domenica 11 ottobre 2015

“Big data” ovvero “do ut des”.


I big della rete (Google, Facebook, Apple,..) offrono servizi gratuiti in cambio dello “sfruttamento” dei nostri dati: quando “si naviga” in internet e si “chatta” sui social network, a fronte dell’accesso gratuito gli utenti accettano di essere “osservati dal buco della serratura” lasciando tracce e dati; questi dati assumono un “valore commerciale” per la rete che le “smercia” ad imprese, intelligence, governi; da qui è nata la “querelle” sulla “privacy”, con approcci diversi fra la UE (restrittivi) e gli USA (dove viene considerata un servizio negoziabile, se ad un “prezzo” equo). Oggi, il 54% sei servizi online proviene da imprese USA e solo il 4% da imprese europee; nel 2016, si stima che 340 milioni di persone avranno trasferito i propri dati ad un “cloud”. BCG stima che entro il 2020 l’8% del PIL UE verrà da servizi online e “cloud”; stima meno ottimistiche indicano un contributo dell’1,9% al PIL europeo, quasi 260 miliardi di euro. Il valore dei dati personali non è solo economico per le imprese che ne hanno accesso; per i governi e le intelligence l’accesso ai dati personali assume importanza crescente per il monitoraggio di attività criminali, o che lo possano divenire. Dibattuti fra un improbabile ritorno al “buon selvaggio poco informatico” ed un “grande fratello”, siamo tutti consapevoli che “la dinamo informatica è la macchina che darà forma alla nuova società del XXI secolo”.

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