“” La
cittadinanza, prima di essere un modo di vita e forse, in certe epoche, una
sorta di “mestiere”, è anzitutto, e resterà sempre, uno status giuridico: in latino si dice un ius. (…) dall’associazione, dal “contratto” sociale e politico iniziale,
nasceva una natura “morale” dell’uomo, poiché occorreva accordarsi, almeno
implicitamente, su una gerarchia di fini e di mezzi. (…) I cittadini, in
maggioranza, giorno per giorno, vivevano (…) la vita collettiva.
Ciò che li
colpiva maggiormente erano gli evidenti vantaggi derivanti dalla loro
associazione: la protezione quotidiana di una comunità che garantiva a ciascuno
ed a tutti, attraverso le istituzioni e il diritto, la sicurezza delle persone
e della proprietà (…) e l’accumulo di ricchezze e agi consentito dai rapporti
commerciali, dai mercati organizzati, dalle feste e dalle fiere, dai porti. Poiché
i “beni comuni” – un ponte, un corso d’acqua, un litorale, pascoli, miniere –
appartenevano a tutti, il loro sfruttamento assennato doveva essere sufficiente
per far fronte, in linea di massima, alle spese che comportava l’organizzazione
della comunità: assicurare il culto degli dei (…), costruire edifici e luoghi
pubblici, garantire quelle attività di gestione, finanziaria o di altro tipo,
che necessitavano d’impiegati e di salari. Questo, in fin dei conti, l’ideale
molto banale che cercava di realizzare, alla meno peggio, quel modesto
organismo che era la città.
Tutto sommato, il “voler vivere insieme” antico e
soprattutto un “voler vivere meglio”, in un tranquillo equilibrio.
Questi i
vantaggi della vita civica che ogni cittadino può constatare quotidianamente e
che ha diritto di pretendere. Concepita da una tale angolazione utilitaristica,
la vita civica è, insomma, un’associazione naturale che, al tempo stesso, ha
qualcosa sia della famiglia, in quanto raggruppa uomini di origine più o meno
comune, che della società commerciale (…) in cui il computo degli apporti e dei
benefici di ognuno è la regola ordinaria.
Ogni città è, di fatto, combattuta
fra queste due concezioni, non facili da conciliare: la solidarietà istintiva
(e spesso falsa) derivante da una “origine comune” (…), da una parte; dall’altra,
il puntiglioso egoismo di ogni “associato”, che si arroga il diritto di
valutare quotidianamente vantaggi e inconvenienti della sua partecipazione agli
affari comuni e che, in fin dei conti, può sempre riservarsi la possibilità di
rompere il contratto (se si ritiene leso), attraverso l’emigrazione, la
secessione o anche la “rivoluzione” (…) o la guerra civile che, per mezzo della
violenza, tende a ristabilire un equilibrio minacciato: visione razionale, in
qualche modo giuridica e contabile, del patto fondamentale.
In questa visione,
è ovvio accettare che i grandi vantaggi della vita in comune comportino qualche
sacrificio: gli “oneri” o i “doveri”. (…)
In cambio di tutto ciò che riceve,
ogni cittadino deve, all’occorrenza, rispondere alla chiamata comune per la
difesa e il mantenimento delle “cose di tutti”. Egli è dunque, in quanto
cittadino, costantemente e a priori debitore, e ciò sotto tre aspetti
principali: deve a tutti prestazioni riguardanti (…) la persona, i suoi beni,
ma anche qualcosa di più immateriale e altrettanto importante: il suo “buon
senno”, i suoi “pareri illuminati”. Vediamo del resto che questi aspetti
corrispondono grosso modo all’obbligo militare, all’obbligo fiscale e, infine,
alla deliberazione politica e all’esercizio di certe cariche.
In breve, il
cittadino è, per la stessa natura delle cose, un soldato che può essere
mobilitato, un contribuente, un elettore ed eventualmente anche un candidato a
determinate funzioni. (…) Riguardano, e obbligano, tutti i cittadini, sin dal
momento in cui entrano a far parte della città. “”
“L’uomo romano”, a cura di Andrea
Giardina, capitolo primo, “Il cittadino, il politico”, di Claude Nicolet, pagg.
6-11.
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