Da “Le guerre del Barbarossa. I comuni contro l’imperatore”,
Paolo Grillo, pgg. 219-221:
“Il rappresentante della Lega rimarcava dunque che le città
non avevano intenzione di sbarazzarsi dell’Impero, né desideravano una
indipendenza totale, ma che, d’altro canto, non avrebbero accettato alcuna
diminuzione delle loro prerogative di governo e delle loro autonomie (l’”onore”
e la “libertà”). I sei anni di tregua concordati tra Federico e le città della
Lega non portarono ad alcun cambiamento significativo. (…) Il testo stesso
della tregua poneva chiari limiti alla possibilità di azione dell’Impero in
Italia:
“ Per tutti i sei anni della tregua, l’imperatore non potrà
imporre a nessun chierico o laico della predetta Lega Lombarda di giurargli
fedeltà, né pronuncerà sentenza, né si farà dare alcuna multa, nell’ambito
della predetta Lega, per punire una fedeltà non mantenuta o dei servizi non
eseguiti per tutto il tempo della tregua e non porterà in giudizio alcuna
località o persona della suddetta Lega”.
Allo scadere dei sei anni, dunque, i comuni della Lega erano
ancora in una posizione di forza. Ma, nel corso della tregua, ci fu davvero il
pericolo di una ripresa del conflitto. Le trattative aperte a Piacenza nel
marzo del 1183 non potevano che prendere atto di tale situazione: l’imperatore
poteva cercare di ottenere soddisfazioni parziali o di mascherare la portata
della sconfitta, ma non negare nella sostanza quanto chiedevano le città, sue
nemiche o sue alleate che fossero. (…)
Il 23 giugno 1183, a Costanza, nella
Svevia meridionale, la pace fra i comuni e l’imperatore venne conclusa.
Formalmente, la cosiddetta Pace di Costanza non era un trattato bilaterale ma
un privilegio, concesso da Federico alle città. In tal modo, l’imperatore
salvava le apparenze, facendo sembrare una benevola concessione ciò che in
realtà gli era stato strappato con le armi.
Gli italiani ottenevano però tutto
quello che avevano richiesto, in particolare l’esercizio dei diritti pubblici,
le famose regalie individuate e minuziosamente elencate a Roncaglia, che
vennero attribuite ai comuni quali “antiche consuetudini”. I cittadini potevano
eleggere liberamente i propri governanti, anche se costoro avrebbero dovuto
giurare fedeltà all’imperatore (ma quest’uso venne abbandonato nel giro di
pochi anni). Alle norme vigenti nei centri urbani veniva di fatto riconosciuta
l’autorità di leggi. Le città potevano liberamente costruire palazzi pubblici e
fortificazioni, anche nel contado. Infine la Lega veniva riconosciuta come
alleanza legale e, anzi, riceveva il compito di tutelare la tranquillità e la
concordia dei suoi aderenti.
L’imperatore veniva ridotto a un ruolo poco più
che simbolico. (…).
Insomma, l’Impero non veniva espulso dall’Italia, ma
ridotto, almeno teoricamente, alla sfera di competenze che per le città era più
congeniale. Un arbitro super partes, dotato
di limitati poteri di intervento che, comunque, doveva convivere con la Lega
Lombarda, ora ufficialmente riconosciuta come parte della compagine
istituzionale del Regno. “”
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