Come la lunghezza delle gonne ed il taglio dei
capelli, i mercati emergenti vanno ed escono di moda: il FMI stima che il 2015
sarà il quinto anno consecutivo di rallentamento delle economie dei paesi
emergenti (Russia e Brasile in recessione, la Cina in “soft landing”); il “problema”
è che questo rallentamento (visibile anche negli utili aziendali, che dal 2010
sono cresciuti ad una cifra, anziché le 2 del periodo precedente, e nel ROE
sceso di 7 punti percentuali nel periodo considerato) è stato accompagnato da
un aumento del debito delle imprese: escludendo il settore finanziario e
banche, il rapporto Debito/PIL dei paesi emergenti è al 90% (fonte HSBC), ed in
Asia il 125% (era l’80% nel 2009). Minore crescita significa minore capacità di
ripagare il debito, ed il peggioramento del cambio valutario significa
accresciuta difficoltà a ripagare il debito in valuta straniera (per la maggior
parte, in US$). Secondo l’ultimo sondaggio di BofA/Merrill Lynch, i 2 fattori
di maggiore rischio per gli investitori sono “recessione cinese” e “debito
emergenti”. La bassa crescita potrebbe indurre i governi ad aumentare le tasse
od imporre controlli sui prezzi, imputando a società e/o speculatori stranieri
la responsabilità delle difficoltà (in una sorta di nazionalismo economico).
Secondo Capital Economics, più di 260 miliardi US$ hanno lasciato i paesi
emergenti nel solo terzo trimestre del 2015, pari al 4% del PIL di questi
paesi.
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