“” Più di
cinque milioni e mezzo di persone erano morte in una guerra che aveva lasciato
il Paese (la Germania) distrutto sul piano fisico e, agli occhi del resto del
mondo, anche su quello morale. La semplice sussistenza in mezzo al caos e alle
rovine esigeva un grosso sforzo del corpo e della mente, nonché una notevole resilienza.
Tra il 14 e i 15 milioni di tedeschi erano rimasti senza casa, senza contare
gli 8-9 milioni di ex lavoratori forzati che i nazisti avevano fatto arrivare
dalle terre conquistate, i sopravvissuti dei campi di concentramento e i
prigionieri di guerra che vagabondavano nelle campagne o si trovavano nei campi
per gli sfollati. Era la più grande crisi di profughi mai verificatesi. Le
città erano diventate luoghi spettrali. (…)
Anche altre
città erano quasi completamente devastate: più di tre milioni e mezzo di
appartamenti erano stati sventrati dai bombardamenti angloamericani, e molte
centinaia di migliaia di cannoneggiamenti dell’Armata Rossa nella sua avanzata
verso ovest. Tra un terzo e la metà dell’intero patrimonio immobiliare tedesco
era stato perduto, un danno parecchio superiore a quello inferto dalla Luftwaffe
alla Gran Bretagna durante la Blitzkrieg. Colonia era demolita al 70 per cento,
Amburgo al 53 per cento, Hannover al 51 per cento, Dortmund al 60. Monaco era
talmente sfigurata che una mattina, risalendo in superficie da un rifugio
antiaereo, il brillante diarista Victor Klemperer commentò: “Veniva da pensare che
il Giudizio universale fosse imminente”. Stando ad Anne O’Hare McCormick del “New
York Times”, una delle migliori reporter del secondo dopoguerra, milioni di
persone vivevano “come nel medioevo in mezzo alle macchine distrutte del XX
secolo”.
L’intenzione
iniziale degli Alleati era di trattare la Germania con durezza. La dichiarazione
degli obiettivi americani all’indomani della vittoria in Europa, JC1067,
recitava: “Bisogna rendere chiaro ai tedeschi che (…) la loro guerra efferata e
la fanatica resistenza nazista hanno distrutto l’economia, rendendo inevitabili
il caos e le sofferenze (…) I tedeschi non possono non prendersi la
responsabilità per ciò che hanno causato a se stessi. La Germania non verrà
occupata come un Paese da liberare, ma come una nazione nemica sconfitta”. Per i
pianificatori postbellici, la priorità era assicurarsi che una Germania guidata
nuovamente dal militarismo non potesse mai più usare il proprio potere per
scatenare un altro conflitto in Europa. Tanto gli americani quanto i britannici
ritenevano di poter risolvere il problema di come trattare con l’Unione
Sovietica una volta vinta la Germania. (…)
I britannici,
dal canto loro, erano giunti alla medesima conclusione: una pace punitiva
sarebbe stata disastrosa e avrebbe lasciato l’Europa devastata e incapace di
rialzarsi. Nell’autunno del 1945, un promemoria del Gabinetto per il Foreign
Office espresso bene questo punto: “Se non diamo loro tutto l’aiuto possibile,
il prossimo inverno potremmo perdere quelle che abbiamo guadagnato a carissimo
prezzo la scorsa primavera. (…) Gli uomini disperati sono inclini a distruggere
la struttura della loro società per trovare fra le macerie qualche sostituto
della speranza. Se lasciamo (…) (che la Germania e l’Europa) patiscano la fame
e il freddo (…) verremo a perdere alcune delle basi dell’ordine da cui
dipendono le speranze di una pace mondiale”. I russi, invece, vedevano le cose
in modo diverso. Circa 25 milioni di cittadini sovietici, fra cui 8 milioni di
soldati, erano stati uccisi in quella che chiamavano la “Grande guerra
patriottica”. Durante la loro avanzata, i tedeschi avevano violentato le donne
e saccheggiato migliaia di villaggi in Russia, Ucraina e Bielorussia; ora la
Germania sconfitta avrebbe dovuto pagare per i suoi crimini e non si sarebbe
mai più dovuta trovare nelle condizioni di poter scatenare un’altra guerra
contro l’URSS. Agli occhi dei sovietici, la rinascita della Germania e del
resto dell’Europa (in particolare dell’Europa occidentale) era una questione di
secondaria importanza. (…)
La scarsità del
raccolto, lo sconvolgimento del sistema dei trasporti e un inverno rigido
avevano portato a esaurire le già esigue riserve alimentari. (…)
Nella zona
britannica la carenza di viveri si faceva sentire con maggiore intensità: si
trattava infatti del cuore industriale della Germania , con poche terre
coltivate. La regione non era autosufficiente e dipendeva per il cibo dalle
aree tradizionalmente agricole più a est – Turingia, Sassonia, Pomerania – ora controllate
dai sovietici. In una nota mandata a Churchill, poco prima che lasciasse la
carica di primo ministro, il Foreign Office avvertì che “i tedeschi
sperimenteranno una miseria mai vista in Europa dai tempi del medioevo”; e, di
fatto, le cose andarono proprio così.
Nell’inverno
del 1945-46, in Germania, e, in particolare, nell’aera britannica, la fame
divenne un’emergenza. (…) Secondo le raccomandazioni dell’Amministrazione delle
Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione (UNRRA), che stava sfamando
i rifugiati nei campi profughi in Germania ma non i cittadini tedeschi, un
individuo adulto che svolgeva un’attività lavorativa doveva assumere 2430
calorie al giorno “come razione di sussistenza”: nella zona britannica, il
consumo medio giornaliero nell’autunno del 1945 era di 1500 calorie che
sarebbero scese a 1100 nel febbraio 1946. Bastavano a malapena per sopravviver,
di certo non per lavorare. (…)
Oltre a
preoccupazioni di carattere umanitario, alcuni dei funzionari della zona
britannica, e dei pianificatori di Londra, temevano che la fame avrebbe
ostacolato la ripresa tedesca allungando quindi i tempi dell’occupazione, che
stava pesando parecchio sui bilanci del ministero del Tesoro; con razioni tanto
scarse, i tedeschi non avevano la forza necessaria per scavare il carbone e
laminare l’acciaio a ritmi tali da permettere la ripresa. Un editoriale
pubblicato sul “Tines” esponeva la questione in termini molto semplici: “Le
prove di un deterioramento delle condizioni fisiche dei tedeschi durante gli
ultimi mesi a causa della malnutrizione sono inconfutabili; e fra tutte le
cause che inibiscono la ripresa economica in Germania questa è la più radicale,
in quanto viene a ridurre l’efficienza dei lavoratori dell’industria in modo
sia diretto, attraverso il suo effetto sulla salute, sia indiretto, spingendoli
ad allontanarsi dal lavoro per andare alla ricerca di un po’ di cibo extra. Il tasso
di assenteismo arriva ormai a superare normalmente il 20 per cento”. (…)
La fame portò
con sé le malattie. Non ci fu una pandemia di influenza come quella del 1919,
che aveva spezzato milioni di vite in tutta Europa, ma si diffusero antri
morbi. A Berlino, dove il sistema fognario era andato distrutto, nella
primavera del 1946 le riserve d’acqua erano ancora contaminate dalla presenza
di cadaveri in putrefazione. Il tasso di mortalità infantile in città
raggiungeva il 66 per mille, circa otto volte più alto rispetto a prima della
guerra. All’inizio del 19146, Robert Murphy, il consigliere politico del generale
Clay, riferì a Washington che far i senzatetto accampati presso la stazione
ferroviaria di Lehrter morivano in media dieci persone al giorno per
malnutrizione, sfinimento e malattie. Metà dei bambini di Berlino erano affetti
da rachitismo, e la diffusione della tubercolosi superava di cinque volte i
livelli prebellici. Nella zona britannica, ogni mesi si registravano 1000 nuovi
casi d febbre tifoide e 2000 di difterite, mentre la pellagra, la dissenteria e
l’impetigine, tutte associate alla malnutrizione, erano diventate malattie
comuni. (…)
Victor
Sebestyen, 1946 La guerra in tempo di pace, pagg 60-67, 2016
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