Negli USA, secondo un recente studio, il 65% dei volumi
delle transazioni azionarie è fatto tramite algoritmi gestiti da robot (trading
algoritmico): era il 25% nel 2005, ha superato il 50% nel 2009; per tipologia
di asset finanziario, se il 65% delle transazioni azionarie è gestito da
software specializzati, le percentuali sono del 48% per i futures, del 38% per
le valute, del 26% per le opzioni, del 10% per le obbligazioni. In Europa il
trading algoritmico copre il 42% delle transazioni (era il 3% nel 2014). Con la
sempre maggiore disponibilità di informazioni (i c.d. “big data”) è quasi
infinita la mole di dati su cui “costruire” algoritmi, teorie, processi di
investimento e disinvestimento, tutti troppo difficili da interpretare per
l’operatore “umano” che inoltre è spesso irrazionale nelle sue decisioni;
l’utilizzo di sistemi ed algoritmi tende quindi a massimizzare i benefici,
minimizzare i rischi, eliminare il “bias”, il pregiudizio, individuale. Lo sviluppo
del trading algoritmico è anche legato all’introduzione della MIFID, la
regolamentazione europea che richiede la “best execution” delle transazioni,
mettendo in competizione piattaforme di transazione ed esecuzione delle
operazioni finanziarie che devono assicurare l’esecuzione del singolo ordine in
tempo reale ed alle migliori condizioni di prezzo e costo del servizio,
portando allo sviluppo così prepotente della macchina sull’uomo.
venerdì 4 settembre 2015
giovedì 3 settembre 2015
“”sovereign nations don’t go broke””, ovvero gli stati non falliscono: ma fanno di peggio, vanno in “default”.
Un estratto di questo articolo è stato pubblicato nella rubrica #IlGraffio su AdviseOnlyBlog in data 3.9.2015.
Quando
uno stato non riesce più a ripagare i suoi debiti, spesso
contratti con finanziatori esteri, dichiara tale sua incapacità (chiamata “default”);
con tale dichiarazione, si avviano negoziazioni per la ristrutturazione del
debito fra il paese debitore ed i finanziatori (che si riuniscono in un
“comitato”), assistiti dai rispettivi consulenti; con il “default”, il paese
non ha più accesso ai mercati finanziari per raccogliere nuovo debito (almeno
sino alla definizione della ristrutturazione) né ai prestiti del Fondo
Monetario Internazionale (FMI).
La
ristrutturazione è il procedimento con cui il debito viene modificato (attraverso
“swap”) nelle sue condizioni essenziali:
(a) riduzione del suo ammontare, ridotto
attraverso la rinuncia parziale, spesso sostanziale, al credito da parte dei
finanziatori;
(b) maggiore durata
residua del debito, spesso portata a lunghissima scadenza (e.g., 20-30
anni);
(c) riduzione degli interessi
applicati.
Mentre
il “default” sul debito domestico (sottoscritto dai cittadini dello stato) è
regolato dalla legge locale, il debito estero è regolato in modi difformi,
portando a casi di default sempre complessi. Alcuni esempi del passato: negli
anni Ottanta il debito estero di molti paesi latino-americani venne
ristrutturato (con perdite in conto capitale del 30-50% sul valore nominale) e
convertito in debito a lunghissimo termine denominato in dollari e garantito
dal governo USA (i famosi “Brady bond”); l’Argentina è andata in “default” 3
volte dal 1980 (cui si aggiunge il “default tecnico” del luglio 2014), e nei
215 anni a far tempo dal 1800 è stata in “default” per ben 80 anni complessivi;
il Venezuela ha il record (che potrebbe presto battere) di 11 casi di “default”
dal 1800. Nella lista dei possibili prossimi “default”, accanto al Venezuela,
potrebbe esserci l’Ucraina se il paese non raggiungerà un accordo con i suoi
creditori (possibile ma difficile, visto che la Russia è il singolo creditore
più importante con 3 mld USD sui totali 18 mld USD oggetto della trattativa),
ma non la Grecia (che si è sottoposta ad una ristrutturazione preventiva, con
il supporto di BCE, UE e prevedibilmente FMI).
Ogni
storia è diversa, ma con alcuni punti in comune: il sacrificio richiesto agli
investitori; lo “swap” fra vecchio debito e nuovo debito ristrutturato, a
valori nominali inferiori; l’apertura di contenziosi legali fra stato,
investitori, banche.
Lo
scenario diviene più complesso quando investitori professionali
specializzati in “default”, come i c.d. “vulture hedge fund”, entrano in
scena acquistando partite di vecchi “bond” che non sono stati consegnati in
sede di “swap” dai vecchi possessori; questi acquisti avvengono a valori
scontati (il vecchio debitore cerca di incassare “pochi, maledetti e subito”),
con l’obiettivo di avviare negoziazioni per vedersi riconoscere dal debitore un
valore il più alto possibile, sia tramite accordi diretti che azioni legali.
Il contenzioso legale è la
conseguenza della diversa legislazione che regola le vecchie emissioni di
debito andate in “default”; facendo un esempio, l’Argentina ha emesso, in
passato, una pluralità di debito pubblico regolato dalle leggi argentina,
statunitense, inglese, avendo come controparti (investitori) soggetti diversi
che hanno sottoscritto contratti con condizioni contrattuali diverse
(interessi, durata, clausole di risoluzione anticipata per mancati pagamenti
sul debito, o su altri debiti: la c.d. clausola “cross default”): per ogni
emissione vi sono quindi contratti diversi, e se non si raggiunge un accordo
complessivo (che nel caso argentino non si è raggiunto), i singoli investitori
hanno la possibilità di agire legalmente per difendere i propri diritti di
finanziatori. E’ quanto accaduto proprio nel caso dell’Argentina con
riferimento ai “bond” che non sono stati convertiti in sede di “swap” del 2005
e del 2010, “bond” regolati da leggi USA ed inglese, e che sono stati
successivamente acquistati da fondi specializzati; questi vecchi “bond” hanno
speciali clausole, come la “RUFO” che prevede che un eventuale accordo separato fra
Argentina e detentori di titoli originali “ante-default” “smonti” la struttura
complessiva della ristrutturazione del debito argentino, col risultato che
capitale ed interessi – stimati in oltre 30 miliardi di US$ -- diventerebbero
immediatamente dovuti ed esigibili. Seppure la clausola RUFO sia venuta a
scadere lo scorso dicembre 2014, ad oggi non c’è stato accordo fra le parti;
non solo, nel 2014 l’Argentina ha sostituito il “trustee” (che era una banca
USA) come agente pagatore con una banca locale argentina, presso la quale ha
depositato 161 milioni di US$, disponibili per il pagamento ai “bondholder” che
hanno in mano i “bond” emessi post-ristrutturazione del debito nel 2005 e nel
2010, a condizione che gli investitori trasferissero i titoli al nuovo
“trustee” argentino. Da qui è nata una disputa legale, ancora in corso, avviata
presso la corte USA, il cui giudice ha a suo tempo ritenuto illegale la
decisione con cui la legge argentina ha consentito di trasferire la
giurisdizione dei “bond” fuori degli USA (dove i “bond” erano stati
“contrattualizzati”); lo stesso giudice USA ha sancito che per poter “passare
ad incassare” i “bondholder” internazionali che non abbiano trasferito la
giurisdizione dei loro “bond” in Argentina dovranno chiedere l’autorizzazione
del giudice USA; senza tale autorizzazione, diverrebbero “complici”
dell’Argentina, poiché consentono al governo di eludere la sentenza del giudice
USA.
La
“matassa” legale, come si vede, è molto complessa, sia in questo caso che in
tutti i casi ove vi siano emissioni di “bond” regolati da leggi straniere, e
spesso di diversi paesi, con previsioni di arbitrati regolati da giurisdizioni
internazionali.
Le rimesse degli immigrati.
In Italia vivono 5 milioni di immigrati (di cui 2,4 milioni regolari), che hanno necessità e
desiderio di trasferire denaro alle famiglie lontane che vivono in Romania,
Cina, paesi nord-africani. Nel 2013, le rimesse sono state 5,4 miliardi di
euro, con una media di 1.083 euro annui per ciascun immigrato (con un massimo
di 3.190 euro per i cittadini cinesi); i flussi nel 2014 sono calati in modo
significativo del 26% a 4 miliardi, calo legato alla maggiore precarietà del
lavoro, alla crisi, a fenomeni di ricongiunzione familiare, ma anche ad una
maggiore azione di controllo sui flussi finanziari (“money transfer”) da parte
delle autorità (guidate dall’Ufficio di Informazioni Finanziarie, UIF). I
trasferimenti avvengono prevalentemente nei piccoli negozi (i c.d. “mama’s &
papa’s”) che offrono una pluralità di servizi, dai trasferimenti di denaro a
quelli telefonici ai prestiti informali, con costi transazionali elevati,
largamente superiori al 5% che dovrebbe essere un obiettivo realistico, seppure
elevato ed esoso, per i trasferimenti multi-valuta (tenuto conto della
parziale, od assente, convertibilità delle valute dei paesi di destinazione,
come la Cina). Le autorità “tengono d’occhio” le attività di “money transfer”
ove si annidano troppo spesso attività di riciclaggio; il limite giornaliero di
1.000 euro per i singoli trasferimenti, se confrontato con la media annua dei
trasferimenti effettuati dagli immigrati, sembra “fuori dimensione massima” e
tale da non incidere in modo efficace per ridurre i rischi di riciclaggio
nascosti nei flussi verso l’estero, camuffati nelle rimesse dal lavoro e dalle
attività di impresa.
mercoledì 2 settembre 2015
Gelati italiani, gelatai stranieri.
In Italia ci sono molti lavori artigianali che hanno fatto la storia del “vecchi mestieri” e che oggi sempre più vengono svolti da stranieri che ne apprendono i segreti e cercano di tramandarne le tradizioni di eccellenza. Secondo dati recenti, il 21% dei neoassunti pasticceri e gelatai è straniero, una percentuale che sale al 29,6% per conciatori di pelli e pellicce, al 25% per pittori e decoratori, che è il 13,6% per falegnami ed operatori nel settore del legno. Nel settore della ristorazione le percentuali crescono, con il personale straniero che segna il 51% delle nuove assunzioni, per lo più personale immigrato non qualificato.
Una
realtà dai 2 volti: capacità di accogliere ed integrare gli stranieri; disaffezione
degli italiani al lavoro manuale ed al “mestiere”, che viene confermata dal
sostanziale insuccesso dell’apprendistato come forma di prima occupazione per i
giovani (con nuovi contratti di apprendistato in caduta del 13,8% nei primi 7
mesi del 2015, a quota 115.538 in tutti i settori industriali e dei servizi).
martedì 1 settembre 2015
Pensione all’australiana.
Secondo alcuni esperti, una coppia australiana deve avere un
patrimonio di almeno 1 milione di AUS$ (680.000 euro) investito in una forma
pensionistica supplementare per vivere in modo agiato per gli ultimi anni della
loro vita; la stima si basa sia sui nuovi criteri, più restrittivi, per
accedere alla pensione pubblica, sia sulla base dello scenario dei mercati finanziari
che “vedono” una riduzione dei ritorni nel lungo termine. Tale patrimonio
sarebbe in grado di assicurare una rendita annuale di 58.000 AUS$ (39.000
euro), sufficiente ad uno stile di vita “con tutti i confort”. La maggior parte
degli australiani va in pensione con una cifra sufficiente ad una vita definita
“modesta”, all’età di 65 anni (65 anni e 6 mesi dal 2017, e 67 anni dal 2023),
con una pensione che varia in funzione di situazione familiare, eventuale casa
di proprietà e beni, redditi di lavoro ancora esistenti. Il ricorso a forme
pensionistiche è quindi una necessità; ancora più forte per le donne, che
vengono fortemente penalizzate sin dal corso della vita lavorativa durante la
quale guadagnano circa le metà degli uomini, ed al momento della pensione.
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