domenica 26 luglio 2015

Alassan odia le strade ...



“” Alassan è un tuareg. Vede nel deserto cose che a me sfuggono, un filo di polvere nell’orizzonte che trema per la calura, la luna che si leva quando il sole è ancora alto e chiaro. (…) Alassan si farà seppellire in un sudario tessuto a maglie larghe perché la sabbia vi penetri e lo avvolga in un abbraccio. Ma non vive più nell’immensità delle sabbie, seguendo le vaghe tracce che lasciano a forza di secoli i rari passaggi degli uomini e delle bestie, o nella serie di tavole ciclopiche dell’Air, le sue colate di lava nera. (…): con le frontiere che hanno incatenato il deserto, e poi le siccità spaventose, nel 1963 e poi nel 1973 e ancora ogni dieci anni, come una maledizione, che fa piangere per la sete, asciuga pozzi millenari, uccide il bestiame e li ricaccia verso il Niger, le terre dei neri, che li considerano parassiti e terroristi e sperano che il deserto, un giorno, li inghiotta.
Alassan odia le strade, perfino quella tutta buche e fossi che ne abusa il nome per andare dalla capitale ad Agadez. Forse ha ragione quando dice che la strada è il primo vincolo che l’uomo ha imposto alla libertà. Quando un Paese comincia a lasciarsi avvincere dalle strade come da una grande rete, significa che gli abitanti hanno fretta, non sono più padroni del loro tempo. Non conoscono più viaggi simili a sogni attraverso dune silenziose e montagne piene di luce e di echi. La strada dice all’uomo, al tuareg: tu devi passare di qui! E lo condanna a camminare con regolarità accasciante sopra una striscia eguale, sterile e senza fine.
Un’ora di viaggio è simile all’altra, un giorno è simile all’altro. Si perde l’abitudine all’osservazione, il senso dell’orientamento, la facoltà di comprendere gli avvenimenti della natura, quel linguaggio eloquente delle cose che fa divinare al nomade i passaggi e i pericoli, che fa leggere nelle orme della sabbia la vicinanza di un nemico, che nelle ombre delle rocce e degli alberi dice l’ora del giorno. “”A poco a poco la strada ci ha privato di questo grande dialogo tra la nostra anima e Dio, camminiamo tristemente, noi che eravamo i signori della terra, su quell’infinito nastro di melanconia che non ci lascia altra occupazione che meditare la causa di tutti i inostri dolori””. “

Domenico Quirico, “Il grande califfato”, prima ed. gennaio 2015, pagg. 153-154.

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