“”Mai forse
come nelle settimane immediatamente successive al 4 novembre 1918 i vari
componenti il fronte interventista cedettero vicina la meta (..): la
fuoriuscita da quella sorte di limbo oltre il quale stava il ristretto club
delle “grandi potenze”.(…) Quanto però fossero lontane dalla realtà tali
aspettative fu reso subito evidente dall’andamento della conferenza di pace. L’assenza
dell’Italia dalle trattative per la sistemazione dei grandi problemi del
riassetto europeo fu il primo segnale della sfasatura esistente tra le
illusorie ambizioni e la realtà delle cose: il ministro degli esteri italiani,
ad esempio, non mancò di interessarsi alla questione della lingua ufficiale
della conferenza, ma tralasciò di intervenire sul problema della Società delle
Nazioni. Le prime rivendicazioni nazionalistiche, alimentate dall’andamento
della conferenza e indirizzate contro i rappresentanti italiani, sembrerebbero
trovare una conferma nelle valutazioni che del comportamento di Orlando e
Sonnino ha dato la memorialistica del protagonisti e degli osservatori,
soprattutto di parte anglosassone: Lloyd George e Lansing hanno insistito sulla
non armoniosa composizione della delegazione italiana, soffermandosi sui dati
di carattere antagonistici del presidente del Consiglio e del ministro degli
esteri italiani; J.M. Keynes, a sua volta, ha osservato come Orlando, pur
facendo parte del Consiglio dei Quattro, vi recitasse un ruolo assolutamente
secondario, non foss’altro perché, ignorando completamente l’inglese, non aveva
possibilità alcuna di comunicare né col residente Wilson, né col premier
inglese; l’anedottica sulla scarsa conoscenza dello stesso francese e sull’ignoranza
geografica del presidente italiano alimenterà del resto anche i diari e la
memorialistica italiana. Impressionarono, invece, la chiusa freddezza e l’autoritarismo
di Sonnino, “un freddo, deciso, diplomatico imperialista della vecchia scuola”,
che riuscì ad imporre alla delegazione una linea e un metodo ispirati al
principio del “sacro egoismo”, e cioè a intervenire nella discussione dei
problemi internazionali soltanto e unicamente per sostenere le immediate
rivendicazioni italiane. Però (…) le radici della scarsa incidenza italiana
alla Conferenza della pace dovevano manifestarsi nel tipo di politica estera sostenuta
da quella delegazione e, più in generale, dalla reale forza del paese che
quegli uomini rappresentavano. (…) Sonnino sembrava non avere compreso che
fatti nuovi, diversi nella loro entità, ma convergenti nei loro risultati,
avevano ormai aperto l’era dela “nuova diplomazia”: i bolscevichi avevano
portato la rivoluzione anche in questo campo pubblicando i testi di tutti gli
accordi segreti sottoscritti dalla diplomazia zarista, mentre il presidente
Wilson aveva proclamato e tentato di affermare nuovi principi, che con la
pubblicità dei documenti diplomatici modificassero la natura dei rapporti tra i
popoli. Quanto il modo di concepire e di realizzare la politica estera fosse
ormai radicalmente mutato, del resto, lo si vide fin dalla stessa composizione
della delegazione americana alla Conferenza di pace. Con i suoi milletrecento
collaboratori, tra i quali facevano spicco storici e giuristi, statistici ed
economisti, geologi e geografi, essa faceva apparire la piccola delegazione
italiana, formata per lo più da diplomatici della vecchia scuola e da membri
dell’apparato statale, un vero e proprio avanzo del passato. Ma, soprattutto, i
rapporti internazionali avevano ormai acquisito una dimensione internazionale,
e di questo gli italiani non parvero in alcun modo consapevoli (…) La scomparsa
dell’Impero asburgico e di quello turco, la caduta del Reich e dell’Impero
russo, sottrassero all’Italia tutti i punti di riferimento poggiando sui quali
essa aveva potuto in qualche misura supplire alla propria debolezza di fondo
per svolgere una politica estera relativamente autonoma (…). La realtà, come
scrive Potemkin, era che “sebbene l’Italia fosse compresa alla Conferenza della
pace nel gruppo delle grandi potenze, nessuno le faceva più caso dopo la
disfatta di Caporetto (…)”. A ben guardare, l’unica indicazione di fondo che
pare emergere dalla politica estera italiana del dopoguerra è quella di un
costante riferimento in posizione subalterna alla linea inglese, e per
comprendere appieno i limiti di tale atteggiamento è sufficiente ricordare che,
con la guerra, la Gran Bretagna era stata definitivamente soppiantata dali
Stati Uniti d’America nel ruolo di “direttore d’orchestra” della politica e
della finanza internazionale, che aveva svolto incontrastata fino al 1914. Ed era
agli Stati Uniti, a loro volta trasformati da potenza tradizionalmente
debitrice in potenza creditrice, che l’Inghilterra e la Francia dovevano
riferirsi per la ricostruzione dell’economia europea, adattandosi per questo a
non osteggiare la ripresa della Germania. A maggior ragione lo doveva dunque l’Italia,
per allontanare da sé lo spettro della catastrofe e della rivoluzione, che la
guerra aveva evocato. (…) Le pretese italiane si erano accresciute in
proporzione geometrica, mentre le possibilità reali non erano aumentate neppure
in proporzione aritmetica.””
Storia d’Italia. Dall’Unità a oggi.
Libro 11. Lo stato liberale. pgg 2060-2064. Einaudi/IlSole24Ore, 2005.
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