domenica 17 aprile 2016

La roba c’è; ma la nascondono gli incettatori...



«La roba c’è; ma la nascondono gli incettatori e perciò aumenti di prezzo»: ecco una affermazione che si sente ripetere comunemente a spiegazione degli alti prezzi. La spiegazione spiega pochissimo e può trascinare ad errori irreparabili.
La vista di botteghe ricolme di ogni ben di Dio, la constatazione di grosse partite di merci depositate in qualche magazzino possono facilmente indurre in errore. Se quelle grosse cifre si ripartono tra gli abitanti di una città, si vede subito che esse si risolvono in quozienti piccolissimi, quasi evanescenti per ogni abitante. Le riserve compiono una funzione essenziale nell’alimentazione e nell’approvvigionamento di un paese. Se non ci fossero riserve, saremmo ad ogni tratto in pericolo di fame. Anche in tempi normali, in cui i trasporti funzionano perfettamente, occorre che ci siano ammassi disponibili di merci, perché mentre la produzione avviene a periodi irregolari, il consumo è continuo. Prendasi il frumento, prendasi il vino. La mietitura e la vendemmia si fanno in luglio ed in ottobre, una volta sola all’anno. È necessario che ci siano granai e cantine pieni e che questi si vuotino solo a poco a poco, se si vuole che i consumatori possano mangiare e bere per tutto l’anno. L’esistenza di ammassi anche colossali di grano o di cantine ben fornite non vuol dire che ci sia abbondanza. Può anzi essere perfettamente compatibile con una grande scarsità. Per quanti giorni debbono ancora servire quegli ammassi? Per quanti uomini? Può darsi che, fatta la divisione, il quoziente risulti scarso ed occorra fare molta economia se si vuole arrivare sino alla fine dell’anno, sino al nuovo raccolto.
Quegli ammassi non possono rimanere tutti presso il produttore. Spesso, sarebbero troppo lontani dal consumatore. Il frumento occorre sia a poco a poco versato ai mugnai e di qui ai negozianti di farina e ai fornai. A mano a mano che questi ultimi vuotano da una parte i loro magazzini colla vendita del pane, occorre che entri altrettanta farina dall’altra parte. Il fornaio non può essere sicuro di servire bene, correntemente la clientela, se non ha una scorta di farina per almeno due o tre giorni, meglio per una settimana, a sua disposizione. A loro volta i magazzini di rifornimento, i negozianti di farine della città debbono avere una scorta bastevole per una settimana, per quindici giorni. Altrimenti, se i mulini si arrestassero, se ci fossero difficoltà nei trasporti, come essi potrebbero rifornire i fornai? I mulini debbono avere scorte ancor più grosse: sia perché i contadini e i proprietari spesso vogliono vendere il loro raccolto prima dell’inverno, sia perché , potendo diventare, per nevi o piogge, le strade di campagna impraticabili, i mulini dovrebbero interrompere il lavoro se non avessero bastevoli scorte disponibili.
Così è per le farine e così per il vino, per l’olio, per i formaggi, per qualunque merce non deperibile. Per i formaggi è noto come le scorte dovrebbero talvolta uguagliare il raccolto di parecchi anni. Certe qualità di formaggio diventano buone solo dopo un anno o due. Quindi è evidente che dovrebbero sempre conservarsi scorte imponenti; e queste non vorrebbero affatto dire che ci sia straordinaria abbondanza, potendosi immettere nel consumo solo la parte più vecchia delle scorte.
Talvolta, le scorte sono impossibili, come per le derrate deperibili: verdura e frutta. In tal caso occorre che i trasporti dagli orti e dai frutteti della campagna funzionino in modo rapidissimo; fa d’uopo che ogni mattina migliaia e migliaia di carri e carretti partano dalla campagna e si rechino in città, ciascuno al suo posto stabilito, ciascuno dal negoziante con cui è in rapporti di affari, se si vuole che l’alimentazione della città proceda spedita. Il meccanismo del commercio delle derrate alimentari non si improvvisa. Fu creato attraverso anni e decenni di esperienze accumulate, di rapporti ininterrotti di affari. Si è formata una categoria di persone pratiche del mestiere, le quali sanno a quanto debbano giungere gli ammassi dei grossisti, dei fabbricanti, dei dettaglianti, come essi si debbano svuotare, come si possano colmare quelli deficienti, a chi si debba ricorrere per rifornirsi. Costoro intuiscono le prospettive di abbondanza e di scarsità e vuotano o riforniscono per tempo in corrispondenza i depositi. Tutti sono mossi dal desiderio del guadagno, è vero, ma intanto agiscono assai più efficacemente e più rapidamente di quanto abbia fatto il governo durante la guerra con i suoi censimenti, lenti e sbagliati, con le sue requisizioni, con i suoi ammassi in locali disadatti, con la sua roba andata a male.
Ad ogni modo, è bene ripetere che la frase: «la roba c’è» non ha alcun valore per concluderne che c’è abbondanza. Le scorte, anche se a prima vista paiono amplissime, possono essere appena in grado di salvare il paese dalla fame. Affrettarne il consumo, disperderne prima del tempo anche una piccola parte può essere un delitto che si sconterà domani con la carestia vera, irreparabile.
La domanda essenziale a cui bisogna rispondere è questa: le scorte sono oggi così larghe che si possa ritornare alla larghezza di consumi che si aveva prima della guerra?
Mancano i dati per poter rispondere alla domanda. Il governo, il quale ha una organizzazione statistica, dovrebbe decidersi a pubblicare i dati che sono a sua disposizione: arrivi giornalieri nei porti, giacenze, inoltri ferroviari, giacenze nei magazzini generali delle città. Gioverebbero assai per illuminare l’opinione pubblica.
Fu comunicato or ora che il governo possedeva scorte di tessuti di cotone per 15 milioni di metri e di scarpe per 700 mila paia. Le cifre parvero a taluno enormi e si gridò : perché il governo teneva nascosto tutto questo po’ po’ di roba? Ma, se si analizzano le cifre, si vede subito che trattasi di scorte modestissime. A 35 milioni di abitanti, i 15 milioni di metri di stoffa danno 43 centimetri a testa; e le 700 mila paia corrispondono ad un cinquantesimo di paio di scarpe per abitante. Nulla che possa legittimare un consumo men che prudente e parsimonioso.
Qualche altro indizio, in mancanza di dati precisi, consiglia la medesima prudenza. L’on. Murialdi ha affermato che si corre pericolo di non aver latte nel prossimo ottobre perché i casari hanno maggiore convenienza a produrre burro e formaggio. Ciononostante, non si nota davvero nell’abbondanza né del burro né del formaggio. La verità è che le vacche da latte sono diminuite di numero, per la distruzione che se ne è fatta senza criterio durante i primi anni di guerra; e la presente siccità ha aggravato singolarmente la situazione. Oggi, non avendo erba a sufficienza, si ammazzano vitelli troppo giovani e, per mancanza di latte, non si ingrassano a dovere. Per il momento, la carne non fa difetto e può essere venduta a prezzi tollerabili. I nuovi prezzi di calmiere, anche ribassati, non sono disformi dai prezzi della carne viva. Ma tra qualche tempo, fra un anno, se la siccità non si ripeterà nella primavera del 1920, è probabile che la carne viva giunga di nuovo a prezzi fantastici. Le scorte di bestiame sono assai ridotte e per ricostituirle saranno necessari parecchi anni. Taluni pratici dicono persino cinque o sei. Fino a quel momento, il consumo della carne dovrà rimanere ridotto, sul piede di guerra, se vorremo ricostituire il nostro capitale bestiame.
Qualche dato approssimativo sulla entità delle scorte mondiali si può desumere dalle statistiche dei cereali pubblicate dall’Istituto internazionale di agricoltura a Roma. Risulta dall’ultimo bollettino di giugno che al 10 maggio 1919 esisteva nel Canada una scorta di 10,8 e negli Stati uniti di 12,1 milioni di quintali di frumento, oltre ad 1,5 milioni di quintali di granoturco in ambedue i paesi presi insieme. Sembrano cifre rilevanti, espresse così in milioni di quintali. Ma a quale fabbisogno debbono far fronte? Innanzi tutto al consumo interno del nord America; che, grosso modo, potremmo supporre compensato dalle importazioni che l’Europa potrà ottenere dall’India, Argentina ed Australia. Anche supponendo tuttavia che tutti quei 23 milioni circa di quintali di frumento siano disponibili per l’Europa, bisogna riflettere che nei quattro mesi dal maggio all’agosto – e prima della fine d’agosto è difficile che il nuovo raccolto giunga ai consumatori sotto forma di pane e di paste alimentari – l’Inghilterra usa importare da 14 a 25 milioni di quintali, la Francia da 5 a 7, l’Italia da 6 a 7, la Spagna da 0,3 a 1,2, la Svezia circa mezzo milione, la Svizzera da 0,4 a 1,5 milioni di quintali. Ed ora, tolto il blocco, Germania e paesi ex austriaci faranno anche sentire la loro domanda. Le scorte non sono dunque eccezionalmente abbondanti. Tutt’altro. Occorre fare in modo da razionarne il consumo con grande avvedutezza e con grande spirito di sacrificio, se non si vuole ridursi negli ultimi mesi a razioni di fame.""

(Luigi Einaudi, La lotta contro il caro viveri, «Corriere della Sera», giugno - luglio 1919, in Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925))

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