Un estratto di questo articolo è stato pubblicato nella rubrica #IlGraffio di AdviseOnlyBlog il 1.2.2016.
Nel 2015, il
34% dei gestori di fondi comuni di investimento ha battuto il rispettivo
“benchmark”, quello che viene definito come parametro di riferimento del
mercato in cui il fondo investe, sia esso azionario, obbligazionario, o misto.
Visto così il bicchiere mezzo pieno, guardiamo alla parte mezza vuota: se il
66% dei gestori non batte il benchmark, il problema sta nei gestori, non nel
benchmark (che allora diventa la misura del “perfetto e miglior
incapace”). Negli ultimi 15 anni, la
percentuale di fondi che hanno “battuto” il benchmark è oscillata fra il 10%
(minimo) ed il 45% (massimo).
Perché affidare
i propri risparmi ad una società di gestione, pagare laute commissioni, e
vedere i propri risparmi mal gestiti?
Non sarebbe
meglio comprare dei “cloni” del mercato, come gli ETF, che vivono di vita
passiva, e dormire sino a domani senza rigirarsi fra le lenzuola pensando: “che
farà domani il mio gestore”?
Le domande
divengono ancora più urgenti se solo si osserva chi è tenuto, fra i tanti fondi
disponibili per un investitore italiano, ad indicare che la gestione del
singolo fondo si confronta con un benchmark;
i fondi italiani sono tenuti a farlo, ma non tutti: sono infatti esclusi
i fondi flessibili; e sono anche esclusi i fondi esteri.
Pensiamo che
molti lettori abbiano già compreso che cosa è successo, da parte dell’industria
della gestione del risparmio italiana: negli ultimi anni sono cresciuti i fondi
di diritto europeo armonizzati (SICAV et similia) gestiti da società di
gestione estere, spesso posseduti da quelle stess banche e quegli stessi
gestori italiani che non riescono a “battere il benchmark”; sono infatti
aumentati i fondi flessibili sul mercato: nel 2015, su circa 170 nuovi fondi
domiciliati in Italia, 115 sono stati fondi flessibili (il 67,6%), fondi che
non hanno l’obbligo di indicare nel loro prospetto (e quindi fra le proprie
“regole di ingaggio”) un parametro di riferimento della gestione: ecco che per
essi manca il “benchmark”.
Nella categoria
dei fondi flessibili sono quindi rientrati fondi di diversa natura, sia
obbligazionari che azionari,”absolute return”, “total return”, a distribuzione
periodica, senza vincoli di mandato (”unconstrained”).
Peccato, per
l’investitore ovviamente, che la differenza fra la migliore “perfomance” e la
peggiore sia abissale: il peggiore dei fondi flessibili ha fatto -27%, il
migliore +24%.
Come fa un
investitore a comprendere, in questo scenario, quale “performance” sia da
attribuire a capacità e bravura e quanta ad incapacità ed incompetenza, quanto
all’impatto (positivo o negativo) del trend di mercato (per semplificare, l’indice
complessivo del mercato di riferimento) e quanto al “fattore scommessa”, sia
essa buona o cattiva?
Non disponendo della “sfera di cristallo”, un
risparmiatore cauto ed orientato a “cavalcare l’onda” (andare in linea con il
mercato) farebbe forse bene a privilegiare prodotti a gestione passiva,
indicizzata ad indici (di mercato, settoriali, di asset class e via
discorrendo), minimizzando i costi della gestione (che in tempi di bassi
rendimenti, come si è visto per i prodotti obbligazionari, “pesano”), e
mettendo grande attenzione nella decisione della politica di investimento:
tanto azioni, tanto obbligazioni, tanto questo mercato, tanto quell’altro.
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