lunedì 24 novembre 2014

Anche per le pensioni "two is better than one..."



Eccoci arrivati al terzo articolo sul sistema pensionistico, con una breve panoramica del secondo e del terzo pilastro, che abbiamo definito “tenue baluardo alla rovinosa implosione del sistema pensionistico patrio”.


Considerato che la pensione obbligatoria non assicura, né assicurerà in futuro, un adeguato tenore di vita, i lavoratori possono (devono …) scegliere di destinare una parte del proprio risparmio alla costruzione di una rendita aggiuntiva, versando volontariamente dei contributi alle forme pensionistiche complementari. Le forme pensionistiche complementari si distinguono fra fondi pensione e piani pensionistici individuali (PIP), entrambi sottoposti alla vigilanza della COVIP.
I fondi pensione (istituiti da banche, assicurazioni, SGR e SIM) sono il secondo pilastro della previdenza e possono essere aperti o chiusi. Ai fondi aperti può iscriversi chiunque.  Ai fondi chiusi possono iscriversi solo i lavoratori che appartengono a una determinata categoria (dipendenti di una particolare azienda, che svolgono un determinato tipo di lavoro o residenti in una particolare Regione); sono detti negoziali i fondi costituiti sulla base di un accordo tra datore di lavoro e sindacati o associazioni di categoria.
I PIP costituiscono il terzo pilastro della previdenza e si realizzano mediante polizze assicurative (contratti di assicurazione sulla vita a scopo previdenziale), a carattere individuale.

Gli elementi da considerare per scegliere se e come aderire alla previdenza complementare sono:

  • il tasso di sostituzione atteso, cioè il prevedibile rapporto tra l’importo della prima pensione obbligatoria che spetterà al momento della cessazione dell’attività lavorativa e l’importo dell’ultima retribuzione
  • il trattamento fiscale del risparmio destinato alla previdenza rispetto a quello destinato ad altri tipi di investimento
  • i possibili rendimenti finanziari dei contributi versati alla previdenza complementare rispetto a quelli che si possono attendere da altri investimenti e dal Trattamento di Fine Rapporto (TFR)
  • le condizioni di utilizzo delle somme accumulate come TFR o presso i fondi
  • le spese di gestione
  • l’eventuale contributo del datore di lavoro in caso di adesione alla previdenza complementare.

Il risparmio versato a una forma pensionistica complementare è soggetto a una tassazione, sinora più favorevole rispetto a tutte le altre forme di investimento ma in procinto di perdere la sua peculiarità:

  • le somme versate ai fondi o ai PIP fino all’importo di 5.164,56 euro all’anno non sono tassate; alle somme versate oltre tale limite si applicano le stesse aliquote con cui è tassata la retribuzione
  • i rendimenti finanziari degli investimenti, sinora tassati all’11,5%, saranno soggetti ad una aliquota maggiorata al 20%
  • le pensioni saranno tassate ad un’aliquota compresa tra il 9 e il 15%, in funzione di vari parametri, fra cui la permanenza nel fondo.

La maggioranza dei paesi OCSE adotta il sistema EET, con 3 grandi eccezioni: Danimarca, Svezia ed Italia; la regola EET è semplice: Esenzione (sui contributi versati), Esenzione (sui rendimenti dei fondi), Tassazione (sulla pensione integrativa). Il sistema EET aumenta i vantaggi per il risparmiatore, poiché i rendimenti annualmente realizzati sul “patrimonio previdenziale” sono totalmente reinvestiti, e non ridotti dalla tassazione. Sarebbe meglio tassare la prestazione finale (generalmente, con prestazioni annuali od infra-annuali), nel contesto della tassazione del pensionato-contribuente. L’Italia ha recepito la direttiva UE 41/2003 con il d.lgs 28/2007, ma non applica lo schema EET.

Riteniamo particolarmente penalizzante la tassazione annuale dei rendimenti, tenuto conto della natura previdenziale dello strumento; una penalizzazione ancor più “antipatica” se si osserva che i “rendimenti” della forma di previdenza obbligatoria pubblica non sono soggetti a tassazione, anno per anno. Ma la potenza del legislatore fiscale è senza limiti: differenze di trattamento alla partenza, durante il viaggio periglioso della creazione del “montante pensionistico”, all’incasso della pensione. 


Il TFR versato a una forma complementare (secondo pilastro) ed i versamenti ai PIP (terzo pilastro) vengono investiti sui mercati finanziari dal gestore: quindi possono aumentare o diminuire di valore secondo l’andamento degli investimenti e secondo la linea di investimento (conservativa, bilanciata, aggressiva) prescelta. La legge (DM 703/1996) limita la allocazione degli investimenti: sino al 50% in azioni ed obbligazioni UE, USA, Canada e Giappone negoziate/i in mercati regolamentati; sino al 20% in azioni ed obbligazioni negoziate/i in mercati non regolamentati; sino al 5% in titoli non-OCSE.


Il legislatore italiano, nel suo accanimento farneticante e malaccorto, ha recentemente previsto la possibilità che l’accantonamento annuo del TFR possa essere dirottato, in parte, verso la “busta paga”; questa misura avrà un impatto negativo sull’intero sistema complementare: ogni anno, 5.187 milioni di euro di accantonamenti da quote TFR dei dipendenti privati sono diretti a forme di pensione complementare; una cifra che rappresenta il 43,5% di tutti i flussi verso il sistema previdenziale integrativo del 2013, che sono stati 11.913 milioni; la percentuale sale al 63,4% (2.733 milioni su totali 4.308 milioni) per i fondi pensione negoziali, che da soli hanno assorbito il 36,2% dei flussi dell’anno. E’ di palmare evidenza che una eventuale misura – come quella sottoposta dal governo in carica – che indirizzi l’accantonamento annuo del TFR verso la “busta paga”, anche parzialmente, avrebbe impatti negativi sull’intero sistema della previdenza complementare: un settore che si vuole, da anni, favorire, ma che avanza a passi lenti, per cui una misura come quella immaginata dal governo avrebbe l’effetto di uno “stop” forse definitivo, se solo si osserva che dal 2007 i lavoratori che hanno aderito al conferimento tacito del TFR ai fondi complementari sono stati 231.000, l’8% dei nuovi iscritti (dipendenti del settore privato) e solo il 3,7% dei 6.200.000 iscritti totali alle forme pensionistiche complementari. Come da troppo tempo accade nel paese, la coperta è corta: tiri da una parte, si scopre dall’altra.  


La prestazione tipica di un fondo pensione è l’erogazione di una rendita (pensione), a partire dal momento del pensionamento. E’ possibile ottenere una liquidazione in capitale (in una unica soluzione) sino al 50% del montante finale accumulato. La reversibilità della prestazione al coniuge sopravvissuto è facoltativa ed opzionale, a fronte del pagamento di un costo addizionale, annualmente corrisposto. La ragione è semplice: nella elaborazione attuariale della previsione di trasformazione del capitale finale in rendita, il gestore deve considerare un rischio di sopravvivenza doppio e riferito al sottoscrittore ed al coniuge.


La prestazione pensionistica sotto forma di rendita può prevedere diverse opzioni: rendita semplice: è la rendita che viene pagata al pensionato finché in vita; rendita certa per un certo numero di anni e poi vitalizia; rendita reversibile; rendita con contro assicurazione per la restituzione del montante residuale; rendita con maggiorazione per perdita di autosufficienza (copertura Long Term Care, LTC). Come quando si acquista una autovettura nuova, ogni optional, più o meno essenziale e/o importante, ha un costo addizionale.

Anche e specialmente in campo previdenziale “two is better than one, especially when one probably means nothing…”


I fondi pensione hanno caratteristiche importanti: sono individuali, e quindi personalizzabili; sono “cash” e rappresentano un capitale, via via crescente, investibile e fruttifero; sono “incassabili” (sino alla metà del capitale finale) e “trasformabili” in coperture assicurative (come la LTC, importante in un’era di innalzamento della aspettativa di vita e di concentrazione delle spese sanitarie negli ultimi anni di vita). Alcune di queste caratteristiche sono, a nostro avviso, necessarie anche per la forma di previdenza pubblica; il “trasferimento” non sarà però indolore o facile, ma diverrà rapidamente materia di discussione e confronto per allineare il sistema pubblico ai sistemi previdenziali di paesi “virtuosi” (si pensi all’Olanda).


In un successivo articolo affronteremo il confronto fra diversi sistemi previdenziali adottati in paesi confrontabili, in ambito europeo.




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