“” Nel 1884,
nella classifica delle città pestilenziali europee Napoli si piazzava
sicuramente ai primi posti. (…) Napoli può essere considerata come un grande
anfiteatro che dalle colline degrada verso la baia e ha come palcoscenico il mare.
Una conformazione geografica “pittoresca” che non favorisce l’espansione
edilizia. Se a questo si aggiunge la completa e secolare assenza di regole e di
pianificazione, non è difficile spiegare l’incredibile affollamento che si
manifestava soprattutto nella parte più popolare: la città bassa. Già verso la
metà dell’Ottocento non c’era più traccia di parchi, grandi piazze e giardini,
e la mancanza di spazio spingeva a costruire quegli altissimi edifici lungo strettissimi
vicoli. (…) L’abisso del degrado, l’ultimo girone infernale, erano i cosiddetti
“fondaci”, specie di “grotte urbane”
dove vivevano dai 30000 ai 90000 uomini, donne e bambini in uno stato di
miseria e di abiezione al di là dell’immaginabile. Ma tutta la città bassa,
quella dove si accalcava la parte più povera della popolazione, circa 300000
persone, era in condizioni disastrose. In certi vicoli lo spazio disponibile a
persona era di mezzo metro quadrato. Per farsi un’idea di cosa ciò significhi
basta pensare che i galeotti, sulle galere medievali veneziane, potevano
contare su un metro quadrato a testa, cioè sul doppio dello spazio. E ogni
tanto i galeotti scendevano a terra. (…) Come c’era da aspettarsi, le
condizioni delle reti idriche, acquedotti e fogne, e dei sistemi si smaltimento
dei rifiuti erano,a dir poco, precarie. (…) L’acqua finiva in circa 2000
cisterne sulla cui tenuta stagna non si poteva contare. Impossibile calcolare
le infiltrazioni che da un suolo contaminato da escrementi passavano in questi
depositi d’acqua. Dalle cisterne l’acqua veniva poi attinta con secchi adibiti
a molteplici usi, che quindi contribuivano a un ulteriore inquinamento. Tuttavia
chi si serviva di queste cisterne poteva considerarsi fortunato. L’acqua tirata
su dai circa 4500 pozzi artesiani era imbevibile e pesantemente contaminata dai
liquami fognari dispersi al suolo. La popolazione ricca e benestante, che
viveva sulle colline, se la cavava meglio, raccogliendo l’acqua piovana in
cisterne private. La condizione delle fogne era, se possibile, ancora peggiore.
In teoria esistevano 180 chilometri di fogne, realizzate però per il drenaggio
dell’acqua piovana, ma lo stato di abbandono, di negligenza, di assenza
secolare di manutenzione rendeva questa rete praticamente inutile. Quel poco
che le fogne riuscivano a trasportare finiva nella Baia, inquinando il mare,
dal quale venivano pescati i molluschi, un cibo molto popolare, e veniva
ricavato clandestinamente il sale, per evitare di pagare la tassa che gravava
su questo alimento. C’erano poi 4000 pozzi neri, il cui svuotamento era a
carico dei proprietari privati, non sempre solerti e pronti a intervenire
quando il liquame superava il livello di guardia. La gran parte delle
abitazioni, soprattutto nella città bassa, non aveva alcun tipo di sistema
fognario. I “bisogni” finivano nelle scale, nei cortili o per strada. (…) Non
meno disastrosa era la situazione della pulizia urbana. (…) I rifiuti
ammucchiati e messi da una parte dagli spazzini la mattina venivano, in teoria,
portati via il pomeriggio da imprese private, che usavano strumenti
rudimentali. Li possiamo immaginare: un carro sgangherato, trainato da un
vecchio asino barcollante e caricato da uno o due ragazzini, pagati meno di un
adulto, che non arrivavano nemmeno alla sponda. Questa operazione di carico
delle immondizie ammucchiate si risolveva spesso in un nuovo spargimento. Quello
che non era sparso subito dai ragazzini, troppo piccoli per riuscire a caricare
i rifiuti, veniva perso per strada a causa delle buche, dei sobbalzi e della
copertura approssimativa del carretto. La mattina dopo gli spazzini
ricominciavano ad aprire un varco nell’immondizia. (…)
Gli indici di mortalità
della città bassa nella Napoli di fine Ottocento erano molto vicini al limite
dell’insostenibilità demografica. (…)
Secondo gli storici, la grande espansione
demografica di Napoli dal Seicento in poi era stata stimolata, più che dal
fiorire di nuove produzioni agricole o manifatturiere, dal suo ruolo di
capitale del Regno delle Due Sicilie. Una città quindi dove affluivano, da
tutto il Sud, i prodotti, soprattutto agricoli, destinati all’esportazione e
dove arrivavano i manufatti di importazione. Una specie di enorme emporio (..).
La società napoletana dell’Ottocento (…) offre l’immagine di una povertà che
non solo non veniva combattuta, ma era, in un certo senso, sfruttata e
aggravata. (…)
Come il colera fosse arrivato a Napoli fra il luglio e l’agosto
del 1884 non è chiaro. (…) Alla fine di agosto, dopo vari casi sporadici e
diagnosi sospette per la loro reticenza, l’epidemia esplose con una violenza
micidiale. Il 31 agosto morirono di colera 82 persone e il bollettino andò
aggravandosi rapidamente fino a raggiungere, il 10 e 11 settembre, la cifra di
550 morti.
Alla gravità della situazione sanitaria si aggiunse quella sociale.
Il
panico travolse la città e l’improvviso attivismo dell’amministrazione locale
seminò il terribile sospetto che il colera fosse in realtà un complotto per
ridurre di numero la popolazione più povera, con un vero e proprio genocidio. (…)
Le terapie anticolera erano quasi tutte più letali dello stesso colera. Cioè,
lasciato al suo corso, il colera uccideva circa il 50 per cento dei contagiati,
con le “cure” si arrivava a una mortalità anche dell’80 o del 90 per cento. Nei
primi giorni del settembre 1884, il quadro che si presentò ai napoletani meno
fortunati era terribile. I circa 150000 cittadini più ricchi erano fuggiti; il
colera si abbatté sugli strati più poveri che vivevano in condizioni igieniche
precarie (per ragioni che oggi ci sembrano ovvie ma che allora non lo erano);
la mortalità colpiva soprattutto i giovani adulti più poveri (mentre i medici e
i “ricchi” venivano risparmiati); le squadre sanitarie comunali, ma viste in
tempi normali in certi quartieri, intervenivano con la forza. La situazione
sfuggì al controllo delle autorità. Vi furono rivolte, attacchi ai medici e ai
loro aiutanti, processioni di flagellanti che estorcevano l’elemosina ai pochi
passanti, scene di isteria religiosa di massa. (…)
Nel caos della città in
preda al colera arrivarono a Napoli il re d’Italia Umberto I e il primo
ministro Agostino Depretis. Non fu una visita formale né, come accadeva in
situazioni “pericolose”, rapida. Il re e il primo ministro si trattennero
diversi giorni, proprio mentre l’epidemia era la massimo, visitarono gli
ospedali dove erano ricoverati i colerosi, incontrarono gli ammalati, si
accorsero dell’insufficienza delle misure prese dal comune e dettero ordine di
trasformare in ospedale le caserme militari di Piedigrotta e di Maddalena, e,
accompagnati dai volontari della Croce Rossa, si recarono nei quartieri della
città bassa dove si resero conto di persona delle condizioni di vita della
maggior parte dei napoletani. (…) I due protagonisti della visita rimasero
sconvolti da quanto avevano visto e decisero che una situazione del genere non
era tollerabile non solo per solidarietà umana (…) ma anche perché Napoli, in
quelle condizioni, rappresentava un focolare di infezione per tutta la nazione,
perché i danni commerciali, turistici, finanziari erano incalcolabili, e perché,
come avevano dimostrato altre città europee, la bonifica urbana, la costruzione
di reti idriche adeguate, l’organizzazione di servizi di nettezza urbana
efficienti potevano ridurre e addirittura eliminare (era il caso di Londra) il
pericolo del colera.
L’attacco alla città pestilenziale era stato deciso. In tempi
rapidissimi, forse per il timore di un ritorno del colera l’anno successivo, il
15 gennaio 1885 il Parlamento italiano approvò la legge per il risanamento
della città di Napoli (ad appena due mesi dalla fine dell’epidemia,
ufficialmente conclusasi con l’ultimo caso a metà novembre del 1884) e stanziò
un fondo di 100 milioni di lire per la grandi opere necessarie. Secondo le
statistiche ufficiali, le vittime del colera del 1884 erano state a Napoli, in
appena due mesi e mezzo, 7200 e questa doveva essere l’ultima epidemia .””
Lorenzo Pinna,
Autoritratto dell’immondizia, pagg. 149-169. 2011.
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