Da “L’ora solenne. Gli italiani e la guerra in Etiopia” di
Marco Palmieri, 2015:
“” .. la mobilitazione per la guerra rappresentava anche un
meccanismo di assorbimento della manodopera inutilizzata e spingeva molte
famiglie ad aggrapparsi con tutte le proprie forze alle grandi promesse della propaganda,
terra e lavoro in primis. “Partire
per vivere o restare per morire”, aveva emblematicamente esclamato tra le
proprie mura domestiche un giovane militare destinato in Africa Orientale, un
paio di giorni prima di partire. (…) Indro Montanelli dimostrò di aver ben
metabolizzato questo mito dell’eldorado e della terra promessa, come la gran
parte della giovane intellighenzia
nazionale del tempo, quando in una lettera al padre da Saganèiti in Eritrea,
dov’era appena arrivato nell’estate del 1935, scrisse che “chi verrà domani
avrà da fare non meno di chi è venuto oggi. Qui c’è spazio e possibilità per
quindici o venti milioni d’Italiani che vi troveranno più durezze, ma anche più
soddisfazioni che non in via Tornabuoni e stradicciole affini. I Coloniali (e
per tali intendo non soltanto i soldati) saranno la nuova aristocrazie del Paese”.
(…)
Questo meccanismo finalizzato a sedare il malcontento e alimentare il
consenso verso la guerra d’Africa – e verso il regime più in generale – era ben
chiaro alle autorità fasciste, tanto è vero che se ne trova ampio riscontro
nelle relazioni periodiche dei federali. Quello di Perugia, ad esempio, già all’inizio
dell’anno, in occasione della partenza di un battaglione di camicie nere, aveva
sottolineato come “attraverso il graduale riassorbimento della manodopera disoccupata
(riassorbimento dovuto principalmente alle partenze per l’Africa Orientale e
alla ripresa dei lavori di carattere agricolo ed edilizio) prosegue il generale
miglioramento della situazione economica” e che “con le nuove partenze per l’Africa
Orientale si prevede una sicura e sensibile diminuzione della mano d’opera
disoccupata”. (…) La più chiara interpretazione di questo sentimento diffuso ce
la offre il federale di Reggio Emilia in una nota al segretario del partito
Starace: “E’ in sostanza la nazione intera che, dopo i sacrifici sopportati con
fierezza e disciplina in questi ultimi tempi, vede finalmente, nella sua
istintiva intuizione, la possibilità di un’espansione per dare lavoro a vita
alla esuberante popolazione”.
Anche dietro il fenomeno degli arruolamenti
volontari spesso esistevano motivazione di natura economica o comunque di
opportunità. Basti pensare che il regime aveva varato una serie di incentivi in
questo senso, come ad esempio l’esonero dalla tassa sui celibi, l’abbuono degli
esami e l’avanzamento all’anno successivo per gli studenti universitari e la
possibilità per chi era stato riformato di rientrare nei ranghi dell’Esercito
concorrendo alla nomina a sottotenente di complemento. (…)
La guerra, cioè,
serviva anche all’impiego e al riscatto sociale di “disoccupati, affamati,
fannulloni e gente che – secondo l’opinione di un commerciante di Brescia che
per averla espressa in questi termini incappa in una denuncia – a casa non fa
niente, mentre gli impiegati statali e parastatali che vanno in Africa lo fanno
al solo scopo di beccarsi un doppio stipendio”.
Le aspettative di tipo
economico e di un miglioramento della propria condizione di vita erano così
radicate tra la popolazione che su di essa verrà a poggiarsi perfino un
fiorente mercato nero, anche di una certa dimensione, relativo ai posti di
lavoro, veri o presunti, disponibili in Africa. In pratica, come rivelano le
carte delle prefetture, chi voleva partire o voleva avere qualche garanzia di
superare positivamente le selezioni per gli incarichi disponibili oltremare
arrivava anche a pagare somme di denaro agli intermediari e ai responsabili dei
sindacati e delle federazioni fasciste. (…)
Le aspettative e il grande
entusiasmo connessi alla mobilitazione in patria e alla partenza, ben presto, però,
dovettero confrontarsi con una realtà ben diversa, che apparve subito evidente
agli occhi di molti combattenti all’arrivo in Eritrea. (…) la stragrande
maggioranza dei militari italiani dovette subito fare i conti con il caldo
opprimente della costa, il freddo intenso sull’altopiano, le piogge torrenziali
per una parte dell’anno, la sete e la fame, gli alloggiamenti precari e la
scarsa igiene, tanto più pesanti in quanto associate alla fatica dell’addestramento
e dei lavori per la sistemazione logistica propedeutica all’attacco.””
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