Un estratto di questo articolo è stato pubblicato nella rubrica #IlGraffio su AdviseOnlyBlog in data 19.10.2015.
La Corte di Giustizia europea ha invalidato l’accordo,
definito “safe harbour”, che è sinora servito per gestire il passaggio di dati
sensibili e personali dagli utenti europei di “big data” (Google, Facebook,
Apple, LinkedIn, Bankrate, Yelp, Twitter, …) ai centri di elaborazione (“data center
& storage”) negli USA, sulla base del principio (nella versione europea) di
protezione della “privacy”.
Il tema non è solo giuridico (vertendo sulla
diversa concezione di “privacy”: massima tutela in Europa, servizio negoziabile
se ad un prezzo equo negli USA), ma soprattutto economico:
quanto valgono i
dati personali per chi li “gestisce” e li “vende” a imprese, governi, agenzie
di controspionaggio?
Hanno un valore economico?
Ed in caso affermativo, quale è
il “tornaconto” per l’utente?
I big della rete offrono servizi gratuiti in
cambio dello “sfruttamento” dei nostri dati: quando “si naviga” in internet e
si “chatta” sui social network, a fronte dell’accesso gratuito gli utenti
accettano di essere “osservati dal buco della serratura” lasciando tracce e
dati; questi dati assumono un “valore commerciale” per la rete che le “smercia”
ad imprese, intelligence, governi.
Oggi, il
54% dei servizi online proviene da imprese USA e solo il 4% da imprese europee;
nel 2016, si stima che 340 milioni di persone avranno trasferito i propri dati
ad un “cloud”, attraverso una rete che è una sorta di grande autostrada
planetaria, fatta di 800.000 km di cavi sotterranei che collega i nostri pc,
tablet, smartphone alla rete telefonica più vicina (“router”), da qui a snodi
locali che trasmettono, in tempo reale, dati ed informazioni al “data center”
più vicino, collegato a sua volta a tutti gli altri, in modalità “web” e “cloud”;
si eliminano i dati fisici, si creano quelli “virtuali” in rete, a disposizione
del “server” (chi fa il servizio di “storage”), e gestiti dall’amministratore
dei dati che attraverso software ad hoc elabora e “raffina” i dati raccolti,
mettendoli a disposizione del cliente finale che “compra” questi dati per
utilizzarli a fini commerciali (“profilatura” del cliente e quindi contatti
mirati per vendere servizi e beni: ecco la fonte di email e messaggi “promozionali”
ricevuti quotidianamente), di controspionaggio (lotta alla criminalità ed al
terrorismo), di utilizzo per fini amministrativi da parte del governo (uffici
delle entrate, anagrafe tributaria e residenziale,…).
Ma quanto “vale” questo business?
BCG stima che entro il 2020 l’8% del PIL UE verrà
da servizi online e “cloud” (quindi, circa 1.000 miliardi di euro nel 2020);
stime più prudenti indicano un contributo dell’1,9% al PIL europeo, quasi 260
miliardi di euro. Vendite on-line, biglietterie informatiche (viaggi, acquisto
biglietti per concerti, eventi, visite museali, cinema,..), scommesse, servizi
finanziari, acquisto di dati ed informazioni, altri servizi ancora da
inventare: è la nuova economia, fruibile comodamente seduti davanti al pc di
casa, o sdraiati sul divano (quindi, più sensibili agli stimoli commerciali),
in auto e camminando per le vie della città.
Questi valori si trovano tradotti nella
capitalizzazione di borsa dei grandi colossi internet: Facebook vale 262
miliardi di US$, Twitter 19 miliardi, LinkedIn 25 miliardi. Nuovi “player”
entreranno nel mercato e cercheranno di crescere e conquistare spazi di nuove
attività. “Avanti, c’è posto!” per la nuova imprenditorialità.
Dibattuti fra un improbabile ritorno al “buon
selvaggio poco informatico” ed un “grande fratello”, sarà bene essere tutti
consapevoli che “la dinamo informatica è la macchina che darà forma alla nuova
società del XXI secolo”.
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