mercoledì 21 gennaio 2015

Commento al decreto sulle banche popolari.



Il Governo nella giornata di martedì 20 gennaio 2015 ha approvato il d.l. "Investment Compact" nel quale è previsto un "cambio epocale" (dopo decenni di sterili dibattiti ed accese polemiche) per le banche popolari, ma solo per quelle con attivi sopra gli 8 miliardi; sono 10 le popolari in Italia che nei prossimi 18 mesi dovranno superare la regola del “voto capitario” (1 voto indipendentemente dal numero di azioni possedute) che in questa tipologia di banca ha sinora significato “controllo bloccato”; la norma (non ancora disponibile nel testo definitivo) elimina l’articolo 30 del T.U. bancario (TUB) che recita “ogni socio ha un voto, qualunque sia il numero delle azioni possedute” e prevede il tetto dell’1% per la partecipazione del singolo socio ed un numero minimo di soci (200). 



Breve sintesi sui “pro” e “contro” della riforma.



Fra i “pro”, indichiamo la “contendibilità” del controllo azionario anche per le banche popolari: essa dovrebbe favorire il corso delle azioni, più appetibili per azionisti che sinora sono stati lontani da questa categoria di azioni, ed i mercati hanno anticipato questa possibilità, con quotazioni in rialzo per le banche popolari quotate. Altrettanto rilevante, la “corporate governance” non sarà più appannaggio di “gruppi chiusi” che in assemblea, e nella vita quotidiana di molte banche popolari (emblematica la storia della B.P.Milano), esprimono interessi specifici, troppo spesso in contrasto con una sana gestione del credito. Forse non termina qui la storia di tanti “Amici” della banca (così si chiama una associazione di dipendenti, ex-dipendenti, sindacalisti, parenti ed affini), ma certamente le prospettive per una gestione meno sindacalizzata e più manageriale sembrano arridere alle banche popolari.



Fra i “contro”, una nota di demerito al governo per aver modificato il quadro normativo con un decreto-legge senza un dibattito preventivo e contemporaneo con gli “stakeholders”, aver limitato la riforma ad alcuni aspetti formali (voto capitario, in primis) senza una chiara formulazione di un disegno complessivo di riordino del settore bancario, aver previsto una modifica solo per le banche popolari di rilevanti dimensioni.



In sintesi: una riforma attesa da decenni, che va nella direzione corretta, ma che avrebbe meritato di essere inserita in un disegno complessivo di orientamento (ma non intervento) del settore bancario, che si trova ad affrontare un altro anno difficile da “posizioni di retroguardia” (come evidenziato dal “Comprehensive Assessment” di fine 2014): fra il 2004 (quando i crediti vs/clienti delle banche italiane erano 979 miliardi di euro) ed il 2008 (1.424 miliardi a fine dicembre) i crediti bancari sono cresciuti di 445 miliardi, circa il 10% annuo. Da tale picco, i crediti erogati sono costantemente diminuiti, ed a settembre 2014 si sono fermati a 1.240 miliardi, 186 miliardi in meno: un crollo, con tanti colpevoli e tanti feriti. Nel breve volgere fra giugno 2013 e settembre 2014 i crediti deteriorati sono passati dal 9,5% del totale dei crediti alla clientela al 10,9%, assestandosi, a settembre 2014, all’88,9% del capitale netto delle banche (una percentuale che sarebbe stata superiore, in assenza degli aumenti di capitale nel frattempo eseguiti da molte banche). Le banche hanno necessità di buoni capitali, buoni azionisti, buoni manager, buoni clienti. Sine qua non.



Pubblicato il 21 gennaio 2015 su AdviseOnlyBlog #IlGraffio di Corrado Griffa

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