“” Alassan è un
tuareg. Vede nel deserto cose che a me sfuggono, un filo di polvere nell’orizzonte
che trema per la calura, la luna che si leva quando il sole è ancora alto e
chiaro. (…) Alassan si farà seppellire in un sudario tessuto a maglie larghe perché
la sabbia vi penetri e lo avvolga in un abbraccio. Ma non vive più nell’immensità
delle sabbie, seguendo le vaghe tracce che lasciano a forza di secoli i rari
passaggi degli uomini e delle bestie, o nella serie di tavole ciclopiche dell’Air,
le sue colate di lava nera. (…): con le frontiere che hanno incatenato il
deserto, e poi le siccità spaventose, nel 1963 e poi nel 1973 e ancora ogni
dieci anni, come una maledizione, che fa piangere per la sete, asciuga pozzi
millenari, uccide il bestiame e li ricaccia verso il Niger, le terre dei neri,
che li considerano parassiti e terroristi e sperano che il deserto, un giorno,
li inghiotta.
Alassan odia le
strade, perfino quella tutta buche e fossi che ne abusa il nome per andare
dalla capitale ad Agadez. Forse ha ragione quando dice che la strada è il primo
vincolo che l’uomo ha imposto alla libertà. Quando un Paese comincia a
lasciarsi avvincere dalle strade come da una grande rete, significa che gli
abitanti hanno fretta, non sono più padroni del loro tempo. Non conoscono più
viaggi simili a sogni attraverso dune silenziose e montagne piene di luce e di
echi. La strada dice all’uomo, al tuareg: tu devi passare di qui! E lo condanna
a camminare con regolarità accasciante sopra una striscia eguale, sterile e
senza fine.
Un’ora di
viaggio è simile all’altra, un giorno è simile all’altro. Si perde l’abitudine
all’osservazione, il senso dell’orientamento, la facoltà di comprendere gli
avvenimenti della natura, quel linguaggio eloquente delle cose che fa divinare
al nomade i passaggi e i pericoli, che fa leggere nelle orme della sabbia la
vicinanza di un nemico, che nelle ombre delle rocce e degli alberi dice l’ora
del giorno. “”A poco a poco la strada ci ha privato di questo grande dialogo
tra la nostra anima e Dio, camminiamo tristemente, noi che eravamo i signori
della terra, su quell’infinito nastro di melanconia che non ci lascia altra
occupazione che meditare la causa di tutti i inostri dolori””. “
Domenico Quirico, “Il grande califfato”,
prima ed. gennaio 2015, pagg. 153-154.
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