“” Per essere
davvero efficace, un’imposta sul reddito ha bisogno di una nazione
industrializzata con un gran numero di lavoratori salariati, e la storia della
tassazione sui redditi dai primordi fino a oggi è relativamente breve e
semplice. Le tasse universali dei tempi antichi gravavano su tutte le persone
facenti pare di una comunità e prevedevano il pagamento di una somma fissa, non
proporzionata al reddito: per determinare l’entità dei tributi da riscuotere in
ogni territorio si facevano censimenti come quello che portò Maria e Giuseppe a
Betlemme a pochi giorni dalla nascita di Gesù. Prima del 1800 si ha notizia di
due soli esperimenti di tassazione sul reddito: uno a Firenze nel XV secolo, l’altro
in Francia nel XVIII. Entrambi erano, a ben vedere, tentativi di estorsione
attuati a danno dei cittadini da una classe dirigente avida di denaro. Secondo Edwin
R.A. Seligman, eminente storico delle imposte sul reddito, il progetto della
signoria fiorentina fallì per colpa della corruzione e dell’inefficienza del
sistema amministrativo. Quanto alla tassa introdotta in Francia tre secoli
dopo, lo studioso sostiene che “diventò ben presto una sentina di pratiche
illecite” e fini per degenerare in “un’imposizione del tutto iniqua e arbitraria
a carico delle classi meno abbienti”, e come tale ebbe una parte determinante
nello scatenare il fervore omicida che sfociò nella Rivoluzione. L’aliquota
della tassa introdotta da Luigi XIV nel 1710 era del 10 per cento; in seguito
fu ridotta al 5, ma questo non bastò a salvare l’ ancien régime, che venne spazzato via insieme all’odiato balzello. Sorda
a quell’avvertimento, nel 1798 la monarchia britannica varò un’imposta
destinata a finanziare la sua partecipazione alle guerre rivoluzionarie
francesi: per molti aspetti, fu la prima imposizione sul reddito di tipo
moderno. In primo luogo prevedeva una serie di aliquote graduali, comprese fra
zero (sui redditi annui inferiori alle 60 sterline) e 10 per cento (per i
redditi superiori alle 200 sterline); in secondo luogo, il testo della legge
era alquanto complicato: ben 124 articoli, per una lunghezza complessiva di 152
pagine. Il provvedimento fu accolto con generale e istantanea ostilità, e
violentemente criticato in una gran quantità di libelli: uno di questi si
presentava come una storia delle barbarie dell’antichità vergata da un
immaginario autore dell’anno 2000, il quale descriveva gli antichi esattori
dell’odiosa imposta come “impietosi mercenari”, veri e propri bruti che agivano
“con la compiuta villania dettata dall’insolenza e dalla presuntuosa ignoranza”.
Ciò nonostante, l’imposta era largamente evasa, e dopo aver fruttato all’erario
circa 6 milioni di sterline all’anno per tre anni fu abrogata nel 1802 dopo la
firma del trattato di Amiens. L’anno successivo, però, il Tesoro inglese
lamentò nuove ristrettezze e il parlamento promulgò una nuova tassa sul reddito
straordinariamente evoluta per i suoi tempi, giacché prevedeva addirittura l’applicazione
di una ritenuta alla fonte. Forse proprio per questo la seconda tassa fu odiata
ancor più della precedente, benché l’aliquota massima fosse inferiore della
metà. Durante un raduno di protesta tenutosi nella City di Londra nel luglio
del 1803, svariati oratori pronunciarono quella che per i sudditi della corona
britannica era un’irrevocabile dichiarazione d’inimicizia: se davvero la tassa
era l’unico modo di salvare la nazione, allora non c’era altra soluzione
fuorché rassegnarsi, benché malvolentieri, alla bancarotta dello Stato.””
John Brooks, L’imposta federale sul
reddito, 1964, in “Business Adventures”, prima ed. italiana 2016, pagg. 153-155
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