martedì 29 marzo 2016

Tu chiamala, se vuoi, lobby.




Un estratto di questo articolo è stato pubblicato nella rubrica #IlGraffio su AdviseOnlyBlog in data  29.3.2016.

L’ABI, l’associazione delle banche italiane; è un gruppo di interesse il cui obiettivo principale è influenzare a proprio vantaggio l’adozione, la redazione e la realizzazione di scelte e politiche pubbliche.

E’ una “lobby” forte, compatta, che con decisione e modalità coerenti nel tempo (dal punto di vista ABI) ha condotto una costante azione di stimolo verso il governo e le istituzioni per sostenere le proprie ragioni, industriali e di sistema; guardando al passato anche recente, l’ABI ha avuto sinora maggior “successo” dell’analoga “lobby” del mondo industriale (Confindustria). Ma continuerà questo “successo”? Vediamone il contesto.



Nata nel 1945 con l’obiettivo di “essere considerati dalle autorità finanziarie e dal governo (uno) strumento di collaborazione con la politica economica dell’esecutivo” conta oggi 952 soci, 181 dipendenti totali; i 3 principali associati (IntesaSanPaolo/ISP, Unicredit, Mediobanca) che “pesano” per il 67,55% dell’intera capitalizzazione di borsa del settore; Unicredit ed ISP controllano insieme il 26% dei componenti il Comitato Esecutivo, il 20% del Consiglio Nazionale, il 33% delle Commissioni regionali; fra i 12 principali associati (ISP, Unicredit, UBI, Mediobanca, MPS, B. Popolare, BNL/Paribas, BPER, BPM, B. Generali, B.Popolare Sondrio, Carige), 7 intrattengono qualche forma di collegamento ed interessenza con altri aderenti al’ABI.

Le banche hanno attività di bilancio di 1.800 miliardi di euro, e più di 300.000 dipendenti (diminuiti nel corso degli ultimi decenni).

Con l’assetto sopra descritto, nel suo operare l’ABI è “naturalmente” predisposto a sostenere le ragioni dei suoi principali associati, che ne orientano i lavori e le azioni; oltre al governo (in particolare, il MEF), l’ABI intrattiene rapporti istituzionali con l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), la Banca d’Italia e la BCE, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP).

Specularmente, anche le casse di risparmio e le fondazioni bancarie che ne hanno il controllo e/o la partecipazione hanno costituito una loro associazione, l’ACRI, che conta 119 soci (112 ordinari e 7 associati), e che come associazione di categoria svolge un'attività di rappresentanza e di tutela degli interessi degli Associati e di ausilio operativo; l'attività nei confronti delle Casse di Risparmio è sviluppata in stretta collaborazione con ABI per le tematiche comuni alle altre banche, rappresentando quindi un naturale “alleato” nella difesa delle ragioni dell’industria bancaria italiana. 


In prospettiva, è prevedibile che una “lobby” che considera prioritario e “strategico” il mantenimento della propria posizione dominante nel settore finanziario, da difendere contro “new comers” come FinTech, “shadow banking”, finanza informale, si porrà come ostacolo alla concorrenza fra operatori del credito e dei servizi finanziari alle imprese ed ai risparmiatori. Ed a perdere, saranno quanti hanno maggior bisogno di “aria nuova” allo sportello.

martedì 22 marzo 2016

Piccoli appunti sul Brexit.




Un estratto di questo articolo è stato pubblicato nella rubrica #IlGraffio su AdviseOnlyBlog in data  22.3.2016.

Il 23 giugno i cittadini del Regno Unito (Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda del Nord) voteranno il referendum per l’uscita dalla UE, il c.d. Brexit.

Fiumi, ormai ingrossati, di parole scorrono sulle conseguenze di un possibile Brexit. Londra, la capitale, centro finanziario mondiale, potrebbe perdere “appeal” e vedere l’esodo di banche e società finanziarie (e loro dipendenti) verso altre piazze, con impatti oggi difficilmente quantificabili su tasse incassate, posti di lavoro, prezzi delle case.

Noi ci limitiamo a mettere in fila una serie di dati ed informazioni che “rendono il contesto” di un evento che, ove accadesse, aprirebbe scenari complessi per l’UE.


Il Regno Unito è il secondo paese UE per PIL (2.950 miliardi su totali 15.577 miliardi) dopo la Germania, ed il terzo per popolazione (64,9 milioni, su totali 443,6 milioni) dopo Germania e Francia; è il secondo “contribuente netto” del bilancio UE (8.461 milioni annui) dopo la Germania (13.824 milioni) e prima della Francia: in caso di Brexit, il contributo mancante verrebbe quindi distribuito sugli altri paesi (nell’ordine, Germania + 2.503 milioni, Francia +1.871 milioni, Italia +1.384 milioni, Spagna + 906 milioni, Olanda, Svezia, Belgio, Danimarca, Austria); oggi, la somma di esportazioni ed importazioni a/da altri paesi esteri pesa per il 60% del PIL britannico: una conseguenza del “Brexit” sarebbe un peggioramento (seppure di difficile quantificazione) di tale rapporto; su 64,9 milioni di abitanti, gli stranieri provenienti da paesi UE sono oggi 3 milioni, di cui 790.000 polacchi, 380.000 irlandesi, 520.000 da paesi dell’Est, 300.000 tedeschi, 150.000 italiani: potrebbe esserci un “giro di vite” su questi flussi, con un peggioramento delle condizioni di accoglimento.


Secondo un studio di Global Counsel UE, i paesi che sarebbero maggiormente colpiti dalla “Brexit” sarebbero, nell’ordine, Olanda, Irlanda, Cipro, Portogallo, Grecia; l’Italia sarebbe fra i paesi meno colpiti.


Oggi, la Gran Bretagna è il secondo paese UE (dopo l’Olanda) per libertà e liberalizzazione dei mercati e degli scambi; da decenni, ha un governo che persegue una decisa politica “pro-mercato” e questa impostazione è stata ed è importante quando la UE affronta temi di libero mercato, concorrenza, liberalizzazioni. Il Regno Unito fa parte dei paesi UE con un approccio più liberale all’economia -- insieme a Olanda, Repubblica Ceca, Svezia, Danimarca, Finlandia, Slovacchia, Irlanda, Lituania, Lettonia ed Estonia – e “pesa” per il 12,7% nelle votazioni, contribuendo in modo decisivo alla (eventuale) minoranza di blocco (che deve essere del 35% per avere efficacia) nelle votazioni su argomenti che toccano un eccesso di regolamentazione: una “Brexit” avrebbe quindi un impatto decisivo sul fronte “gruppo liberale”. Se la Gran Bretagna uscisse dalla UE, il peso nelle votazioni vedrebbe la Germania salire dal 16.9% al 18%, la Francia dal 13% al 15%, l’Italia dal 12,1% al 14%; tutti paesi con una vocazione da “protezionistica degli interessi nazionali” all’ ”agnostico per default”.


“Brexit” aprirebbe uno scenario che renderebbe più fragili e deboli quanti credono, o cercano ancora di credere, nel libero mercato e nella concorrenza.


giovedì 3 marzo 2016

E nessuna stregoneria finanziaria riuscì a salvare la situazione.



“”Nel 1717 la Compagnie du Mississippi, istituita con patente regia in Francia, si dispose a colonizzare la vallata meridionale del fiume Mississippi, fondando così la città di New Orleans. Per finanziare i suoi ambiziosi progetti, la compagnia, che godeva di buoni rapporti alla corte di Luigi XV, vendette quote presso la borsa valori di Parigi. Lo scozzese John Law, il direttore della compagnia, era anche il governatore della banca centrale di Francia. Non bastasse, il re lo aveva nominato controllore generale di Francia, carica che grosso modo corrisponderebbe a un ministro delle Finanze odierno. Nel 1717 il corso inferiore del Mississippi offriva ben poche attrattive, a parte gli acquitrini e gli alligatori; tuttavia la Compagnie du Mississippi aveva diffuso voci di favolose ricchezze e di opportunità senza limiti. In Francia aristocratici, uomini d’affari e compassati membri della borghesia cittadina si fecero ingannare da quelle fantasie, e i prezzi delle azioni Mississippi s’impennarono. Inizialmente, le azioni venivano offerte a 500 livres l’una. Il 1° agosto 1919 venivano trattate a 2750. Il 30 agosto valevano 4500, e il 4 settembre raggiunsero quota 5000. Il 2 dicembre il prezzo di un’azione Mississippi superò la soglia delle 10.000 livres. Per le vie di Parigi c’era euforia. C’era chi vendeva tutto quello che possedeva e chiedeva prestiti cospicui per poter comprare azioni Mississippi. Tutti credevano di aver trovato il modo di diventare ricchi. Dopo pochi giorni, s’affacciò la paura. Alcuni speculatori si resero conto che il valore delle azioni era assolutamente irrealistico, oltre che insostenibile. Pensarono che era meglio vendere mentre il mercato era ancora al suo picco. Come crebbe la disponibilità di azioni, il prezzo cominciò a scendere. Quando altri investitori videro che il prezzo scendeva, pure loro vollero uscire al più presto. Il valore di mercato crollò ulteriormente, creando un effetto valanga. Allo scopo di stabilizzare il prezzo, la banca centrale di Francia – su ordine del governatore John Law – cominciò a fare incetta di azioni Mississippi, ma si dovette fermare quando non ci furono più soldi. Arrivati a questo punto John Law, in quanto controllore generale delle Finanze, autorizzò di stampare altra valuta per poter comprare altre azioni. Questo portò l’intero sistema economico francese dentro una bolla finanziaria. E nessuna stregoneria finanziaria riuscì a salvare la situazione. Il prezzo delle azioni Mississippi piombò da 10.000 livres alle 1000 di prima, per collassare poi completamente fino a che esse non valevano più un soldo. A questo punto la banca centrale e la tesoreria reale possedevano una quantità enorme di carta straccia e avevano le casse vuote. I grossi speculatori ne uscirono sostanzialmente illesi – avevano venduto in tempo. I piccoli investitori persero tutto, e non pochi si suicidarono. La Bolla del Mississippi fu uno dei crolli finanziari più spettacolari della storia. Il sistema finanziario della corona francese non si riprese del tutto da quel colpo. Il modo in cui la Compagnie du Mississippi usò la propria influenza politica per manipolare il valore delle azioni e alimentare la frenesia della domanda portò alla perdita totale di fiducia che il pubblico aveva nel sistema bancario francese e nella saggezza finanziaria del re di Francia. Luigi XV trovò sempre più difficile ottenere credito. Questa fu una delle principali ragioni per cui l’impero francese d’oltremare finì per cadere in mano britannica. Mentre gli inglesi potevano chiedere facilmente sovvenzioni e prestiti a basso tasso d’interesse, la Francia non vi riusciva che moderatamente, oltre a dover pagare forti interessi. Allo scopo di coprire i crescenti debiti, il re di Francia fu costretto a prendere in prestito fondi a tassi d’interesse sempre più alti. Alla fine, ormai negli anni Ottanta, Luigi XVI, che era salito al trono dopo la morte del nonno, si rese conto che metà del suo budget annuale se ne andava per coprire gli interessi sui prestiti, e che stava quindi avviandosi alla bancarotta. Con riluttanza, nel 1789, Luigi XVI convocò gli Stati Generali, cioè il parlamento francese che non si riuniva da un secolo e mezzo, per trovare una soluzione alla crisi. Cominciò così la Rivoluzione francese.””



Yuval Noah Harari, “Da animali a dei. Breve storia dell’umanità”, 2011, 2° ed. it. 2016, pagg. 394-396

Essi non pregarono Dio perché desse loro la risposta.



“” Nel 1744, in Scozia, due ecclesiastici presbiteriani, Alexander Webster e Robert Wallace, decisero di creare un fondo assicurativo sulla vita che avrebbe fornito pensioni alle vedove e agli orfani di ministri del culto deceduti. Il loro programma prevedeva che ciascuno dei ministri del culto pagasse una piccola quota del proprio reddito mettendola in un fondo che avrebbe poi investito quel denaro. Se un ecclesiastico moriva, la sua vedova avrebbe ricevuto i dividendi sui profitti di quel fondo. Ciò avrebbe consentito alla donna di vivere dignitosamente per il resto della sua vita. Ma per determinare quanto gli ecclesiastici avrebbero dovuto pagare in modo che il fondo fosse abbastanza consistente per far fronte alle obbligazioni, Webster e Wallace avevano bisogno di prevedere quanti ministri del culto fossero morti ciascun anno, quante vedove e orfani avrebbero lasciato, e per quanti anni le vedove sarebbero sopravvissute ai loro mariti. Si faccia attenzione a ciò che i due ecclesiastici non fecero. Essi non pregarono Dio perché desse loro la risposta. Né la cercarono nelle Sacre scritture o tra le opere degli antichi teologi. E neppure si inoltrarono in astratte speculazioni filosofiche. Essendo scozzesi, erano due tipi pratici. Si misero in contatto con un professore di matematica dell’università di Edimburgo, Colin Maclaurin. Insieme a lui raccolsero dati sulle età nelle quali la gente morva e li usarono per calcolare quanti loro colleghi probabilmente erano destinati a passare a miglior vita. Il loro lavoro si fondava su diverse nuove conquiste nei campi della statistica e del calcolo delle probabilità. Una di queste era la famosa “legge dei grandi numeri” di Jacob Bernoulli. Bernoulli aveva codificato il principio secondo cui, mentre sarebbe stato difficile prevedere con certezza un singolo evento quale la morte di una particolare persona, era però possibile prevedere con grande accuratezza il risultato medio di molti eventi simili. In altre parole, mentre Maclaurin non sarebbe stato in grado di prevedere se Webster e Wallace fossero venuti a mancare l’anno a venire, poteva però, in base a sufficienti dati, dire a Webster e Wallace quanti ministri presbiteriani scozzesi sarebbero presumibilmente morti l’anno a venire. Fortunatamente avevano dati pronti da utilizzare. Si dimostrarono particolarmente utili le tavole attuariali pubblicate cinquant’anni prima da Edmond Halley. Halley aveva analizzato le registrazioni di 1238 nascite e di 1174 decessi ottenuti dalla città di Breslau, in Germania. Le tavole di Halley consentirono di vedere, per esempio, che una persona di vent’anni aveva una probabilità su 100 di morire in un dato anno, mentre una persona di cinquant’anni ne aveva una su 39. Passando in rassegna questi numeri, Webster e Wallace conclusero che su una media di 930 ministri presbiteriani viventi ogni anno ne sarebbero morti in media 27, 18 dei quali avrebbero lasciato delle vedove. Cinque di loro non avrebbero lasciato vedove ma figli orfani, e due di quelli che avevano lasciato vedove avevano anche responsabilità di figli nati da precedenti matrimoni, i quali non avevano ancora raggiunto l’età dei sedici anni. Calcolarono anche quanto tempo sarebbe probabilmente passato prima che la vedova morisse o si risposasse (in entrambe queste eventualità, sarebbe cessato il pagamento della pensione). Questi dati consentirono a Webster e Wallace di determinare quanto denaro i ministri presbiteriani aderenti al fondo pensione avrebbero dovuto pagare allo scopo di provvedere ai propri cari quando loro non ci fossero stati più. Contribuendo con 2 sterline, 12 scellini e 2 pence l’anno, un ministro del culto poteva garantirsi che sua moglie, una volta rimasta vedova, avrebbe ricevuto almeno 10 sterline l’anno – una somma non da poco, in quel tempo. Se per caso pensava che non fosse abbastanza, poteva sceglier di versare di più, fino ad un massimo di 6 sterline, 11 scellini e 3 pence l’anno – che avrebbe garantito alla sua vedova di ricevere la somma ancor più ragguardevole di 25 sterline l’anno. Secondo i loro calcoli, per l’anno 1765 il Fondo di Previdenza per Vedove e Figli dei Ministri della Chiesa di Scozia avrebbe avuto un capitale ammontante a 58.348 sterline. I loro calcoli si rivelarono sorprendentemente accurati. Quando giunse l’anno in questione, il capitale del Fondo stava a 58.347 sterline – solo uno in meno di quanto era stato preventivato! Era addirittura meglio delle profezie di Abacuc, di Geremia e di san Giovanni.””

Yuval Noah Harabi, “Da animali a dei. Breve storia dell’umanità”, 2011, 2° ed. it. 2015, pagg. 312-314

martedì 1 marzo 2016

I numeri delle forze armate.



Secondo l’ISS, SPRI 2015, la spesa militare dei 3 principali paesi mondiali vede gli USA in testa con oltre 600 miliardi USD, davanti alla Cina con quasi 200 miliardi e la Russia con 90 miliardi; l’incidenza della spesa militare sul PIL varia fra il 4,5% russo, il 3,5% statunitense ed il 2% cinese. 
La Cina ha oltre 6.000 carri armati da combattimento, mentre Russia ed USA ne hanno poco meno della metà (3.000); gli USA hanno 3.700 aerei da combattimento, contro i 1.200 russi ed i 2.500 cinesi; gli USA sono anche primi per navi da combattimento (100), contro le 75 cinesi e le 30 russe; le navi portaerei USA sono 10, quelle cinesi e russe 2; i sottomarini con testate nucleari USA sono 14, quelli russi 12 e quelli cinesi 4. I militari cinesi sono 2.400.000, oltre il doppio di quelli USA (1.300.000), oltre 4 volte quelli russi (700.000). 
La spesa pro-capite annua USA è di 461.000 US$ per ogni militare, oltre 3 volte quella russa (128.900 US$), 5 volte quella cinese (83.300 US$).