giovedì 11 dicembre 2014

Tremate, tremate le Troike son arrivate!



Ci si chiede spesso se l’Italia rischi un intervento “etero diretto” da parte di istituzioni sovra-nazionali come Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Banca Centrale Europea (BCE) attraverso i meccanismi di sostegno ed intervento disponibili in FMI e BCE.

Riteniamo che un “salvataggio” del nostro paese sia più facilmente realizzabile attraverso una “mano amica” che operi con rapidità, razionalità, coerenza rispetto ad uno “stillicidio infinito” ad opera di una classe politica ed amministrativa (i veri “boiardi di stato” della pubblica amministrazione) screditata ed incapace; per contro, gli impatti sul quadro sociale ed istituzionale nel breve termine sarebbero, e saranno, di notevole dimensione (in modo purtroppo non dissimile da quanto avvenuto in Grecia). Ma “tertium non datur”. In questo “paper” ripercorriamo le vicende di Argentina e Grecia con l’obiettivo di verificare se da tali tristi esperienze sia possibile rintracciare un “modus operandi” utile per quanto potrebbe dover affrontare l’Italia. 


L’Italia ha subito una significativa contrazione del PIL ed attraversato acuti periodi di turbolenza finanziaria a causa degli evidenti squilibri di bilancio e dell’elevato debito pubblico, oggi oltre il 133% del PIL, rispetto ad un parametro UE del 60% cui l’Italia dovrà avvicinarsi, secondo l’accordo c.d. “fiscal compact”, e cresciuto del 30% fra il 2007 ed il 2013.
L’esperienza recente (limitandosi anche al solo periodo successivo alla ormai storica lettera della BCE inviata al governo italiano il 5 agosto 2011) ha dimostrato che sono difficilmente realizzabili riforme strutturali in un contesto di instabilità politica, assetto istituzionale farraginoso e contradditorio, pubblica amministrazione insensibile al cambiamento. Un ulteriore peggioramento del quadro, laddove fosse anche esacerbato dalla prosecuzione della fase recessiva (con i conseguenti impatti su deficit, dimensione del debito, accesso a nuovo debito e suo costo), potrebbe condurre il paese in una situazione di crisi simile a quella del 2011. In tale contesto, non sarebbe escluso un intervento-ultimatum di FMI e BCE.
Quali interventi mettono in campo FMI e BCE? In quali casi essi intervengono? Con quali modalità? Con quali conseguenze per il paese sottoposto a tali interventi? Le esperienze di Argentina e Grecia possono aiutare a comprendere e definire le azioni di intervento ed i loro effetti?
Partiamo dall’inizio per cercare di imparare da casi simili, rileggendo le crisi di Argentina e Grecia e di come esse sono state gestite da FMI (Argentina e Grecia) e BCE (Grecia).

Argentina. Gli elementi di vulnerabilità del paese che hanno condotto alla crisi del 2001-2002 sono stati indicati dal FMI in dinamica del debito pubblico, vincolo imposto dal cambio fisso fra dollaro USA e peso argentino, debolezza strutturale dell’economia legata alla produzione di materie prime (in primis, alimentari) soggette ad andamenti erratici tipici delle commodities e priva di industrie di base o trasformazione, debolezza della politica fiscale messa in atto dalle autorità politiche “che hanno sistematicamente spinto il sistema politico a impegnare più risorse pubbliche di quante avesse capacità di mobilitare” e con una spesa pubblica usata come “strumento di favore politico” (“Independent Evaluation Office, “The IMF and Argentina 1991-2001”, 2004, p. 14). Il cambio fisso dollaro/peso ha reso impossibile svalutazioni per riequilibrare i relativi poteri di acquisto e valori reali delle economie, cosicché l’Argentina si è trovata ad allineare la propria politica monetaria a quella degli USA nonostante le differenze legate al diverso ciclo economico. Evidenti erano anche le rigidità del mercato del lavoro argentino, e la assenza di mercati liberalizzati, a partire da utilities ed infrastrutture. Il lettore potrà forse trovare eventuali sfortunati punti di contatto fra la passata situazione argentina e l’attuale situazione italiana.
Dato il progressivo peggioramento della situazione economica, nel 2000 l’Argentina chiese ed ottenne un prestito triennale di 7,2 miliardi di US$ dal FMI, che venne erogato sull’assunto di una crescita del PIL del 3,4% nel 2000, anno che invece segnò un -0,8%, sopravvalutando quindi il potenziale di crescita e sottovalutando le debolezze del paese. Ulteriori finanziamenti vennero accordati, nonostante la perdurante incapacità del governo argentino di mettere mano alle riforme attese, ed in presenza di un ulteriore peggioramento dell’economia che condusse alla decisione del FMI di sospendere gli aiuti nel dicembre 2001. Il mese successivo l’Argentina dichiarò default sul debito abbandonando il sistema di cambio fisso col dollaro.
La tempistica degli interventi del FMI e le modalità di sospensione degli stessi sembrano confermare che il FMI interpretò la crisi argentina come “crisi di liquidità” e non strutturale, continuando quindi ad erogare prestiti nella convinzione, rilevatasi fallace, che la crisi fosse passeggera e dovuta ad eventi negativi e temporanei, e non legata, come invece era, a insostenibilità dei conti pubblici ed incapacità endemica dell’amministrazione a mettere in atto riforme strutturali non procrastinabili. Il tutto conferma, inoltre, come il FMI non sia stato in grado di legare la concessione di prestiti all’adozione concreta delle riforme attese e di valutare i rischi, allora considerati remoti mai poi rivelatisi reali, di un peggioramento delle condizioni macroeconomiche e di una fuga di capitali verso l’estero.
La irresponsabilità della classe politica argentina emerge come elemento cruciale dello scatenarsi della crisi e della incapacità di gestirla, in particolare sotto gli aspetti di politica fiscale e monetaria.
La crisi argentina fu assai acuta, con una caduta del PIL dell’11% nel 2002, un tasso di disoccupazione superiore al 20%, una caduta dei consumi del 13,6%, un crollo degli investimenti del 39%. Gli effetti del default ebbero conseguenze sociali gravi e durature, destabilizzando la situazione politica ed economica negli anni seguenti, con una “coda” che si sta manifestando nuovamente a distanza di anni.

Grecia. Nell’aprile 2010, al momento della richiesta di un prestito di 30 miliardi di euro al FMI per 3 anni e di un prestito di 80 miliardi di euro alla UE, per totali 110 miliardi di euro pari alla metà del PIL greco, la Grecia presentava alcune debolezze strutturali: alto rapporto deficit/PIL pari al 13,6% nel 2009; rapida crescita del debito pubblico passato dal 100% sul PIL nel 2005 al 148% nel 2010; invecchiamento della popolazione con relative previsioni di aumento delle spese per pensioni e sanità; bassa competitività; capacità di offerta di beni e servizi limitata; istituzioni non favorevoli agli investimenti ((IMF Council Report no. 10/110, maggio 2010, p. 1: “Thus, Greece needs a strong and sustained adjustment program to lower the fiscal deficit substantially and create the basis for a declining debt ratio, bring domestic demand in line with domestic supply capacity, and improve competitiveness so that the economy can step onto a higher growth path””). Date tali debolezze, il FMI sollecitava un programma di aggiustamento fiscale per ridurre il deficit, per invertire la crescita del rapporto debito/PIL, per riallineare la domanda interna alla effettiva capacità di offerta per migliorare la competitività del paese.
Il programma di aggiustamento concordato con il FMI si fondava su 3 punti: (a) ripristino della fiducia e garanzia della sostenibilità fiscale, attraverso azioni rivolte a riprendere credibilità sui mercati internazionali permettendo così la ripresa degli investimenti esteri; (b) ripristino della competitività interna attraverso la riduzione dei salari nominali, adottando riforme strutturali che consentissero all’economia greca di attrarre investimenti esteri; (c) salvaguardia della stabilità del settore bancario-finanziario dal rischio di disinflazione che avrebbe indebolito i bilanci bancari.
Il primo obiettivo avrebbe comportato un consolidamento fiscale agendo sia sul fronte delle entrate (tasse e lotta alla evasione fiscale) che su quello delle spese (tagli a pensioni).
Il secondo obiettivo avrebbe dovuto focalizzarsi sulla riforma del lavoro attraverso flessibilità e creazione di condizioni favorevoli all’impresa ed agli investimenti, quali liberalizzazioni di servizi pubblici in un mercato interno protetto ed interventi volti all’efficienza del settore pubblico, in particolare la sanità.
In termini concreti, il programma intendeva ristrutturare l’offerta, cercando di attenuare gli effetti depressivi di breve termine derivanti dal consolidamento fiscale e proponendosi di creare condizioni favorevoli alla crescita nel medio termine.
Tra dicembre 2011 e febbraio 2012 venne preparato un “programma di aggiustamento” per gli anni sino al 2014. Nel complesso, la comunità internazionale ha erogato prestiti per 237,5 miliardi pari al 107% del Pil della Grecia sul fondamento che i risultati e gli effetti previsti dalle riforme attese sarebbero state sufficiente garanzia per la concessione di crediti.
Già nel giugno 2011 il parlamento greco aveva approvato un ampio programma di misure per stabilizzare i conti pubblici prevedendo un inasprimento fiscale ed una serie di privatizzazioni che avrebbero consentito un miglioramento della posizione finanziaria di 50 miliardi di euro; seguì, nel febbraio 2012, un ulteriore programma di interventi con la previsione di (a) tagli nell’organico dei dipendenti pubblici per 150.000 unità entro il 2015; (b) tagli alla sanità ed alla difesa; (c) possibilità di revisione dei salari da parte delle imprese compresa una più lasca disciplina sul licenziamento, che faceva seguito al precedente innalzamento dell’età pensionistica da 61 a 65 anni per i dipendenti pubblici. Nel corso del 2012 vennero presi ulteriori provvedimenti per assicurarsi il sostegno della comunità internazionale e dimostrare lo sforzo di risanamento, incluso un ulteriore innalzamento dell’età pensionabile a 67 anni.
La Commissione Europea (“European Commission – Commission Staff Working Document, “Assessment of the 2013 national reform programme for Greece”) se da un lato ha confermato importanti progressi nell’opera di risanamento, dall’altro ha lamentato lentezza ed inadeguatezza delle azioni intraprese “”nella riforma della pubblica amministrazione, nella riforma del sistema fiscale e nelle privatizzazioni””, poiché persistono nodi preoccupanti nel bilancio pubblico che potrebbero richiedere ulteriori provvedimenti per riallineare il programma agli obiettivi attesi.

Il lettore, anche in questo caso, potrà valutare la situazione greca e la sua evoluzione con quanto avviene, o non avviene, nel nostro paese.

Diversi elementi di somiglianza emergono: elevato debito pubblico (superiore al 133% in Italia), irresponsabilità fiscale del governo centrale e locale, immobilità incapacità ed inadeguatezza della classe politica, mercato interno che presenta aree di chiusura alla libera competizione con una rilevante presenza pubblica sia nella erogazione di servizi verso i cittadini (utilities) e verso la pubblica amministrazione stessa attraverso società di scopo, municipalizzate ed aziende autonome che non sono orientate ad una logica imprenditoriale e di profitto.
Storicamente, gli elementi e le condizioni che possono condurre ad un default di uno stato sono: (a) un debito pubblico elevato, che diventa critico laddove superi il 90% del PIL, limitando la capacità di crescita; il rapporto debito/PIL dell’Italia è oggi superiore al 133%; (b) prolungati periodi di crescita economica negativa, o nulla; in Italia, il PIL ha avuto una dinamica negativa negli ultimi anni: -2,5% nel 2012 e -1,8% nel 2013, fonte Eurostat; (c) una percentuale elevata di debito pubblico posseduto da investitori stranieri, più influenzabili da dinamiche avverse e quindi propensi ad un rapido disinvestimento da titoli pubblici del paese sotto osservazione; si ricorda come la percentuale di debito pubblico italiano detenuta da investitori esteri fosse del 52% prima della crisi del novembre 2011 per scendere al 30% circa oggi; d) flussi di capitale estero legati a fasi pro-cicliche (alti in fasi espansive, bassi o negativi in fasi recessive) e “speculativi”, rispetto ad investimenti strutturali e stabili; (e) una struttura del debito pubblico più assata sul breve periodo, con duration (durata media del debito residuo) brevi, e quindi più sensibile ad aumenti improvvisi e/o duraturi dei tassi nominali; (f) deficit di bilancio pubblico significativi e ripetuti nel tempo; (g) inflazione elevata; (h) deprezzamento significativo della valuta nazionale. La contemporanea presenza di più elementi accresce la vulnerabilità del paese al default, che viene accelerato da un “evento-shock” come la svalutazione improvvisa della moneta o l’abbandono di forme di “aggancio” a monete più forti.
L’Italia presenta quindi diversi elementi negativi che potrebbero, laddove non adeguatamente affrontati e risolti, divenire critici, in un prossimo futuro.

FMI, UE e BCE hanno ripetutamente consigliato all’Italia di procedere ad un serio insieme di riforme strutturali per ridurre il peso dello stato nell’economia (e quindi attraverso l’apertura dei mercati domestici oggi protetti avviare una crescita virtuosa del gioco competitivo a vantaggio dei cittadini e dell’economia) e ridurre il differenziale competitivo con altre economie. La stabilità politica è stata indicata come elemento importante per approvare e mettere a regime le riforme necessarie; è di palmare evidenza che in una situazione ormai cronica di instabilità politica il percorso verso le riforme appare ancor più difficile di quanto fosse nel passato. Il FMI (IMF Country Report no. 13/298, Italy 2013 Article IV consultation, p. 9) osserva che “”in assenza di riforme strutturali più profonde, la crescita di medio termine si manterrà bassa””, sollecitando quindi il governo italiano ad intervenire su produttività stagnante, ambiente socio-economico poco adatto alle attività imprenditoriali, settore pubblico assai indebitato. Sono gli stessi punti su cui si era concentrata l’ormai storica lettera della BCE dell’agosto 2011, largamente inascoltata ed inattuata. Quindi le azioni da intraprendere dovrebbero includere: (a) finanza pubblica; (b) settore pubblico; (c) misure a sostegno della crescita.
Seppure non auspicata, una richiesta a FMI, UE e BCE di attivare interventi a sostegno dell’Italia non è da escludere nel caso il paese dovesse ritrovarsi ad affrontare una turbolenza dei mercati del debito sovrano, con rischio di non poter accedere ai capitali, come avvenuto nel novembre 2011. Peraltro, le dimensioni dell’economia italiano e del suo debito pubblico (circa 2.000 miliardi di euro) non sono comparabili con quelle dell’Argentina (che fece ricorso al solo intervento del FMI) e di Grecia, ma un intervento non sarebbe comunque dissimile da quanto fatto con Atene, coinvolgendo peraltro anche il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), sinora mai attivato, accanto alle misure più tradizionali già adottate con la Grecia.
La crisi del novembre 2011 fu concentrata sul mercato secondario del debito pubblico, creando forti tensioni nei bilanci delle banche nazionali, ma non colpì fortunatamente il mercato primario, dove nessuna asta di titoli di nuova emissione venne sospesa od annullata, nonostante la brusca impennata dei tassi di interesse. Si ricorda qui come interventi massicci sul fronte della liquidità fatti dalla BCE abbiano permesso alle banche italiane di accedere a finanziamenti a breve termine in quantità e modalità tali da consentire ampi acquisti di titoli di stato sul mercato secondario, evitando una crisi di liquidità che avrebbe avuto conseguenze non prevedibili e quantificabili; i prestiti erogati dalla BCE alle banche italiane erano 41 miliardi nel giugno 2011, poi cresciuti a 280 miliardi a fine 2011, quasi integralmente utilizzati dalle banche per acquistare titoli di stato nella appena citata “mega-operazione” di sostegno.
Una eventuale nuova crisi accrescerebbe la ancora difficile situazione delle banche, che non potrebbero ripetere quanto fatto allora; in tale scenario, verrebbero compromessi gli esiti delle aste di titoli pubblici, aumentandone i tassi di interesse che andrebbero ad ulteriormente gravare sulle ancora deboli finanze, vanificando le azioni di consolidamento fiscale (avviato) e di intervento sulla spesa pubblica (ancora da avviare). Diverrebbe necessario un intervento del MES attraverso un programma di intervento di Primary Market Support Facility (PMSF), che consiste in operazioni di sottoscrizione di titoli emessi dal paese in difficoltà finanziarie sul mercato primario dei titoli di stato, condizionato e subordinato alla sottoscrizione di un Programma di Aggiustamento Macroeconomico.
Non sarebbe peraltro da escludere un intervento di sostegno sul mercato secondario dei titoli di stato, per evitare un intervento diretto nel mercato primario (più pregnante ed invasivo per i costi politici e di credibilità collegati), con l’obiettivo di ristabilire fiducia nel settore bancario. Anche in tal caso si avrebbe la sottoscrizione di impegni vincolanti ripresi in un Programma di Aggiustamento Macroeconomico.
Nel caso di ulteriore inadempienza da parte della classe politica – che dimostra un incomprensibile e colpevole immobilismo – nell’attuare le riforme necessarie, si renderebbe necessaria la Assistenza Finanziaria Precauzionale del MES, una misura che sancirebbe il fallimento del governo e dell’amministrazione italiana nel mettere in atto misure necessarie, con rilevanti costi politici negativi, senza margini per “scaricare” le responsabilità sulla “speculazione” dei mercati.
FMI, UE e BCE hanno puntuale conoscenza dei problemi italiani, del loro “quantum”, dei modi e tempi di un eventuale intervento straordinario; ciò non è peraltro garanzia di successo, tenuto conto dell’avverso ambiente istituzionale della pubblica amministrazione, con la sua presenza ampia pervasiva ed inefficiente ad ogni livello centrale e periferico, e dell’opinione pubblica. Affidarsi ad un soggetto esterno, seppure istituzionale, è segno della perdita di stima, considerazione, “ragione d’essere” di una classe politica: ma è proprio questo il declino che vive da decenni, quasi inesorabilmente, una classe politica, di governo ed amministrativa, che dimostra incapacità, cecità e inaffidabilità.

Ma tema più importante è: che ci potrà riservare il futuro? Quali potrebbero essere le conseguenze a più lungo termine di un “salvataggio” del paese? Superata la fase critica del breve periodo, l’Italia sarebbe in grado di superare lo “shock” e riprendere un percorso di crescita, da lungo tempo abbandonato? Le esperienze di Argentina e Grecia non sono pienamente positive, al riguardo; occorre quindi aver da subito ben chiaro e definito un programma di “recovery” in un nuovo paradigma. In assenza di un simile programma redatto dalla amministrazione governativa, il compito di definirne obiettivi, capitoli, contenuti dovrà essere assunto da nuove forze, preferibilmente presenti nel mondo sano dell’impresa e del lavoro, con il supporto di “pensatoi” attrezzati e competenti.

Tremate, tremate le Troike son arrivate!





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