lunedì 1 febbraio 2016

A che servono i gestori?



Un estratto di questo articolo è stato pubblicato nella rubrica #IlGraffio di AdviseOnlyBlog il 1.2.2016.



Nel 2015, il 34% dei gestori di fondi comuni di investimento ha battuto il rispettivo “benchmark”, quello che viene definito come parametro di riferimento del mercato in cui il fondo investe, sia esso azionario, obbligazionario, o misto. 
Visto così il bicchiere mezzo pieno, guardiamo alla parte mezza vuota: se il 66% dei gestori non batte il benchmark, il problema sta nei gestori, non nel benchmark (che allora diventa la misura del “perfetto e miglior incapace”).  Negli ultimi 15 anni, la percentuale di fondi che hanno “battuto” il benchmark è oscillata fra il 10% (minimo) ed il 45% (massimo).


Perché affidare i propri risparmi ad una società di gestione, pagare laute commissioni, e vedere i propri risparmi mal gestiti? 


Non sarebbe meglio comprare dei “cloni” del mercato, come gli ETF, che vivono di vita passiva, e dormire sino a domani senza rigirarsi fra le lenzuola pensando: “che farà domani il mio gestore”?


Le domande divengono ancora più urgenti se solo si osserva chi è tenuto, fra i tanti fondi disponibili per un investitore italiano, ad indicare che la gestione del singolo fondo si confronta con un benchmark;  i fondi italiani sono tenuti a farlo, ma non tutti: sono infatti esclusi i fondi flessibili; e sono anche esclusi i fondi esteri.

Pensiamo che molti lettori abbiano già compreso che cosa è successo, da parte dell’industria della gestione del risparmio italiana: negli ultimi anni sono cresciuti i fondi di diritto europeo armonizzati (SICAV et similia) gestiti da società di gestione estere, spesso posseduti da quelle stess banche e quegli stessi gestori italiani che non riescono a “battere il benchmark”; sono infatti aumentati i fondi flessibili sul mercato: nel 2015, su circa 170 nuovi fondi domiciliati in Italia, 115 sono stati fondi flessibili (il 67,6%), fondi che non hanno l’obbligo di indicare nel loro prospetto (e quindi fra le proprie “regole di ingaggio”) un parametro di riferimento della gestione: ecco che per essi manca il “benchmark”.

Nella categoria dei fondi flessibili sono quindi rientrati fondi di diversa natura, sia obbligazionari che azionari,”absolute return”, “total return”, a distribuzione periodica, senza vincoli di mandato (”unconstrained”).

Peccato, per l’investitore ovviamente, che la differenza fra la migliore “perfomance” e la peggiore sia abissale: il peggiore dei fondi flessibili ha fatto -27%, il migliore +24%. 


Come fa un investitore a comprendere, in questo scenario, quale “performance” sia da attribuire a capacità e bravura e quanta ad incapacità ed incompetenza, quanto all’impatto (positivo o negativo) del trend di mercato (per semplificare, l’indice complessivo del mercato di riferimento) e quanto al “fattore scommessa”, sia essa buona o cattiva? 

Non disponendo della “sfera di cristallo”, un risparmiatore cauto ed orientato a “cavalcare l’onda” (andare in linea con il mercato) farebbe forse bene a privilegiare prodotti a gestione passiva, indicizzata ad indici (di mercato, settoriali, di asset class e via discorrendo), minimizzando i costi della gestione (che in tempi di bassi rendimenti, come si è visto per i prodotti obbligazionari, “pesano”), e mettendo grande attenzione nella decisione della politica di investimento: tanto azioni, tanto obbligazioni, tanto questo mercato, tanto quell’altro.

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