giovedì 26 novembre 2015

Un mondo ad emissioni ridotte.






Secondo i dati  World Meteorological Organization (WMO), l’aumento di CO2 nell’atmosfera è cresciuto del 43% rispetto ai tempi della rivoluzione industriale, raggiungendo le 4.000 parti per milione, che è il livello atteso anche per il 2016, nonostante i proclami e gli impegni presi a livello mondiale per la riduzione dell’emissione (principalmente, causata dalle attività umane). 
La temperatura media del globo è aumentata, ormai in modo stabile, di 1° e aumenterà di 2° entro il 2035 (fonte: Intergovernmental Panel of Climate Change, IPCC, organismo dell’ONU), limite massimo indicato dai climatologi oltre il quale gli squilibri avrebbero conseguenze catastrofiche.

Essere consapevoli dei rischi è premessa necessaria, cui deve seguire una azione globale per ridurre il rischio sempre più evidente e prossimo di catastrofe. Gli impatti sarebbero devastanti per la vita sul pianeta: fauna, flora, mari, fauna marina, uomo sarebbero direttamente colpiti, divenendo a rischio estinzione. Non quantificabili sarebbero gli impatti sulle fonti alimentari, sulla salute, sulla vita del pianeta.

Sinora, i programmi presentati sono stati “top-down”: grandi accordi siglati in riunioni plenarie (Kyoto, Rio dei Janeiro, Copenhagen) privi di azioni conseguenti; da oggi si cambia, con l’adozione di programmi “bottom-up”: alla Conferenza di Parigi, 166 paesi (su 195 coinvolti) hanno presentato impegni volontari di riduzione di emissioni. Guardando ai singoli impegni volontari di 147 piani ufficiali, l’IPCC ha constatato che essi non bastano per contenere il riscaldamento del pianeta entro i 2°, ma porterebbero complessivamente ad un innalzamento di 2,7°, quindi oltre la soglia di rischio climatico catastrofico; i gas-serra continuerebbero a crescere ad un ritmo del 40% sul periodo 1990-2025 e del 45% sul periodo 1990-2035.

La situazione complessiva -- sul breve termine e facendo il raffronto fra sviluppo economico avuto rispetto al 2013 che è stato un +3% del PIL mondiale ed emissioni di gas-serra che fra 2013 e 2014 sono rimaste allo stesso livello – risente comunque del positivo contributo delle fonti rinnovabili ed alternative come fonti energetiche, e tenuto conto che il consumo di energia è aumentato nel breve periodo (seppure con tassi inferiori a quelli di crescita del PIL).


Ma quali sono i paesi che emettono più CO2? Quali impegni hanno messo “nero su bianco” nei loro piani ufficiali? Che cosa manca e non funziona?


Attualmente, i ¾ delle emissioni globali sono prodotti da 10 aree: Cina (che produce 1/3 del totale di 35 milioni di tonnellate di CO2 annue), Stati Uniti (circa il 15%), UE 28, India, Russia, Giappone, Sud Corea, Brasile, Indonesia, Canada; il resto del mondo, complessivamente, produce meno di 1/3 delle emissioni.

La Cina è quindi il paese che dovrebbe fare il “salto in avanti” più significativo: oggi, emette 10,3 milioni di tonnellate annue di CO2; si pone l’obiettivo di arrivare a 3,85 milioni; in base al piano presentato, la Cina avrà un “picco” nel 2030, si impegna a ridurre del 60-65% rispetto al 2005 per unità di PIL, di aumentare del 20% la quota di fonti energetiche diverse da quelle fossili (oggi, la Cina è il maggior utilizzatore di carbone), di aumentare la consistenza delle sue foreste di 4,5 miliardi di metri cubi rispetto al 2005. Piani ambiziosi, che richiederanno anche imponenti investimenti diretti ed indiretti (modifiche nel modo di produrre, muoversi, riscaldare e condizionare le abitazioni), sia privati che pubblici (in larga parte).

Gli Stati Uniti oggi emettono 5,3 milioni di tonnellate annue di CO2; si impegnano a ridurre le emissioni di gas-serra del 26-28% per il 2025 rispetto al 2005, con una emissione annua (anno-obiettivo) che scenderà a 4,3 milioni.

I paesi della UE si sono complessivamente impegnati a ridurre le emissioni da 3,7 milioni di tonnellate annue a 2,6 milioni nell’anno-obiettivo, attraverso un piano che prevede riduzioni annue nella misura di almeno il 40% rispetto al 1990, entro il 2030.


E l’Italia? Come sempre, la “prima della classe” nei proclami: più che dimezzare l’emissione di CO2 da 0,39 milioni di tonnellate a 0,17 milioni, entro il 2030. 

Ma sono credibili e raggiungibili questi obiettivi nazionali? Con quali risorse, investimenti, costi questo obiettivo potrà essere raggiunto?


Su questi temi, politica governo ed industria (non solo delle energie: pensiamo a quanto dovrà essere fatto dall’industria di trasformazione manifatturiera meccanica, alimentare e così via) non fissano piani e programmi di dettaglio degli investimenti richiesti, di dove e come questi saranno richiesti e destinati, di quali costi addizionali le produzioni nazionali saranno appesantiti. 

Investimenti e maggiori costi (almeno nel breve-medio periodo) significheranno anche minori utili, minori dividendi, impegni finanziari addizionali; tutti aspetti che azionisti, investitori, finanziatori sono chiamati ad approfondire e ben valutare. 
Ci si dovrà attendere anche un “passaggio” di risorse, “focus”, impegni da “vecchie tecnologie” (basate sull’impiego di fonti energetiche fossili) a “nuove tecnologie”, che quindi potranno e dovranno crescere ed arricchirsi ed arricchire (professionalità e competenze). 

Le “avvertenze” per gli investitori sembrano chiare: puntare sulle industrie “pulite” e che creano tecnologie “pulite” al servizio di questo “vaste programme” mondiale.


Occorre un “salto oltre la siepe”, confidando che gli indubbi passi in avanti fatti dalla ricerca nel campo delle energie rinnovabili, dell’efficienza energetica, delle biotecnologie ed altre discipline possano “ricadere” in modo positivo sul “fare industria” e lavorare al servizio del complessivo “benessere” nazionale (e non solo).




Nessun commento:

Posta un commento