venerdì 5 giugno 2015
Singolo, plurimo o multiplo?
Un estratto di questo articolo è stato pubblicato su AdviseOnlyBlog nella rubrica #IlGraffio in data 5.6.2015.
Il Decreto Competitività (D.L. 91/2014) ha introdotto misure di “governance” societaria tendente alla facilitazione della quotazione di società per azioni, permettendo l’emissione di azioni con diritto di voto maggiorato (doppio) se possedute per almeno 24 mesi (cosiddette “loyalty shares”): azioni con diritto di voto plurimo per le società non quotate, azioni con voto maggiorato in sede di assemblea, per le società quotate.
Alcune società quotate (Amplifon, Astaldi, Campari) hanno aderito alla opzione entro il 31.1.2015, termine entro il quale la modifica statutaria era consentita con maggioranza semplice (dopo tale data, è richiesta una maggioranza qualificata).
Questa è la risposta italiana alla prosecuzione della prassi dei “salotti buoni” (troppo spesso con i divani sdruciti), fiancheggiati da una legislazione al servizio delle ex-grandi imprese; una norma che rende difficile fare impresa in modo razionale, efficiente, guardando al mercato e non ai propri interessi “di bottega”.
In che cosa consiste il voto multiplo, o plurimo? Perché un voto plurimo? Quali sono gli obiettivi? Che cosa significa, per gli azionisti di minoranza?
Partiamo da un recente esempio: tramite Exor, gli Agnelli controllano Fiat Chrysler con il 30% delle azioni, ma il loro potere di voto (c.d. “voting power”) potrebbe salire al 46%, grazie ad un “loyalty scheme”, messo in atto al momento della fusione per “premiare” gli investitori di lungo termine; lo schema prevede che gli azionisti che detengono le azioni per 3 anni abbiano 2 voti per ogni azione posseduta; la ragione è indicata nel “filing” (dichiarazione ufficiale) resa da Fiat Chrysler alla SEC: “ to make more difficult for Fiat Chrysler Automobiles (FCA) shareholders to change FCA’s management or acquire a controlling interest in FCA”. Una misura 100% lecita e consentita dalla legge USA (dove viene adottata da 9 società quotate, su 4.400: “not such a big slice of the cake“).
Il voto plurimo consente quindi agli azionisti di controllo il mantenimento della loro “presa” sulla società, sia già quotata, sia quotanda: un meccanismo, nel secondo caso, che risulta vantaggioso per le imprese a capitale familiare, che in caso di quotazione potrebbero raccogliere mezzi finanziari significativi senza “perdere” il controllo della società.
Con il voto plurimo, si consente ad un socio (o gruppo di soci) che scendesse sotto la maggioranza del capitale di mantenerne il controllo di fatto attraverso la previsione di poter contare, e quindi votare, con delle azioni che “pesano di più”.
Con il voto plurimo, gli azionisti di minoranza di una società che adottasse tale principio, in caso di aumento di capitale sono quelli che “ci mettono soldi freschi e buoni” e si trovano a vederli gestiti da un gruppo di comando che decide anche per loro. E’ la prosecuzione in peggio del “salotto buono”.
Il voto plurimo va contro la diffusione della quotazione, e quindi del mercato, per le imprese italiane: se la sotto-capitalizzazione è uno dei peccati “mortali” delle imprese italiane, non è prevedendo maggiori poteri (col voto plurimo) a chi non avesse fondi sufficienti per “stare dietro all’aumento” e che cercasse di mantenere il controllo che si fa il bene del mercato.
La minaccia di un “takeover” è salutare: mantiene efficiente il “management”; tiene sulle spine le minoranze di controllo.
Il mercato dei capitali è più vivace se nessuno ha una “golden share”, od equivalente. Il passaggio di proprietà attraverso un’OPA è più semplice se non c’è un’azionista che con il 20% del capitale sociale controlla il 40% dei voti in assemblea
L’orientamento degli investitori istituzionali (fondi di investimento) è quello di votare contro le proposte di adozione del voto multiplo da parte delle società quotate italiane; Assogestioni ha diramato (dicembre 2014), un comunicato ove si sottolinea l’ “evidente effetto di stabilizzare all’infinito il controllo di alcuni azionisti con la metà dello sforzo”. Non piace che sia stato concesso alle società già quotate di poter usufruire di un percorso facilitato, in assemblea ordinaria. Negli USA solo 9 società quotate su 4.400 adottano il voto multiplo, come anche ad Hong Kong, Tokio, Sydney. I fondi hanno un peso non secondario nell’azionariato (ma non nella governance) di importanti società italiane; alle ultime assemblee, valevano il 32,4% di Unicredit, il 25,6% di Atlantia, il 27,55% di Finmeccanica, il 28,6% di Eni, il 31,5% di Intesa San Paolo, il 27,8% di Telecom Italia. E molti sono dei “big”: BlackRock ha investito 18,9 miliardi di euro sul listino italiano, Vanguard 9,6 miliardi, Norges Bank 6,7 miliardi; i primi 12 fondi esteri pesano per 72,7 miliardi su una capitalizzazione totale di 483,4 miliardi, il 15%: non proprio bruscolini.
Da parte nostra, siamo dell’avviso che il principio “una azione, un voto” sia preferibile.
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