domenica 30 novembre 2014

La consapevolezza bastarda che la macchina statale è immodificabile.



Rileggere la breve storia italiana dall'Unità ad oggi riserva sorprese sui mali nazionali, fra cui emerge, prepotente, quella della "elefantiasi della macchina statale".

I circa 87.000 dipendenti degli stati pre-unitari salirono a 96.000 nel primo ventennio di vita dello Stato italiano, soprattutto attraverso la crescita di tre particolari settori dell’amministrazione: la guerra e, in misura ancora maggiore, la posta e l’istruzione; era ancora uno Stato con funzioni contenute nei termini essenziali, ben lontani da quella crescita della burocrazia che comincerà a caratterizzare lo Stato con la fine degli anni ’80; l’ampliamento dell’organico amministrativo e la “meridionalizzazione” delle sue componenti, che prenderà corpo con Crispi e si svilupperà con Giolitti, non sarà soltanto il frutto di un incremento dell’intervento statale, ma anche di un tentativo di conferire più ampie basi sociali all’ulteriore rafforzamento dello Stato, e in particolare del potere esecutivo. A distanza di pochi decenni, negli anni della Grande Guerra 1915-1918, ci fu un ancora più impressionante aumento degli organici dell’amministrazione statale che passarono dai 339.203 del 1915 (oltre 3 volte quelli del 1890) a i 619.440 al 1920, oltre 5 volte quelli di 70 anni prima. Tutto questo portò ad un enorme aggravamento della spesa pubblica, l’assunzione di una serie di servizi che meglio avrebbero trovato spazio nel campo privato. Ma deleteria e incontestata, nacque bastarda la consapevolezza che l’amministrazione statale era divenuta una macchina alla cui riforma sarebbe stato impossibile mettere mano nei secoli successivi.

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