“” .. nel
profondo del Niger, qualche anno fa, seduto con Aisha su una stuoia di fronte
alla porta della sua capanna, sudore di mezzogiorno, terra secca, ombra di un
albero rado, urla di bambini che corrono tutto intorno, quando lei mi
raccontava della palla fatta con la farina di miglio che mangiava tutti i
giorni della sua vita e io le domandai se mangiava davvero quella palla di
miglio tutti i giorni della sua vita e ci fu uno shock culturale: “Be’, tutti i
giorni che posso”. Mi disse così e abbassò gli occhi con vergogna e io mi
sentii un verme, e continuammo a parlare del suo cibo e della mancanza di quel
suo cibo e io, povero sprovveduto, mi confrontavo per la prima volta con l’espressione
più estrema della fame e dopo un paio di ore piene di sorprese le domandai –
per la prima volta, la domanda che in seguito avrei fatto così tanto – se avesse
potuto chiedere quello che voleva, qualunque cosa, a un mago capace di
dargliela, che cosa gli avrebbe chiesto. Aisha esitò un po’, come chi si
confronta con qualcosa di inconcepibile. Aisha aveva trenta o trentacinque
anni, il naso da rapace, gli occhi di tristezza, la stoffa lilla a coprire
tutto il resto. “Voglio una vacca che mi dia molto latte, così se vendo un po’
di latte posso comprare quello che mi serve per fare le frittelle da vendere al
mercato e così più o meno me la caverei”, “Intendevo che il mago può darti
qualunque cosa, tutto quello che gli chiedi”. “Qualunque cosa davvero?”. “Sì,
tutto quello che gli chiedi”. “Due vacche?” mi disse in un sussurro, e mi
spiegò: “Con due sì che non avrei fame mai più”. Era così poco, pensai come
prima cosa. Ed era tanto.””
Martin
Caparròs, “La fame”, 2014/2015, pg 3-4.
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