mercoledì 20 gennaio 2016

Troppo socialismo in patria e troppo dannato imperialismo all’estero.



“” Il razionamento era diventato una consuetudine nel periodo bellico. Sebbene per gran parte del conflitto non fossero mancate le proteste per le rigide assegnazioni di viveri (…), venivano generalmente accettate come eque e adeguate. La vittoria in Europa accese per un po’ la speranza che il razionamento potesse terminare. (…) La Gran Bretagna importava il grosso del suo fabbisogno alimentare, molti fornitori esigevano il pagamento in dollari americani e, pochi mesi dopo la vittoria sulla Germania, il Paese precipitò nella prima delle crisi della bilancia dei pagamenti che l’avrebbero attanagliato per i successivi venticinque anni. (…).

Nel 1946 la maggioranza dei cittadini britannici sapeva che la nazione era in bolletta. Ma in pochi si rendevano conto di quanto la situazione fosse disperata. Il prezzo della sopravvivenza, e poi della vittoria, era stato altissimo. A metà degli anni Trenta, la Gran Bretagna era stata il maggior Paese creditore al mondo; adesso era il più grosso debitore. (…) 
La guerra era costata quasi un quarto della ricchezza totale della nazione. (…) 
Alla fine della guerra, i debiti britannici ammontavano approssimativamente a 3500 milioni di sterline (14 miliardi di dollari dell’epoca). Nell’aprile 1945, Lord Keynes, allora il più insigne economista del mondo, temendo che il Regno Unito non sarebbe stato in grado di superare i successivi cinque anni, preparò un documento per il Gabinetto. In esso, sosteneva che l’industria britannica si era concentrata totalmente sulla produzione militare e che avrebbe avuto bisogno di un lungo periodo per riconvertirsi per il tempo di pace; che la Gran Bretagna avrebbe impiegato anni a liberarsi dalla importazioni di generi alimentari; e che il Paese era completamente privo di riserve di valuta estera. Calcolava un deficit di 5 miliardi di dollari (circa 1300 milioni di sterline) per i successivi tre anni, supponendo che il Tesoro potesse rinviare la restituzione del debito estero già dovuto per quel periodo. “Dove prenderemo questi soldi?” chiedeva. Senza un grosso aiuto “non abbiamo alcuna speranza di sfuggire a quella che potrebbe essere considerata, senza esagerare, una Dunkerque finanziaria”. Di conseguenza, nell’autunno del 1945, durante gli ultimi mesi della sua vita, Keynes venne inviato con il cappello in mano negli Stati Uniti per elemosinare in prestito. Fu tutt’altro che facile. (…) Invece del “regalo” di 1500 milioni di sterline e del prestito senza interessi di 3500 milioni di sterline che chiedeva, e pensava di ottenere, gli vennero offerti 3750 milioni di sterline al 2 per cento di interesse, con pagamenti (in dollari) distribuiti nei cinquant’anni successivi. (…) gli americani insistevano affinché la sterlina diventasse una moneta liberamente convertibile entro un anno dalla concessione del prestito. Questo, come Keynes comprese, avrebbe avuto conseguenze disastrose: di lì a un anno ci fu una “corsa alla sterlina” che impose una svalutazione ed erose il capitale del prestito.

Nel 1946 il “rapporto speciale” non era così speciale come sarebbe divenuto in seguito. (…)

Divenne ricorrente l’espressione “chi mendica non può scegliere” e all’epoca la Gran Bretagna era una nazione costretta a farlo, pur non volendo ammetterlo. (…)

“la Gran Bretagna si trovava di fronte a una crescente ostilità e sfiducia tra gli americani e i sovietici … ciascuno dei quali cercava di rafforzare la propria posizione senza curarsi del nostro punto di vista”. (…)

Negli Stati Uniti, l’opposizione al prestito proveniva dai gruppi più disparati. La destra era contraria per principio a concedere prestiti su larga scala ad altri Paesi, mentre la sinistra avversava per principio l’imperialismo britannico; le lobby irlandese ed ebraica e alcuni capitani d’industria ritenevano che la Gran Bretagna fosse in una condizione così precaria da non poter più rimborsare il debito. (…) Il denaro sarebbe stato “usato per promuovere troppo socialismo in patria e troppo dannato imperialismo all’estero” (…)

Continuare a garantire alla Gran Bretagna il ruolo di “grande potenza” aveva costi immensi, ma pochi dubitavano che fosse cruciale dal punto di vista politico, e altrettanto da quello psicologico. 
Il Paese poteva anche trovarsi sull’orlo della bancarotta, ma nel 1946 i britannici non erano pronti a rinunciare alle idee di gloria imperiale, anche se la realtà imponeva di abbandonare una o due colonie. In primo luogo, ciò significava mantenere una presenza militare globale – il che era difficile da ottenere a buon mercato, come altri imperi nel corso della storia avevano scoperto. Prima della guerra, le spese per le forze armate britanniche ammontavano a circa 16 milioni di sterline all’anno; due anni dopo il conflitto, erano salite a 200 milioni. Nel 1946, la Gran Bretagna aveva 1.250.000 uomini (e pochissime donne) sotto le armi, comunque meno rispetto ai circa 5 milioni al culmine della guerra; flotte dislocate nell’Atlantico, nel Mediterraneo e nell’Oceano Indiano; una base cinese a Hong Kong e altre sparse in una dozzina di Paesi e colonie, dalle Indie Occidentali a Aden e alla Malesia, come pure 120 squadriglie della RAF. Tutto ciò sarebbe stato mantenuto, nonostante le gravi difficoltà in patria. (…)””



Victor Sebestyen, 1946 La guerra in tempo di pace, pagg. 91-101, 1° ed. 2016

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