sabato 17 novembre 2018

“Reshoring”, industria, polarizzazione: la scelta non più rinviabile.

Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24Ore il 17 novembre 2018 





L’amministrazione USA persegue con determinazione una politica di “reshoring”: il ritorno della manifattura industriale in America, per ridare vigore alle fabbriche statunitensi, mantenendo la tecnologia nel paese e ricostruendo una base industriale; i dati di GDP/PIL ed occupazione confermano la validità del percorso avviato, che sarà lungo e non privo di tensioni con “partners” (ancora per quanto “partners” e non “nemici”?), utilizzando strumenti vecchi ma sempre efficaci: dazi, tariffe, interventi fiscali (come una riduzione, che potrebbe divenire cancellazione, di misure come l’ Alternative Corporate Taxation che consente la sostanziale esenzione fiscale degli utili trattenuti all’estero da parte di multinazionali statunitensi: “Apple docet”).

La politica è chiara: contrastare la Cina, accusata di varie colpe: concorrenza sleale, appropriazione di segreti industriali americani, utilizzo di pratiche illegali, sostegno indebito da parte dello stato alle imprese cinesi. L’obiettivo è ricostruire le filiere industriali, oggi “smontate” con produzioni sparse in paesi lontani dove il più importante vantaggio competitivo, spesso l’unico, è il più basso costo del lavoro, riportando quanta più produzione possibile negli USA. Dobbiamo pensare ad uno tsunami sulla struttura della competizione industriale, con risultati ancora poco immaginabili ma sufficientemente delineati: avremo catene e filiere che lavoreranno o per l’industria statunitense o per quella cinese, senza scambi reciproci significativi, ma anzi in feroce competizione. Due poli che eserciteranno tutta la loro capacità attrattiva nei confronti dei paesi terzi: e noi siamo fra quelli.

Lo scontro è destinato a crescere di intensità, e “stare fermi nel mezzo” non sarà possibile per gli altri “players”, che saranno chiamati ad abbracciare la causa industriale dell’uno o dell’altro dei contendenti, col risultato che non avremo probabilmente, in futuro, una globalizzazione mondiale ma una “globalizzazione bipolare” dove USA e Cina saranno i poli di attrazione di paesi terzi in una posizione “ancillare” e subalterna, dal punto di vista tecnologico ed industriale. Un cambio epocale e cruento.

Che cosa farà l’Europa? Si adeguerà alla manovra messa in campo dall’amministrazione USA, così ridefinendo il suo modo di fare industria? O cercherà una improbabile terza via? Ma l’Europa vuole (ancora) fare industria o si culla in un nirvana di declino inesorabile?

Domande a cui l’Europa (nell’accezione di paesi-UE) non ha ancora dato risposta, e chissà se sarà in grado di dare.

Il dibattito è assente; ma non possiamo dimenticare che alla fine del decennio passato la re-industrializzazione dell’Europa era al centro dell’attenzione del Consiglio europeo: far crescere la quota dell’attività industriale dal 15% sul PIL attuale al 20% in pochi anni.
Il peso dell’industria industriale nei paesi UE è costantemente diminuito dal 2000, quando pesava per il 26% sul PIL europeo; tale evoluzione è stata variegata fra i principali paesi: la Germania è rimasta stabile  (22,5% nel 2000, 23% nel 2013), mentre per Italia (20% nel 2000, 15,5% nel 2013), Francia (15% nel 2010, sceso al 10%), Spagna (18% nel 2000, sceso al 13%) e UK (16% nel 2000, sceso al 10%) il peso dell’industria sul PIL è diminuito in modo significativo.
A livello mondiale, il quadro è chiaro: l’Europa aveva una quota dell’attività manifatturiera mondiale del 31% nel 2000 ed è scesa al 22%; gli USA, nello stesso periodo, sono passati dal 27% al 17% e la Cina è cresciuta dal 10,5% al 22%.
Nella “Relazione sulla competitività 2013: senza l’industria non ci saranno né crescita né nuova occupazione” la UE ha a suo tempo individuato le ragioni per mantenere una "dimensione critica" delle attività manifatturiere nelle economie europee, i vantaggi comparativi dell'UE che devono essere mantenuti e migliorati, le debolezze strutturali a lungo termine che devono essere affrontate nel settore manifatturiero (rinviamo al documento  http://ilblogdisodocaustico.blogspot.com/2014/12/una-proposta-per-il-semestre-europeo.html ). A tali ottime ragioni si aggiunge ora la necessità di “prendere una decisione” nel conflitto epocale fra USA e Cina, pena l’estinzione rapida e dolorosa delle nostre economie industriali.

Nei decenni trascorsi l’Europa ha progressivamente ridotto la sua capacità produttiva, e quindi visto ridursi, di conseguenza, la sua capacità di innovare e creare nuove tecnologie (come semplice esempio, si osservi la sostanziale assenza di “player” europei nel settore TLC).
Come primo passo, riteniamo essenziale “re-industrializzare”: ri-costruire nuova impresa; in tale contesto, per consentirla, un primo tema importante è il recupero di migliaia di terreni e siti prevalentemente industriali non più utilizzati per l’attività manifatturiera.

Nella UE si stima che ci siano oltre 20.000 aree industriali dismesse che presentano criticità per il livello di contaminazione ambientale; L’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) stima che in Europa vi siano complessivamente 250.000 siti contaminati e 3.000.000 di siti potenzialmente contaminati, per il 70% a causa di utilizzi a fini militari ed industriali (prevalentemente, acciaierie, lavorazione di metalli ed impianti chimici).

La seconda “parola d’ordine” della UE è allora: “riqualificare”.
 
Programmi “sponsorizzati” dalla UE (FESR, TIMBRE, ..) sono stati avviati per sostenere azioni innovative per lo sviluppo urbano sostenibile, con risorse finanziarie limitate, se rapportate alla complessità e vastità del fenomeno. La proposta formulata dalla Commissione UE in sede di presentazione del Quadro Finanziario 2014-2020 indicava lo stanziamento di 336 miliardi di euro a favore delle regioni europee, destinatarie del programma FESR. Dalle proposte alle azioni gli stanziamenti spesso scompaiono e comunque vengono ridimensionati.
Molto resta da fare; in assenza di dati puntuali (causa l’assenza di appropriati “database”), si possono fare delle stime assai grossolane; limitatamente alla valutazione dei soli costi derivanti da inquinamento atmosferico (una frazione dell’inquinamento complessivo), l’EEA stima un valore compreso fra 102 e 169 miliardi di euro; gli interventi sul suolo, prevedibilmente, potrebbero essere un multiplo di tale valore. 
Per iniziare, si tratta di somme enormi che oggi sono “fuori budget” della UE.

Ma se non si agisce ora, il risultato sarà duplice: la perdita di posizione nella filiera industriale occidentale, volendo ben immaginare che l’Europa vorrà adeguarsi al “nuovo corso” indicato dall’amministrazione USA; ed un progressivo inevitabile degrado del territorio europeo, con un “patrimonio” destinato ad accumulare “deficit ambientale”, abbandonato, senza immediate prospettive di utilizzo, che richiede costi (talora elevati) per la sua mera “custodia”.




mercoledì 24 ottobre 2018

Nave Italia stai attenta, non è l'iceberg che deve cambiare direzione

Questo articolo è stato pubblicato su Econopoly de IlSole24ore il  24 ottobre 2018


Economisti, giornalisti, addetti ai lavori, professori, neofiti e “bloggers” (loro sì che sanno …)  pontificano, giudicano, si accusano reciprocamente lanciandosi strali e “fatwa” quando discutono di valori rappresentativi della ricchezza come il “PIL, prodotto interno lordo” e delle passività come il “Debito pubblico”; peraltro, osservano in particolare il Debito in una dimensione statica (“quanto è oggi il debito pubblico italiano?”) tralasciando, come se fosse un indesiderato ospite a tavola, la sua dimensione dinamica: in altri termini, si rifiutano pervicacemente di rispondere alla domanda ben più rilevante per chi “quel debito” deve valutare se sottoscrivere o vendere: “quale sarà il debito fra X anni?”.

 Il Fondo Monetario Internazionale (per molti assurto a pericolosa Spectre, intenta a dominare il mondo grazie ai suoi infingardi “complotti”) ha tentato di fare una analisi della dinamica attesa di 31 paesi nel mondo (inclusi i principali paesi sviluppati, e molti in via di sviluppo), riassunta in un documento del World Economic Forum datato 11 ottobre 2018 (“Most government have no idea how much they own”). Premessa numero 1: il “metro” adottato è lo stesso per tutti i paesi, per cui non iniziamo a fare i soliti distinguo, sport atavico nazionale (“ma se prendiamo in considerazione le attività dei privati, i numeri cambiano… no! Non dite stupidaggini”); premessa numero 2: il calcolo include sia attività finanziarie (investimenti azionari in imprese pubbliche, oro, disponibilità liquide) che non finanziarie (immobili, terreni, risorse naturali come minerali ed energetici) dei singoli settori pubblici (lo “stato”, con esclusione, quindi di quanto detenuto dal settore privato, famiglie ed imprese), e passività dello stato (debito pubblico, passività future come impegni per coperture pensionistiche pubbliche, nel caso italiano INPS, e sanitarie pubbliche, calcolate sino a tutto il 2050), che chi fosse interessato a conoscere in dettaglio troverà nell’ “Annex Table 1.2.1” del documento citato, e poi classificando i paesi dal “meno virtuoso” a quello “più virtuoso” calcolando il “Patrimonio Netto dello stato” (differenza fra gli attivi sopra indicati e le passività, attuali e prospettiche, sino al 2050). I dati sono riferiti all’anno 2016. Si parla di “stato” e non di privati, sia ripetuto ad abundantiam (“conosciamo i nostri polli…”).

Esaudiamo subito la curiosità del lettore, presentando la Tabella riassuntiva dell’esercizio fatto, che conferma quanto i più avveduti fra i lettori hanno già compreso, e da tempo.
L’Italia si colloca al terzo posto in questa speciale classifica dei “cattivi”, preceduta solo da Barbados e Grecia, e tallonata dal Belgio; tutti questi 4 paesi hanno un patrimonio netto negativo che rappresenta oltre il 100% del PIL 2016; per l’esattezza, il patrimonio netto per l’Italia è negativo, e pari al 207,5 % del PIL 2016 (in termini finanziari, il “net present value” delle passività attuali e future, al 2050).


 


Al quinto posto di questa “classifica dei cattivi” si posiziona il Gambia, seguito da Gran Bretagna, Portogallo, Spagna e Brasile.

Vediamo in dettaglio i dati che IMF/WEF ha elaborato per il nostro paese (ripetiamo, facendo riferimento alle attività, incluse le partecipazioni azionarie in società nazionali, ed alle passività attuali e potenziali future, il tutto avendo come riferimento temporale ultimo l’anno 2050, e partendo dal dato del PIL 2016 pari a 1.680,5 miliardi di euro).



in % PIL
in mld Euro
Passività Lorde
132,0
2218,3
Attività
12,5
210,1
Passività Nette
119,5
2008,2
Debito pensionistico pubblico 2015-2050
47,2
793,2
Passività Servizio Sanitario pubblico 2015-2050
40,8
685,6
Passività Nette + Debito Pens. e Sanitario
207,5
3487,0


Il debito pensionistico è stato calcolato da IMF/WEF sulla base della normativa in essere a fine 2016, quindi tenendo conto della continuità della “legge Fornero” con la previsione di un’età pensionistica a 67 anni, come regola generale; risulta quindi evidente che la modifica (introdotta con il DEF 2019 dal governo in carica) che prevede una minore età pensionabile (la “quota 100”) andrebbe ad incidere sul valore futuro del debito pensionistico pubblico al 2050, peggiorandolo.

Il quadro che emerge – per chi non crede ai complotti perpetrati ai danni ed alle spalle del paese, ormai mitizzati sino a renderli “ipso facto” … -- è di notevole preoccupazione: il patrimonio netto pubblico dello stato italiano è negativo, pari a 3.487 miliardi di euro, il 207,5 % del PIL 2016; lasciamo ai demiurghi, ai novelli sfasciacarrozze, ai cantastorie, ai giullari di corte indicare come si possa mettere in carreggiata la bagnarola che decenni di “malagestio” hanno mantenuto sulla rotta di collisione con l’iceberg del default. Ultimo avviso: non è l’iceberg che deve cambiare rotta e direzione.