sabato 30 maggio 2015

Una guerra con la Germania sembrava remota.



“” Data la linea tradizionale della diplomazia britannica, una guerra contro la Germania sembrava un’ipotesi remota e trascurabile. L’alleanza permanente con una potenza continentale sembrava incompatibile col mantenimento di quell’equilibrio che era il principale obiettivo della politica estera britannica. Un’alleanza con la Francia sembrava improbabile; un’alleanza con la Russia quasi impensabile. Eppure avvenne l’inverosimile: l’Inghilterra si legò stabilmente con la Francia e la Russia contro la Germania, appianando tutte le divergenze con la Russia al punto di acconsentire a un’occupazione russa di Costantinopoli (consenso svanito con la Rivoluzione russa del 1917).

Come e perché avvenne questo cambiamento stupefacente?

Avvenne perché i giocatori e le regole del gioco diplomatico internazionale erano cambiati. In primo luogo, il tavoliere di gioco era diventato molto più grande. Le rivalità, un tempo limitate in gran parte (ad eccezione dell’Inghilterra) all’Europa e aree adiacenti, erano adesso globali e imperiali (…). Le vertenze internazionali da appianare perché non degenerassero in guerre potevano adesso riguardare l’Africa occidentale e il Congo (1880-90), la Cina (1890-1900) e il Maghreb (1906, 1911) non meno del corpo in decomposizione dell’impero ottomano; e assai più che l’Europa non balcanica. Inoltre c’erano adesso giocatori nuovi: gli Stati Uniti, che pur evitando ancora coinvolgimenti in Europa, erano attivamente espansionistici nel Pacifico, e il Giappone. L’alleanza inglese col Giappone (1902) fu in effetti il primo passo verso la Triplice Intesa, perché l’esistenza di quella nuova potenza, che avrebbe dimostrato di essere in grado di sconfiggere l’impero zarista, riduceva la minaccia russa per l’Inghilterra e rafforzava quindi la posizione inglese, rendendo possibile l’accantonamento di vari antichi motivi di contrasto russo-britannici.

Questa globalizzazione del gioco internazionale trasformò automaticamente la situazione del paese che fino allora era stato l’unica grande potenza con obiettivi politici autenticamente mondiali. Non è esagerato dire che per la maggior parte dell’Ottocento la funzione dell’Europa nei calcoli diplomatici britannici era stata di starsene tranquilla perché l’Inghilterra poteva badare alle sue faccende, per lo più economiche, nel resto del globo. Era questa l’essenza della caratteristica combinazione di equilibrio europeo e di pax britannica globale garantita dall’unica marina di dimensioni globali, che controllava tutti gli oceani e le vie marittime del mondo. A metà Ottocento tutte le altre marine militari del mondo messe insieme superavano a malapena la marina britannica da sola. Alla fine del secolo non era più così.

In secondo luogo, con l’avvento di una economia capitalistica industriale moderna, la partita internazionale si giocava per poste molto diverse. Ciò significava che (…) la guerra era diventata solo la continuazione della concorrenza con altri mezzi. Era questa un’idea che attirava i deterministi storici del tempo, se non altro perché essi vedevano abbondanti esempi di espansione economica per mezzo di mitragliatrici e cannoniere: ma era un’idea grossolanamente semplicistica. Se lo sviluppo capitalistico e l’imperialismo hanno le loro responsabilità per l’incontrollato slittamento nel conflitto mondiale, è impossibile sostenere che molti capitalisti fossero deliberatamente guerrafondai. Qualsiasi studio imparziale dei giornali economici, della corrispondenza privata e commerciale degli uomini d’affari, delle loro dichiarazioni pubbliche in quanto esponenti della banca, del commercio e dell’industria, dimostra esaurientemente che la maggioranza degli uomini d’affari riteneva vantaggiosa per loro la pace internazionale. La guerra era accettabile solo in quanto non interferiva con il normale svolgimento degli affari (…).

Perché infatti i capitalisti – e anche gli industriali, con la possibile eccezione dei fabbricanti di armi – avrebbero dovuto desiderare di turbare la pace internazionale, condizione essenziale della loro prosperità e espansione, dato che da essa dipendeva l’andamento delle libere operazioni internazionali commerciali e finanziarie?

Evidentemente chi traeva profitto dalla concorrenza internazionale non aveva motivo di lagnanza. Come la libertà di penetrare nei mercati mondiali non è uno svantaggio per il Giappone di oggi, l’industria tedesca poteva ben contentarsene prima del 1914. Chi ci rimetteva, tendeva a chiedere protezione economica ai governi; ma ciò è tutt’altra cosa che chiedere guerra. Inoltre il massimo perdente potenziale, l’Inghilterra, resistette anche a queste richieste, e i suoi interessi d’affari rimasero in grandissima prevalenza legati alla pace, nonostante i continui timori nei riguardi della concorrenza tedesca espressi a gran voce nell’ultimo decennio del secolo, e nonostante la penetrazione del mercato interno britannico da parte del capitale tedesco e americano. (…)

Eppure lo sviluppo del capitalismo spingeva inevitabilmente il mondo nella direzione delle rivalità statali, dell’espansione imperialistica, del conflitto e della guerra. Dopo il 1870, come hanno rilevato gli storici, il passaggio dal monopolio alla concorrenza fu probabilmente il fattore più importante che diede il tono all’impresa industriale e commerciale europea. La crescita economica era adesso anche lotta economica: una lotta che serviva a separare i forti dai deboli, a scoraggiare alcuni e a irrobustire altri, a favorire i paesi nuovi e famelici a spese dei vecchi. All’ottimismo riguardo a un futuro di progresso indefinito subentrò l’incertezza e un senso di agonia, nel significato classico del termine. E tutto questo rafforzò, e fu a sua volta rafforzato dall’acuirsi delle rivalità politiche, fondendosi le due forze di competizione.

Il mondo economico non era più, come a metà Ottocento, un sistema solare roteante intorno a un’unica stella, la Gran Bretagna. Se le operazioni finanziarie e commerciali del globo passavano ancora e anzi in misura crescente per Londra, l’Inghilterra non era più l’“officina del mondo”, e neanche il suo massimo mercato d’importazione. Il suo relativo declino era evidente. Adesso c’erano, e si affrontavano, una serie di economie industriali nazionali concorrenti. In queste circostanze la competizione economica si intrecciava inestricabilmente con l’azione politica e anche militare degli Stati. La rinascita del protezionismo durante la Grande Depressione fu la prima conseguenza di questo intreccio. Per il capitale, il sostegno politico poteva d’ora in avanti essere indispensabile sia per tener fuori la concorrenza estera, sia in parti del mondo in cui le imprese delle varie economie industriali nazionali concorrevano l’una con l’altra. Per gli Stati, l’economia era ormai al tempo stesso la base della potenza internazionale e il criterio della medesima. Era impossibile oramai concepire una “grande potenza” che non fosse anche una “grande economia” (…).

Viceversa, gli spostamenti di potenza economica, che cambiavano automaticamente la bilancia politica e militare, non comportavano logicamente una redistribuzione dei ruoli sulla scena internazionale?

Questa idea godeva di largo favore in Germania, paese a cui la straordinaria crescita industriale dava un peso internazionale incomparabilmente maggiore di quello avuto dalla vecchia Prussia. (…) Ciò che rendeva tanto pericolosa questa identificazione di potenza economica e politico-militare non erano soltanto le rivalità nazionali per la conquista di mercati mondiali e di risorse materiali, e per il controllo di regioni quali il Vicino e Medio Oriente, dove gli interessi economici e strategici spesso combaciavano. (…) Ma la novità della situazione era che, data la fusione di economia e politica, neanche la pacifica divisione di regioni contese in “zone di influenza” riusciva a imbrigliare le rivalità internazionali. La chiave della controllabilità, come ben sapeva Bismarck, che la gestì con maestria impareggiabile fra il 1871 e il 1889, era la deliberata limitazione degli obiettivi. Finché gli Stati erano in grado di definire con esattezza i loro obiettivi diplomatici – un determinato spostamento di confini, un matrimonio dinastico, un “indennizzo” precisabile per i vantaggi ottenuti da altri Stati – calcoli e accomodamenti erano possibili. Né gli uni né gli altri, naturalmente (…), escludevano un conflitto militare controllabile.

Ma il tratto caratteristico dell’accumulazione capitalistica era appunto che essa non aveva un limite. (…)

Ciò che rese la situazione ancora più pericolosa fu la tacita equazione fra illimitata crescita economica e potenza politica, che venne a essere inconsciamente accettata. Così l’imperatore di Germania negli anni Novanta chiedeva “un posto al sole” per il suo paese. Bismarck avrebbe potuto chiedere altrettanto; e di fatto aveva ottenuto per la nuova Germania un posto nel mondo enormemente maggiore di quello mai avuto dalla Prussia. Ma mentre Bismarck sapeva definire le dimensioni delle sue ambizioni, evitando con cura di sconfinare nella zona dell’incontrollabilità, per Guglielmo II la frase divenne solo uno slogan senza contenuto concreto. Essa formulava semplicemente un principio di proporzionalità: più potente era l’economia di un paese, più numerosa la sua popolazione, e maggiore doveva essere la posizione internazionale del suo Stato nazionale. (…)

In termini pratici, il pericolo non era che la Germania si proponesse concretamente di prendere il posto dell’Inghilterra come potenza globale, anche se l’oratoria nazionalistica tedesca non lesinava accenti antibritannici. Era, piuttosto, che una potenza globale aveva bisogno di una marina globale; e la Germania perciò si accinse (1897) a costruire una grande flotta da guerra, che aveva incidentalmente il vantaggio di rappresentare non i vecchi Stati tedeschi ma esclusivamente la nuova Germania unita, con un corpo ufficiali che non rappresentava gli Junker prussiani o altre tradizioni guerriere aristocratiche, bensì le nuove classi medie, cioè la nuova nazione. (…)

Ma per l’Inghilterra la costruzione di una flotta tedesca non era solo un ulteriore aggravio per la già globalmente sovra impegnata marina britannica, ormai molto inferiore numericamente alle flotte unite delle potenze rivali, vecchi e nuove (…), e che stentava anche a mantenere il suo più modesto obiettivo di essere più forte delle due altre marine maggiori combinate (…).

Il processo di divisione dell’Europa in due blocchi ostili occupò quasi un quarto di secolo, dalla formazione della Triplice Alleanza (1882) al completamento della Triplice Intesa (1907). (…) Essi dimostrano soltanto che nel periodo dell’imperialismo gli attriti internazionali erano globali e endemici, che nessuno – e meno di tutti gli inglesi – sapeva bene in che direzione lo avrebbero portato le correnti traverse degli interessi, timori e ambizioni proprie e delle altre potenze; e che, sebbene fosse opinione diffusa che esse portavano l’Europa verso una guerra di grandi proporzioni, nessun governo sapeva bene come rimediarvi. “”



Eric Hobsbawm, “L’età degli Imperi. 1875-1014”, Oscar Mondadori, 1995, pagg. 359-366

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