai più efficacemente e più rapidamente di quanto abbia fatto il governo durante la guerra con i suoi censimenti, lenti e sbagliati, con le sue requisizioni, con i suoi ammassi in locali disadatti, con la sua roba andata a male.
Ad ogni modo, è bene ripetere che la frase: «la roba c’è» non ha alcun valore per concluderne che c’è abbondanza. Le scorte, anche se a prima vista paiono amplissime, possono essere appena in grado di salvare il paese dalla fame. Affrettarne il consumo, disperderne prima del tempo anche una piccola parte può essere un delitto che si sconterà domani con la carestia vera, irreparabile.
La domanda essenziale a cui bisogna rispondere è questa: le scorte sono oggi così larghe che si possa ritornare alla larghezza di consumi che si aveva prima della guerra?
Mancano i dati per poter rispondere alla domanda. Il governo, il quale ha una organizzazione statistica, dovrebbe decidersi a pubblicare i dati che sono a sua disposizione: arrivi giornalieri nei porti, giacenze, inoltri ferroviari, giacenze nei magazzini generali delle città. Gioverebbero assai per illuminare l’opinione pubblica.
Fu comunicato or ora che il governo possedeva scorte di tessuti di cotone per 15 milioni di metri e di scarpe per 700 mila paia. Le cifre parvero a taluno enormi e si gridò : perché il governo teneva nascosto tutto questo po’ po’ di roba? Ma, se si analizzano le cifre, si vede subito che trattasi di scorte modestissime. A 35 milioni di abitanti, i 15 milioni di metri di stoffa danno 43 centimetri a testa; e le 700 mila paia corrispondono ad un cinquantesimo di paio di scarpe per abitante. Nulla che possa legittimare un consumo men che prudente e parsimonioso.
Qualche altro indizio, in mancanza di dati precisi, consiglia la medesima prudenza. L’on. Murialdi ha affermato che si corre pericolo di non aver latte nel prossimo ottobre perché i casari hanno maggiore convenienza a produrre burro e formaggio. Ciononostante, non si nota davvero nell’abbondanza né del burro né del formaggio. La verità è che le vacche da latte sono diminuite di numero, per la distruzione che se ne è fatta senza criterio durante i primi anni di guerra; e la presente siccità ha aggravato singolarmente la situazione. Oggi, non avendo erba a sufficienza, si ammazzano vitelli troppo giovani e, per mancanza di latte, non si ingrassano a dovere. Per il momento, la carne non fa difetto e può essere venduta a prezzi tollerabili. I nuovi prezzi di calmiere, anche ribassati, non sono disformi dai prezzi della carne viva. Ma tra qualche tempo, fra un anno, se la siccità non si ripeterà nella primavera del 1920, è probabile che la carne viva giunga di nuovo a prezzi fantastici. Le scorte di bestiame sono assai ridotte e per ricostituirle saranno necessari parecchi anni. Taluni pratici dicono persino cinque o sei. Fino a quel momento, il consumo della carne dovrà rimanere ridotto, sul piede di guerra, se vorremo ricostituire il nostro capitale bestiame.
Qualche dato approssimativo sulla entità delle scorte mondiali si può desumere dalle statistiche dei cereali pubblicate dall’Istituto internazionale di agricoltura a Roma. Risulta dall’ultimo bollettino di giugno che al 10 maggio 1919 esisteva nel Canada una scorta di 10,8 e negli Stati uniti di 12,1 milioni di quintali di frumento, oltre ad 1,5 milioni di quintali di granoturco in ambedue i paesi presi insieme. Sembrano cifre rilevanti, espresse così in milioni di quintali. Ma a quale fabbisogno debbono far fronte? Innanzi tutto al consumo interno del nord America; che, grosso modo, potremmo supporre compensato dalle importazioni che l’Europa potrà ottenere dall’India, Argentina ed Australia. Anche supponendo tuttavia che tutti quei 23 milioni circa di quintali di frumento siano disponibili per l’Europa, bisogna riflettere che nei quattro mesi dal maggio all’agosto – e prima della fine d’agosto è difficile che il nuovo raccolto giunga ai consumatori sotto forma di pane e di paste alimentari – l’Inghilterra usa importare da 14 a 25 milioni di quintali, la Francia da 5 a 7, l’Italia da 6 a 7, la Spagna da 0,3 a 1,2, la Svezia circa mezzo milione, la Svizzera da 0,4 a 1,5 milioni di quintali. Ed ora, tolto il blocco, Germania e paesi ex austriaci faranno anche sentire la loro domanda. Le scorte non sono dunque eccezionalmente abbondanti. Tutt’altro. Occorre fare in modo da razionarne il consumo con grande avvedutezza e con grande spirito di sacrificio, se non si vuole ridursi negli ultimi mesi a razioni di fame.""

(Luigi Einaudi, La lotta contro il caro viveri, «Corriere della Sera», giugno - luglio 1919, in Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925))

Gli uomini sono abitudinari; non amano le variazioni improvvise. Erano abituati a pagare le uova..



"" Per molti, l’idea del giusto prezzo si connette con la consuetudine. Gli uomini sono abitudinari; non amano le variazioni improvvise. Erano abituati a pagare le uova in media, tra la state ed il verno, 2 lire la dozzina e si inquietano vedendo le uova andare su e giù. Costoro avrebbero anche, probabilmente, considerato ingiusto pagarle solo 50 centesimi; e reputano ingiustissimo pagarle oggi 5 o 6 o 7 lire. Circostanza interessante, gli economisti partecipano a questa aspirazione degli uomini. Anch’essi ritengono desiderabile che i prezzi in generale – non i singoli prezzi, che è cosa impossibile – subiscano poche variazioni. Essi aggiungono però – ma il popolo ed i prefetti ed i sindaci quasi sempre se ne dimenticano – che per ottenere il desiderabile risultato sarebbe necessario possedere una moneta la quale avesse una potenza d’acquisto costante. Da tempo gli economisti vanno alla cerca di questa moneta; né si può dire che i loro studi siano rimasti infruttuosi, sebbene per ora immaturi all’applicazione.
Oggi, però, non esiste in Italia, né altrove, una moneta avente una capacità di acquisto costante. Quando gli uomini parlano di 2 lire come di un prezzo «giusto» per la dozzina d’uova, intendono riferirsi alla unità monetaria lira, quale s’usava un tempo e con la quale sempre s’era usato comprare le dozzine d’uova. Ma la lira d’oggi è una cosa ben diversa dalla lira di prima della guerra. Da una interessante relazione dell’on. Alessio alla Giunta generale del bilancio ricavasi che le lire, ossia i pezzi di carta circolanti con questo nome, erano 3 miliardi e 593 milioni al 31 dicembre 1914 ed erano salite a 12 miliardi e 274 milioni al 31 dicembre 1918. Probabilmente ora abbiamo superato i 13 miliardi. Come è possibile che la lira, di cui ci sono ora 13 miliardi di unità, sia la stessa cosa della lira di cui ce n’erano solo 3 miliardi e 593 milioni di unità? Essa è una cosa tutt’affatto diversa. Essa è deprezzata, precisamente come lo sarebbero tutte le merci di cui si producesse una quantità strabocchevolmente più grande di prima. Non è evidente perciò che l’idea che il prezzo «giusto» delle uova sia di 2 lire la dozzina, è un’idea ragionevole finché le unità di moneta con cui le uova si cambiano rimangono suppergiù di 3 miliardi e 593 milioni – centinaia di milioni più o meno non monta -; ma diventa un’idea priva di senso quando, non essendo cresciute nel frattempo né galline né uova, le unità di moneta quasi si quadruplicano, diventando 13 miliardi? La lira, sia di carta o d’oro, non ha nessun valore fisso, immutabile. Come tutte le altre merci, vale più o meno a seconda che essa è meno o più abbondante. L’arte di governo sta nel farne variare lentamente e con accortezza la massa circolante. Questo vogliono, questo sempre predicarono – al deserto – gli economisti. Invece le lire sono divenute moltissime; e col loro moltiplicarsi tutte le idee degli uomini intorno al «giusto» prezzo delle cose devono forzatamente cambiare.""

(Luigi Einaudi, La lotta contro il caro viveri, «Corriere della Sera», giugno - luglio 1919, in Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925))