martedì 25 novembre 2014

Il "colpo di stato" del 1915 contro "l'imbelle democrazia".



“” La “comunità nazionale” nell’estate del 1914 era ancora qualcosa che ben difficilmente poteva essere identificato, in questo senso più profondo, con gli abitanti dello Stato: e altrettanto può essere detto se poniamo mente all’esiguità dell’ “opinione pubblica”. L’estraneità era non solo delle masse verso lo Stato, ma anche dello Stato verso le masse; tanto maggiore era quindi per le classi dominanti il bisogno, in una situazione “anomala” come la guerra, di far scattare tutti i possibili strumenti di compressione. (…) Sovrano, governo, Parlamento, esercito apparvero, nei difficili mesi tra neutralità e guerra, se non veri e propri compartimenti stagni, sezioni separate nell’organizzazione del potere, istituzioni fra le quali circolarità e scambio di opinioni e di esperienze, dibattito politico, solidarietà e collaborazione erano inesistenti. La situazione eccezionale, il modo stesso dell’entrata in guerra poterono solo accentuare ed esasperare questi caratteri, smantellando ciò che l’uso e la prassi avevano introdotto come correttivi, dando ad essi una corposità e un’evidenza che prima non avevano. Vi è intanto da constatare che chi “guida” l’intervento non è nessuno dei poteri costituiti come tale, e dunque parlare di spinte reazionarie verso un “ritorno allo Statuto”, nel senso in cui l’espressione era stata assunta nel 1898, è altrettanto arbitrario quanto l’insistere su una “gestione extra- o antiparlamentare” della crisi stessa. Se il Parlamento viene rapidamente messo fuori gioco, anche il governo e lo stesso sovrano appaiono non meno emarginati; ma alla fine tutto poté svolgersi nei limiti della legalità, per quanto intesa in modo solo formale. Già sul finire dell’anno infatti i più attenti fra gli osservatori stranieri parlavano esplicitamente di gabinetto-ombra: per di più, esso era assai ristretto, se – come rende esplicito il carteggio fra i due – solo Salandra e Sonnino ne facevano parte a pieno diritto, mentre Ferdinando Martini, che pure aveva con loro stretti contatti, rimase nettamente in subordine. È nota l’altalena di quei mesi: la spinta alla guerra a fianco dell’Intesa era operante già al cadere della prima decade di agosto, si interruppe durante la lunga e decisiva battaglia della Marna, prese consistenza e si esplicitò nella seconda metà di settembre, per trascinarsi poi abbastanza stancamente durante l’inverno, riprendere con forza a febbraio e concretizzarsi agli inizi di marzo, quando sembrò accentuarsi il pericolo, che teneva continuamente in allarme l’Italia, di una pace separata fra Russia e Austria, a tutto vantaggio della prima. Nel frattempo, anche se con estrema lentezza, si portavano avanti le trattative con gli Imperi centrali, intavolate fin dal settembre, che sfociarono, in seguito al pressante intervento tedesco, nelle concessioni presentate ai primi di maggio, faticate quanto inutili. Ma i ministri, alcuni dei quali intanto si erano dimessi o erano stati sostituiti in relazione all’eventualità della guerra, di tutto questo seppero fino al 7 maggio poco più di ciò che trapelava da indiscrezioni giornalistiche o d’ambasciata. D’altronde sarebbe difficile delineare quella che oggi chiameremmo una “politica ministeriale”, o qualcosa che andasse oltre una gestione più o meno accurata del proprio settore. Si potrebbe parlare forse di una tendenza, da parte di Salandra, a trasformarsi in una specie di cancelliere, se non ci fosse stato, tutt’intorno, questo vuoto, che d’altronde egli favoriva non solo aiutando il disimpegno altrui, ma cercando di confondere le carte in tavola, in un giuoco difficile ed ambiguo, condotto con una tenacia sorniona, che solo di tanto in tanto si rompeva per dar luogo a veementi invettive contro chi facesse impedimento alla trama che egli andava tessendo, e soprattutto contro “l’imbelle democrazia”. (…) (Neppure il Parlamento) viveva di una vita molto florida, dato che non solo fu vacante la maggior parte del tempo, ma – secondo una prassi già seguita in occasione dell’impresa libica – venne convocato a cose fatte, per sanzionare un’entrata in guerra che, più volte e ancora di recente, aveva esplicitamente dimostrato di non volere, quasi a renderne ufficiale l’umiliazione e la sconfitta. (…) Sembra che i più abbiano paura ad affrontare il terreno minato delle prospettive per il prossimo futuro, e lascino l’incombenza ai grandi, limitandosi a perorare (…) la causa di questo o quel luogo, settore economico, gruppo sociale. (…) Qui è la chiave per intendere come mai il 20 maggio – ad appena una settimana dalle dimissioni con cui Salandra aveva preso atto dell’ostilità della Camera alla sua politica – su 482 presenti ben 407 votassero a favore del conferimento al  governo dei poteri straordinari per l’entrata in guerra, senza nessun dibattito, senza prendere in nessun modo le distanze da una decisione a cui si erano dichiarati fino al giorno prima contrari. Dei 74 voti contrari, 47 furono quelli espressi dal gruppo parlamentare socialista, l’unico che tenesse non solo a ribadire la propria avversione alla guerra, ma tutta la pericolosità implicita nei modi in cui si era giunti all’intervento. (…) Si trattava in realtà di un atteggiamento che, proprio in quanto affondava le sue radici nell’assenza di forme di aggregazione politica sufficientemente solide e spersonalizzate, era denso di pericoli e di minacce per il futuro più, forse, del cosiddetto “colpo di stato” di Salandra e della compiacente tolleranza che il governo aveva usato soprattutto nell’ultimo mese verso le manifestazione e le violenze dei diversi gruppi interventisti. Altrettanto incerto e contradditorio fu il ruolo svolto dal re, prima e dopo la firma del Patto di Londra, avvenuto il 26 aprile 1915. Si trattava di un re al quale lo Statuto attribuiva poteri d’intervento assai precisi, che a più riprese aveva esercitato un’iniziativa preminente nella direzione della politica estera, ma che di fatto e volontariamente rinunciava in quel momento ad esercitarla e veniva in qualche modo costretto a farlo, nella direzione da altri voluta: coinvolto suo malgrado, ma anche per sua colpa. (…) E se Sonnino mostrava di essere perplesso riguardo al silenzio mantenuto con il re in merito alle ormai avanzate trattative londinesi, Salandra rispondeva tranquillamente il 16 marzo che eventuali opposizioni del sovrano, come del Parlamento, non gli parevano probabili, nonostante il diverso orientamento. Ciò significava considerare già sconfitti, fuori gioco, due dei poteri fondamentali dello Stato. Si è disquisito a lungo per stabilire se il patto di Londra coinvolgesse il re, il paese, o solo il governo firmatario, e dunque se la crisi, apertasi con le dimissioni di Salandra il 13 maggio, fosse una farsa o meno; così come si è molto discusso se la rinuncia di Giolitti a tornare al potere fosse dettata dalla consapevolezza dell’inevitabilità per chiunque di attuare l’intervento nei modi e nei tempi previsti dal patto, oppure dalla convinzione che un governo “intesista” potesse meglio concludere le trattative con l’Austria e la Germania, giunte ad un punto decisivo. Il fatto stesso, però, che tali interrogativi siano potuti fondatamente sorgere, sta a dimostrare la natura complessa e per certi versi abnorme della situazione costituzionale venutasi a creare in Italia fra il 1914 e il 1915. È un’Italia disorientata e divisa quella “ufficiale” che decide o accetta l’intervento, e che solo su un punto si trova d’accordo: nel giudicare l’esercito inetto e impreparato rispetto al compito che l’attende. La sfiducia emerge (…) anche dagli atti degli uomini del potere, preoccupati di ridurre l’esercito a mero esecutore di accordi diplomatici già stipulati, e dagli attacchi degli interventisti contro quanti avevano abbassato il livello di efficienza, di preparazione, di equipaggiamento militare, quando se mai era vero che le spese per l’esercito, tradizionalmente assai cospicue, erano state di recente ulteriormente gonfiate. I problemi dell’esercito erano in realtà altri, e si chiamavano, ad esempio, inadeguatezza sul piano legislativo ed organizzativo per ciò che concerneva sia il funzionamento interno, sia i rapporti con l’esterno, inconsistenza e rigidità dei piani operativi e degli indirizzi strategici rispetto alle esigenze di un esercito di massa. “”





Storia d’Italia. Dall’Unità ad oggi. Libro 11. Lo stato liberale. pg. 1977-1984. Einaudi/Sole24Ore, 2005.

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