giovedì 21 gennaio 2016

La vergogna di un'Europa etnicamente pura alla fine del 1946.



“” La politica di espulsione dei tedeschi attuata dai cecoslovacchi (al termine della II Guerra Mondiale, ndr) godeva inoltre dell’approvazione internazionale, cosa che non si stancavano di sottolineare. Nell’articolo XII dell’accordo di Potsdam, le tre potenze alleate vincitrici riconoscevano infatti “che dovrà essere intrapreso il trasferimento in Germania delle popolazioni tedesche (o di loro singoli elementi) rimaste in Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria”. L’articolo XIII, inoltre, sottolineava come queste espulsioni andassero attuate in fretta. L’articolo si concludeva con quella che sembrava quasi un’aggiunta successiva: “Tutti i trasferimenti che avranno luogo dovranno essere effettuati in modo ordinato e umano”. Non diceva nulla, però, su come questo sarebbe stato possibile in mezzo al caos dell’Europa postbellica.
All’inizio del 1946, Radio Praga dichiarò che l’accordo di Potsdam sui trasferimenti di popolazione era stato “la più grande vittoria politica e diplomatica ma raggiunta dalla nostra nazione nella sua lunga lotta storica contro i tedeschi per la propria esistenza”. (…)
A partire dalla Liberazione, i cechi applicarono ai tedeschi la legislazione antiebraica dei nazisti. Tutte le persone di etnia tedesca dovevano portare una grossa N (per Nemec, “tedesco”) cucita sui vestiti, così come sotto il nazismo gli ebrei avevano dovuto portare la Stella di Davide. I tedeschi erano banditi dai parchi pubblici e potevano entrare nei negozi solo dopo che i clienti cechi e slovacchi avevano finito di servirsi (ovvero quando di fatto non era rimasto più nulla da comprare). Era loro proibiti comprare determinati beni, in particolare alimenti come il latte, il formaggio o la carne. Venivano bollati come nemici dello Stato, il che significava che le loro proprietà potevano essere confiscate in un qualunque momento. (…)
Migliaia di tedeschi vennero condotti a piedi fino all’ex campo di concentramento di Terezin, in tedesco Theresienstadt, il cosiddetto “ghetto modello” dove i nazisti avevano inviato gruppi di osservatori stranieri nel gretto tenativo di mostrare al mondo quanto fossero illuminate le loro politiche sulla questione ebraica. Fra il 10 e il 15 per cento dei prigionieri morì durante la marcia – di un centinaio di chilometri – per arrivare fino al campo. (…) Dietro la facciata, le condizioni al Theresienstadt erano spaventose, quasi quanto ai tempi dei nazisti. (…)
L’intera popolazione tedesca di Brno, la terza città cecoslovacca per grandezza, ricevette l’ordine di partire quasi senza preavviso e dovette percorrere a piedi più di 60 chilometri per raggiungere il confine tedesco. (…) Non ricevettero cibo né acqua per il viaggio. Lungo la strada, quelli che barcollavano venivano colpiti con i calci dei fucili, compresi i vecchi e le donne incinte, e chi non ce la faceva più ad andare avanti veniva fucilato. (…) Stando alle stime, su 23.000 persone che avevano lasciato la città, 6000 morirono lungo il tragitto. (…)
In tutto, fra il giugno 1945 e il giugno 1947, circa 1,4 milioni di persone di etnia tedesca arrivarono nelle zone d’occupazione britannica e americana, e 786.000 in quella sovietica. Non ci sono dati precisi riguardo il numero dei morti; (…) La stima migliore, probabilmente, è di circa 210.000 persone, un dato emerso molti anni dopo da fonti sovietiche rese disponibili dopo il crollo del comunismo.(…)
Con il crollo degli imperi asburgico e ottomano, al termine della Prima guerra mondiale, vennero creati diversi nuovi Stati; tuttavia, anche se molti confini furono spostati, in genere la gente preferì rimanere dove si trovava. Alla fine della Seconda guerra mondiale si verificò invece l’opposto. Con l’eccezione della Polonia, nessun confine venne spostato. In base a un accordo raggiunto fra gli Alleati durante la guerra, la Polonia orientale fu assorbita nell’Unione Sovietica e i polacchi compensato con la Pomerania, la Slesia e la Prussia orientale (regioni occidentali che avevano fatto parte della Germania). Di conseguenza, ci furono grossi movimenti di massa di ucraini e polacchi a est, che riaprirono aspri e sanguinosi conflitti vecchi di secoli. Con lo spostamento del confine, quasi 7 milioni di tedeschi si ritrovarono a vivere in quella che era ormai diventata la Polonia, e i polacchi volevano sbarazzarsene. Gli Alleati occidentali non mostrarono per le loro sorti più compassione di quella avuta per i tedeschi dei Sudeti. Anche in questo caso, Churchill commentò la situazione in termini positivi, dicendo che i trasferimenti erano “ragionevoli” (…)
Come in Cecoslovacchia, le espulsioni riscuotevano un ampio appoggio popolare. (…) (I polacchi) intenzionati non soltanto a ridurre le dimensioni del territorio tedesco in Pomerania e Slesia, miravano anche a un obiettivo molto più difficile e complicato: la cancellazione delle secolari tracce di germanizzazione in quei territori. “Non si tratta solo di rimuovere i segni o i monumenti tedeschi, ma di cancellare la linfa stessa della germanizzazione da ogni aspetti della vita, di rimuoverla dalla psiche della gente”. (…)
Le persone venivano rastrellate a migliaia per volta e avevano solo un’ora o due per raccogliere le proprie cose prima di essere costrette  a partire per “una qualche destinazione” al di là del nuovo confine, in Germania. (…)
Migliaia di persone vennero trasportate in treno, su vagoni non troppo diversi da quelli che solo pochi mesi prima avevano condotto alla morte gli ebrei. (…)
Prima di essere espulsi, molti tedeschi furono internati nei campi di concentramento. Il più famigerato era quello di Zgoda presso Swietochlowice, in Slesia, dive più di 2000 dei 5000 prigionieri morirono nel giro di poche settimane in condizioni subumane di fame e di stenti. (…)
Nei campi morirono fra i 40.000 e i 60.000 tedeschi, e più di 100.000 persero la vita sulle strade e sulle ferrovie verso la Germania.
Fra il 1945 e il 1947, circa 630.000 tedeschi vennero scacciati dall’Ungheria e 600.000 dalla Romania, dove avevano vissuto per secoli. Più di 60.000 ungheresi furono espulsi dalla Slovacchia e 100.000 dalla Jugoslavia.  Gli ucraini vennero allontanati dalla Polonia e i polacchi dall’Ucraina, in una guerra etnica iniziata nel 1943 e proseguita parallelamente al conflitto contro i nazisti, ma continuata con brutalità anche dopo. Nonostante i milioni di caduti durante la guerra, al termine del conflitto la popolazione della Germania, nei suoi nuovi confini, era cresciuta di molto, passando dai circa 60 milioni di abitanti del 1939 ai 66 milioni della fine del 1946. Il risultato fu che, al termine della Seconda guerra mondiale, sul piano etnico l’Europa era molto più omogenea di quanto fosse stata per secoli, e sarebbe rimasta tale fino all’arrivo, a partire dagli anni Sessanta, di grandi ondate di immigrati dall’esterno del continente. Gli ebrei erano scomparsi. Al di fuori dei confini della Germania, i tedeschi non erano voluti da nessuno. Grandi popolazioni erano state sradicate a forza nella più grande crisi di profughi che il mondo occidentale avesse mai visto. Se Hitler aveva sognato un’Europa etnicamente pura, fu proprio la sconfitta della Germania, in modo paradossale, a far sì che il suo sogno, alla fine del 1946, fosse diventato in gran parte una realtà.””

Victor Sebestyen, 1946 La guerra in tempo di pace, pagg. 159-169, 1° ed. 2016

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