L’orientamento
degli investitori istituzionali (fondi di investimento) è quello di votare
contro le proposte di adozione del voto multiplo da parte delle società quotate
italiane; Assogestioni ha diramato, nei giorni scorsi (dicembre 2014), un
comunicato ove si sottolinea l’ “evidente effetto di stabilizzare all’infinito
il controllo di alcuni azionisti con la metà dello sforzo”; c’è un giudizio
negativo di partenza. Non piace che sia stato concesso alle società già quotate
di poter usufruire di un percorso facilitato, in assemblea ordinaria. Negli USA
solo 9 società quotate su 4.400 adottano il voto multiplo, come anche ad Hong
Kong, Tokio, Sydney. I fondi hanno un peso non secondario nell’azionariato (ma
non nella governante) di importanti società italiane; alle ultime assemblee,
valevano i 32,4% di Unicredit, il 25,6% di Atlantia, il 27,55% di Finmeccanica,
il 28,6% di Eni, il 31,5% di Intesa San Paolo, il 27,8% di Telecom Italia. E
molti sono dei “big”: BlackRock ha investito 18,9 miliardi di euro sul listino
italiano, Vanguard 9,6 miliardi, Norges Bank 6,7 miliardi; i primi 12 fondi
esteri pesano per 72,7 miliardi su una capitalizzazione totale di 483,4
miliardi, il 15%: non proprio bruscolini.
Ma che cosa è
il voto multiplo, o plurimo?
Partiamo da un recente
esempio: tramite Exor, gli Agnelli controllano Fiat Chrysler con il 30% delle
azioni, ma il loro potere di voto (c.d. “voting power”) potrebbe salire al 46%,
grazie ad un “loyalty scheme”, messo in atto al momento della fusione per
“premiare” gli investitori di lungo termine; lo schema prevede che gli
azionisti che detengono le azioni per 3 anni abbiano 2 voti per ogni azioni
posseduta; la ragione è indicata nel “filing” (dichiarazione ufficiale) resa da
Fiat Chrysler alla SEC: “ to make more difficult for Fiat Chrysler Automobiles
(FCA) shareholders to change FCA’s management or acquire a controlling interest
in FCA”. Una misura 100% lecita e consentita dalla legge USA (dove viene adottata da 9
società quotate, su 4.400: "not such a big slice of the cake").
Siamo
dell’avviso che il principio “una azione, un voto” sia preferibile sia al
principio del voto plurimo, sia al principio del “loyalty scheme”, due principi
che in concreto raggiungono, o possono far raggiungere, esiti equivalenti.
Con il voto plurimo, si consente ad un socio (o gruppo di soci) che scendesse sotto la maggioranza del capitale di mantenerne il controllo di fatto attraverso la previsione di voto plurimo.
Con il voto plurimo, gli azionisti di minoranza di una società che adottasse tale principio (od il “loyalty scheme”), in caso di aumento di capitale sono quelli che “ci mettono soldi freschi e buoni” e si trovano a vederli gestiti da un gruppo di comando che decide anche per loro. E’ la prosecuzione in peggio del “salotto buono”.
Il voto plurimo va contro la diffusione della quotazione, e quindi del mercato, per le imprese italiane: se la sotto-capitalizzazione è uno dei peccati “mortali” delle imprese italiane, non è prevedendo maggiori poteri (col voto multiplo) a chi non avesse fondi sufficienti per “stare dietro all’aumento” e che cercasse di mantenere il controllo che si fa il bene del mercato.
La minaccia di un “takeover” è salutare: mantiene efficiente il “management”; tiene sulle spine le minoranze di controllo.
Il mercato dei capitali è più vivace se nessuno ha una “golden share”, od equivalente. Il passaggio di proprietà attraverso un’OPA è più semplice se non c’è un’azionista che con il 10% del capitale sociale controlla il 40% dei voti in assemblea. Per batterlo bisognerebbe acquistare il 90% per arrivare a 60-40, o mettersi d’accordo con lui pagando un cospicuo premio per le sue azioni.
Gli investitori si concentrano sulle azioni che danno il comando, valutando poco quelle che assicurano solo il dividendo. E lo potranno dimostrare, dicendo “no” alle (eventuali, ma prevedibili) proposte di adozione del voto plurimo e multiplo da parte di società quotate italiane.
Se si crede al mercato, si preferisce “una azione, un voto”.
Con il voto plurimo, si consente ad un socio (o gruppo di soci) che scendesse sotto la maggioranza del capitale di mantenerne il controllo di fatto attraverso la previsione di voto plurimo.
Con il voto plurimo, gli azionisti di minoranza di una società che adottasse tale principio (od il “loyalty scheme”), in caso di aumento di capitale sono quelli che “ci mettono soldi freschi e buoni” e si trovano a vederli gestiti da un gruppo di comando che decide anche per loro. E’ la prosecuzione in peggio del “salotto buono”.
Il voto plurimo va contro la diffusione della quotazione, e quindi del mercato, per le imprese italiane: se la sotto-capitalizzazione è uno dei peccati “mortali” delle imprese italiane, non è prevedendo maggiori poteri (col voto multiplo) a chi non avesse fondi sufficienti per “stare dietro all’aumento” e che cercasse di mantenere il controllo che si fa il bene del mercato.
La minaccia di un “takeover” è salutare: mantiene efficiente il “management”; tiene sulle spine le minoranze di controllo.
Il mercato dei capitali è più vivace se nessuno ha una “golden share”, od equivalente. Il passaggio di proprietà attraverso un’OPA è più semplice se non c’è un’azionista che con il 10% del capitale sociale controlla il 40% dei voti in assemblea. Per batterlo bisognerebbe acquistare il 90% per arrivare a 60-40, o mettersi d’accordo con lui pagando un cospicuo premio per le sue azioni.
Gli investitori si concentrano sulle azioni che danno il comando, valutando poco quelle che assicurano solo il dividendo. E lo potranno dimostrare, dicendo “no” alle (eventuali, ma prevedibili) proposte di adozione del voto plurimo e multiplo da parte di società quotate italiane.
Se si crede al mercato, si preferisce “una azione, un voto”.
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