martedì 20 ottobre 2015

I nostri dati personali? Valgono un “big data”.



Un estratto di questo articolo è stato pubblicato nella rubrica #IlGraffio su AdviseOnlyBlog in data 19.10.2015.




La Corte di Giustizia europea ha invalidato l’accordo, definito “safe harbour”, che è sinora servito per gestire il passaggio di dati sensibili e personali dagli utenti europei di “big data” (Google, Facebook, Apple, LinkedIn, Bankrate, Yelp, Twitter, …) ai centri di elaborazione (“data center & storage”) negli USA, sulla base del principio (nella versione europea) di protezione della “privacy”. 
Il tema non è solo giuridico (vertendo sulla diversa concezione di “privacy”: massima tutela in Europa, servizio negoziabile se ad un prezzo equo negli USA), ma soprattutto economico: 
quanto valgono i dati personali per chi li “gestisce” e li “vende” a imprese, governi, agenzie di controspionaggio? 
Hanno un valore economico? 
Ed in caso affermativo, quale è il “tornaconto” per l’utente?


I big della rete offrono servizi gratuiti in cambio dello “sfruttamento” dei nostri dati: quando “si naviga” in internet e si “chatta” sui social network, a fronte dell’accesso gratuito gli utenti accettano di essere “osservati dal buco della serratura” lasciando tracce e dati; questi dati assumono un “valore commerciale” per la rete che le “smercia” ad imprese, intelligence, governi.


Oggi, il 54% dei servizi online proviene da imprese USA e solo il 4% da imprese europee; nel 2016, si stima che 340 milioni di persone avranno trasferito i propri dati ad un “cloud”, attraverso una rete che è una sorta di grande autostrada planetaria, fatta di 800.000 km di cavi sotterranei che collega i nostri pc, tablet, smartphone alla rete telefonica più vicina (“router”), da qui a snodi locali che trasmettono, in tempo reale, dati ed informazioni al “data center” più vicino, collegato a sua volta a tutti gli altri, in modalità “web” e “cloud”; si eliminano i dati fisici, si creano quelli “virtuali” in rete, a disposizione del “server” (chi fa il servizio di “storage”), e gestiti dall’amministratore dei dati che attraverso software ad hoc elabora e “raffina” i dati raccolti, mettendoli a disposizione del cliente finale che “compra” questi dati per utilizzarli a fini commerciali (“profilatura” del cliente e quindi contatti mirati per vendere servizi e beni: ecco la fonte di email e messaggi “promozionali” ricevuti quotidianamente), di controspionaggio (lotta alla criminalità ed al terrorismo), di utilizzo per fini amministrativi da parte del governo (uffici delle entrate, anagrafe tributaria e residenziale,…).


Ma quanto “vale” questo business?


BCG stima che entro il 2020 l’8% del PIL UE verrà da servizi online e “cloud” (quindi, circa 1.000 miliardi di euro nel 2020); stime più prudenti indicano un contributo dell’1,9% al PIL europeo, quasi 260 miliardi di euro. Vendite on-line, biglietterie informatiche (viaggi, acquisto biglietti per concerti, eventi, visite museali, cinema,..), scommesse, servizi finanziari, acquisto di dati ed informazioni, altri servizi ancora da inventare: è la nuova economia, fruibile comodamente seduti davanti al pc di casa, o sdraiati sul divano (quindi, più sensibili agli stimoli commerciali), in auto e camminando per le vie della città.


Questi valori si trovano tradotti nella capitalizzazione di borsa dei grandi colossi internet: Facebook vale 262 miliardi di US$, Twitter 19 miliardi, LinkedIn 25 miliardi. Nuovi “player” entreranno nel mercato e cercheranno di crescere e conquistare spazi di nuove attività. “Avanti, c’è posto!” per la nuova imprenditorialità.


Dibattuti fra un improbabile ritorno al “buon selvaggio poco informatico” ed un “grande fratello”, sarà bene essere tutti consapevoli che “la dinamo informatica è la macchina che darà forma alla nuova società del XXI secolo”.




Nessun commento:

Posta un commento