I big della rete
(Google, Facebook, Apple,..) offrono servizi gratuiti in cambio dello “sfruttamento”
dei nostri dati: quando “si naviga” in internet e si “chatta” sui social
network, a fronte dell’accesso gratuito gli utenti accettano di essere “osservati
dal buco della serratura” lasciando tracce e dati; questi dati assumono un “valore
commerciale” per la rete che le “smercia” ad imprese, intelligence, governi; da
qui è nata la “querelle” sulla “privacy”, con approcci diversi fra la UE
(restrittivi) e gli USA (dove viene considerata un servizio negoziabile, se ad
un “prezzo” equo). Oggi, il 54% sei servizi online proviene da imprese USA e
solo il 4% da imprese europee; nel 2016, si stima che 340 milioni di persone
avranno trasferito i propri dati ad un “cloud”. BCG stima che entro il 2020 l’8%
del PIL UE verrà da servizi online e “cloud”; stima meno ottimistiche indicano
un contributo dell’1,9% al PIL europeo, quasi 260 miliardi di euro. Il valore
dei dati personali non è solo economico per le imprese che ne hanno accesso;
per i governi e le intelligence l’accesso ai dati personali assume importanza
crescente per il monitoraggio di attività criminali, o che lo possano divenire.
Dibattuti fra un improbabile ritorno al “buon selvaggio poco informatico” ed un
“grande fratello”, siamo tutti consapevoli che “la dinamo informatica è la
macchina che darà forma alla nuova società del XXI secolo”.
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